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Autore: BlackEyedSheeps    20/08/2013    4 recensioni
Era lei.
Lei che cercava di confondersi fra la folla, di mimetizzarsi con la rumorosa fauna turistica, di seguire un gruppo di persone di cui aveva appena intuito le traiettorie, ma una volta che Clint aveva agganciato l'obiettivo, difficilmente se lo lasciava sfuggire.

[Clint/Natasha]
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Maria Hill, Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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 Avvertenze: Questa storia, scritta a quattro mani, segue a grandi linee la continuity del film, mentre Occhio di Falco è liberamente ispirato alla versione a fumetti di Matt Fraction.
La nostra personale versione del: “Inviarono l’agente Barton ad uccidermi. Lui decise in modo diverso.
 
Disclaimer: Occhio di Falco, La Vedova Nera e tutti gli altri personaggi non ci appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.
 
Jeremy Renner appartiene solo a se stesso, a noi, nei nostri sogni, a Scarlett Johansson (sempre nei nostri sogni), il 7 di ogni mese, per gentile concessione (di lei).
 
 
**
 
 

Perché in quei momenti già inizia a sembrarmi che non sarò mai capace di cominciare a vivere una vera vita;
perché ho già avuto l’impressione di aver perso ogni misura, ogni senso della realtà, della autenticità;
perché, infine, ho maledetto me stesso...

(Fëdor Dostoevskij, "Le Notti Bianche")
 
 
San Paolo, Brasile
Aeroporto Privato
Ore 23:17

 

 

Si specchiò per un istante nella pozza scarlatta che si stava aprendo ai suoi piedi. Il proprio, distorto riflesso, sembrò osservarla di rimando, rosso e indistinguibile, rivolgendole una muta accusa.
 
Un rumore lontano a risvegliarla dal torpore improvviso.
 
Stai perdendo la testa, si disse.
 
Rialzò il capo, osservando il corridoio grigio e spoglio disseminato da una manciata di divise blu. Non le aveva degnate di uno sguardo, quelle cinque guardie. I suoi occhi si erano fissati, da subito, sul primo premio. Scavalcò il cadavere dell'uomo riverso a terra - Elìas Figueroa, se aveva fatto bene i suoi conti (non che si fosse concessa margini di errore) - il completo elegante ormai rovinato irrimediabilmente. Mentre si chinava sulle ginocchia per dare un'occhiata alla valigetta che l'uomo teneva ancora ammanettata ad un polso, si chiese a quanto sarebbe ammontato il conto della lavanderia, se Figueroa fosse miracolosamente tornato in vita per accorgersi del danno. Uno sproposito, suppose. Continuò a distrarsi con l'idea mentre faceva sparire due dita nello scollo della felpa nera aderente che indossava, estraendone una chiave elettronica.
 
(Senza dubbio, appena sottoposto il problema in lavanderia, l'avrebbero guardato storto, trattenendosi a malapena dal chiedergli se non fosse impazzito.)
 
Studiò rapidamente il meccanismo della valigetta, trovando il punto giusto in cui inserire la scheda (gingillo per cui altri tre uomini, solo una misera mezz'ora prima, avevano perso la vita). Uno spreco inutile, si era detta, pur comprendendo la necessità di appropriate misure di sicurezza. Una piccola parte di lei ne era quasi soddisfatta: contro ogni buon senso, stava cercando di evitare i lavori troppo semplici. Quella di cui aveva bisogno era una paga come si deve, che le desse un po' di respiro e del tempo per riflettere.
 
(Ci sarebbe stata una sommaria previsione, un silenzioso assestamento dei danni, dopodiché l'avrebbero avvisato di non aspettarsi granché, guardandosi bene dal dirgli che una cosa - con sicurezza - poteva aspettarsela: uno scontrino da capogiro.)
 
La lucina rossa sul display della valigetta lampeggiò un paio di volte prima di spegnersi con un sonoro scatto: il coperchio si sollevò senza problemi, rivelandone il contenuto.

(L'uomo avrebbe insistito, avrebbe lasciato il completo nelle sapienti mani del personale al bancone, e se ne sarebbe andato con un sorriso speranzoso sulle labbra.)
 
La chiavetta USB sembrò guardarla a mo' di scusa dal suo involucro in gommapiuma: aveva un'aria terribilmente misera, un tesoro troppo piccolo per uno scrigno tanto complicato.
Le istruzioni erano chiare, si rammentò, sfilandola dal suo supporto senza ulteriori perplessità. Lanciò una rapida occhiata al volto dell'uomo, una smorfia di disappunto sul proprio. Il pensiero la colpì come uno schiaffo a mano aperta: persone come lui non sistemano le cose rotte, si limitano a buttarle via e a comprarne di nuove. Vestiti, orologi, macchine, donne. Che importanza avrebbe avuto? Che stupida, pensò tra sé e sé, rimettendosi finalmente in piedi.
Ricaricò la pistola - le armi tedesche, doveva ammetterlo, non erano poi così male - controllò il silenziatore ed imboccò il corridoio, scansando i cadaveri uno ad uno, fermandosi solo per sfilare il badge di sicurezza dal collo di una delle guardie. Svoltò a sinistra, seguendo mentalmente la mappa dell'hangar e dell'edificio adiacente che aveva passato una notte intera a memorizzare, e un'altra a controllare di persona per accertarsi che corrispondesse alla realtà. Continuò a camminare, rapida e silenziosa, accertandosi via via che le telecamere di sicurezza fossero ancora disattivate. Le guardie di ronda avrebbero concluso il loro giro - il terzo della serata - di lì ad un minuto circa. Sessanta secondi prima che si accorgessero dei cadaveri nella sala di controllo; cinquantacinque - ammettendo una certa prontezza di riflessi - prima che riattivassero le telecamere.
 
Sbucò in un corridoio-galleria che dava direttamente sull'hangar illuminato solo per metà, quel tanto che bastava per indovinare la silhouette di un piccolo jet sul lato opposto a quello attualmente aperto. Una serie di tavoli erano stati sistemati al centro dello stanzone: uno di essi ospitava tre computer accesi, gli altri, armi di tipi diversi, alcune montate, altre smontate e disposte ordinatamente su panni verdi. Tre manichini erano stati allineati a qualche distanza dai tavoli su cui erano esposte le armi; tutti e tre avevano riportato considerevoli danni (un braccio, una testa, un buco nello stomaco). Le luci dei computer proiettavano ombre spettrali ai piedi dei presenti.
 
Riconobbe l'uomo alto e massiccio che sembrava tenere la situazione sotto controllo: capelli folti e grigi, completo beige. Si stava accendendo una sigaretta, mentre sette uomini irrigiditi gli guardavano le spalle, lanciando occhiate sospettose in ogni direzione. Avevano un'aria fin troppo minacciosa in confronto ai tre ometti che li stavano fronteggiando: due indossavano camici bianchi e capelli improbabilmente impomatati (Non di loro iniziativa, ipotizzò), il terzo, un completo troppo largo per la sua corporatura minuta. Sembravano preoccupati, continuavano a scambiarsi occhiate fugaci, a controllare freneticamente gli orologi. Natalia li compativa: di lì a poco, la situazione si sarebbe fatta terribilmente scomoda.
 
Sapeva, infatti, che Rustam Valikhanov, il miliardario kazako dall'accentuata tendenza alla megalomania, avrebbe atteso inutilmente le sue preziose istruzioni per l'uso. O qualsiasi cosa ci fosse dentro la chiavetta USB per cui aveva ucciso non meno di dieci persone (sapeva benissimo che erano nove, ma non voleva ammettere di aver fallito - per l'ennesima volta - nel proposito di non tenere il conto).
 
Attraversò la galleria, stando ben attenta a nascondersi al di sotto delle vetrate che davano sull'hangar. Raggiunse la porta che l'aspettava dalla parte opposta, usando il badge sottratto ad una delle guardie, per attivare la serratura elettronica. Abbassò la maniglia e spinse. Non l'aveva aperta che di un misero spiraglio, quando le parve di scorgere qualcuno nell'area immediatamente esterna all'edificio. Riaccostò con cura, rivolgendo una silenziosa e poco convinta preghiera a nessuno in particolare, sperando di non essere stata notata.
 
Diverse figure vestite di nero sfrecciarono ai bordi della pista d'atterraggio, avvicinando l'entrata dell'hangar e uscendo, così, dal suo campo visivo. Imprecò a mezza voce, realizzando di avere compagnia. Compagnia non richiesta. Richiuse la porta prima di poter attirare inutilmente l'attenzione. Rimase in ascolto. Una smorfia di disappunto sul viso mentre realizzava quanto fossero rumorosi. Un'altra, seccata stavolta, quando capì che stavano salendo la scala che li avrebbe condotti da lei. Non si scompose più di tanto. Si arrampicò sull'intelaiatura di metallo della porta, approfittando dell'area ridotta del corridoio per restare sospesa in un angolo del soffitto, sorreggendosi con piedi e mano libera - l'altra impugnava ancora la pistola - puntati in tensione contro le pareti.
 
Una squadra di quattro agenti si riversò all'interno del corridoio un attimo dopo. Non meno di un terzo del totale della forza presente, stimò tra sé.
Non le ci volle molto per riconoscere il logo impresso sulle divise: SHIELD.
Arricciò il naso, contrariata e vagamente impressionata al tempo stesso. Quelle istruzioni dovevano valere più di quanto pensasse se erano riuscite a scomodare un'organizzazione tanto potente (come decidessero di utilizzare quella potenza, poi, era un'altra faccenda: Natalia li aveva visti compiere numerosi errori, sprechi di energie e mezzi; ma ottimizzare i metodi della concorrenza, non era di certo suo compito).
 
Non era la prima volta che aveva a che fare con loro: sapeva che l'assassinio della figlia di Drakov, restituita al padre in undici, macabre rate, aveva mandato all'aria certi loro accordi diplomatici; che l'aver tolto di mezzo alcuni personaggi, figure pubbliche, aveva creato loro imbarazzo a livello internazionale; che l'incendio dell'ospedale di Stoccarda, nel quale avevano perso la vita decine di persone, aveva reso critica la sua posizione nei loro confronti.
 
Natalia non aveva il tempo di quantificare i guai in cui si sarebbe trovata quando gli uomini dello SHIELD si sarebbero accorti di essere arrivati tardi alla festa. Non appena la porta si fu richiusa al loro passaggio e il corridoio si rifece deserto, atterrò sul pavimento senza il minimo rumore. Utilizzò nuovamente il badge per aprire la porta, uscendo in fretta e furia all'esterno dell'edificio, una scalinata metallica ai suoi piedi. Si aggrappò alla ringhiera, saltando oltre, lateralmente, per raggiungere il suolo senza troppi preamboli.
 
L'aeroporto privato era piccolo e a malapena illuminato: non c'era bisogno di attirare troppa attenzione sull'incontro tra il magnate kazako e i rappresentanti di una nuova fabbrica d'armi in ascesa (stanziata nel sud del Cile, temporaneamente in trasferta), per mostrare al ricco, potenziale acquirente, gli ultimissimi modelli di fucili di precisione, pistole da combattimento e quant'altro, con un occhio di riguardo per certe bombe batteriologiche che promettevano di far furore sul mercato della guerra. Il cuore di quelle bombe, il vero piatto ricco dell'incontro, era stato accuratamente nascosto, fuori dalla portata della concorrenza, in un luogo sicuro. Qualche banca - forse in Svizzera o alle Cayman - o magari in un bunker su un'isola sperduta, supponeva. Natalia non poteva ancora esserne sicura: il lavoro consisteva nel recuperare la collocazione del virus e gli schemi delle armi, nel caso ci fosse qualcosa che valesse la pena provare a riassemblare. Nella migliore delle ipotesi, la sua parte si sarebbe conclusa con la consegna della chiavetta, una stretta di mano, e una montagna di soldi in più sui suoi conti correnti.
 
Scivolò lungo il perimetro dell'edificio, puntando verso nord, in direzione della recinzione metallica che aveva superato solo due ore prima per raggiungere l'aeroporto. La vegetazione era stata adeguatamente rimossa per svariate centinaia di metri, ma la foresta riprendeva a crescere non molto distante, promettendo protezione e invisibilità.
 
Si allontanò con discrezione, tentando al contempo di prestare attenzione all'azione in corso: dal punto in cui si trovava, sembrava che lo SHIELD avesse fatto irruzione all'interno dell'hangar. Valikhanov, però, doveva essersi accorto del cambio di programma perché l'aereo con il quale era arrivato era appena stato messo in moto: Natalia immaginò che volesse tentare la fuga, sorprendendo gli agenti con un'uscita dal lato opposto dell'hangar.
 
Non aveva né il tempo, né la voglia di trattenersi a scoprire cosa sarebbe successo. Il rumore del motore del piccolo jet privato di Valikhanov le permise di prendersi qualche libertà, sollevandola dall'obbligo di essere sempre e solo inquietantemente silenziosa. Raggiunse senza fretta il retro dell'edificio, facendosi scudo di altri blocchi secondari per avvicinarsi ulteriormente alla recinzione. Si appiattì contro la parete, mentre il motore del jet si spegneva sotto una scarica di spari. Si assicurò di avere il cappuccio della felpa calato sul capo, di potersi facilmente confondere con il buio della notte ormai inoltrata. Inspirò a fondo e contò fino a tre, prima di lanciarsi  in una folle corsa in direzione della recinzione. Durò solo pochi secondi, ma le parve un'eternità: corresse di poco la propria traiettoria quando ebbe individuato il punto in cui la recinzione era stata opportunamente sollevata al suo primo passaggio. Alle sue spalle, gli uomini dello SHIELD - e quelli di Valikhanov senza alcun dubbio - continuavano a far fuoco.
 
Passò in scivolata al di sotto della recinzione, riemergendo dall'altra parte con un po' meno fiato e qualche sbucciatura in più. Riprese a correre dopo l'ennesima boccata d'aria, senza fermarsi, finché non ebbe raggiunto il punto in cui la vegetazione si faceva finalmente più alta.
 
La foresta la inghiottì senza esitazioni.
 
 

 

San Paolo, Brasile
Aeroporto Internazionale Guarulhos
Ore 5:42

 

 

Il barista al di là del bancone si muoveva con gesti meccanici e sguardo vacuo mentre spostava e distribuiva tazze di caffè americano, cappuccino e tè a chi si accingeva a partire o tornare verso un paese del mondo a loro scelta. Non pareva neanche accorgersi di quello che stava facendo, ma i suoi movimenti erano precisi, accompagnati a piccoli cenni o frasi in risposta ai clienti che lo ringraziavano, lo salutavano o semplicemente gli rivolgevano la parola.
 
Natalia prese il suo tè in bicchiere da passeggio, chiedendosi se, da fuori, anche lei avrebbe fatto quell'effetto a chi l'avesse vista lavorare. Di certo, si trattava di due professioni completamente diverse, ma più di una volta, nel bel mezzo dell'azione, si era sentita scivolare in un turbine di inerzia, come se i suoi arti si muovesse prima che il suo cervello potesse registrarne le mosse. Le capitava, semplicemente, di diventare spettatrice di se stessa, che la sua mente si mettesse seduta ad osservare lo spettacolo del suo corpo, un corpo che sapeva esattamente cosa fare senza ricevere alcuna istruzione.
 
Naturalmente, sapeva che si trattava solo di un'impressione, che se vi avesse fatto troppo affidamento, un giorno o l'altro sarebbe stata un po' troppo lenta, un po' troppo goffa, un po' troppo in ritardo... e allora lo spettacolo a cui avrebbe assistito sarebbe stato completamente diverso.
 
Sprofondò nelle sue consuete fantasie di sconfitta, mentre pagava per la colazione e rivolgeva un impercettibile saluto al barista, ora improvvisamente rianimato dall'arrivo di quella che pareva una collega, magari per dargli il cambio e permettergli di tornare a casa dopo una notte estenuante.
 
Raggiunse la sala d'attesa dopo un rapido controllo dei voli in partenza. Quello che l'avrebbe portata a Parigi non era ancora arrivato. Si mise compostamente a sedere su una poltroncina libera, sorseggiando un po' del suo tè amaro e ripromettendosi di fare la conta dei lividi e dei danni non appena avesse messo piede in Europa. Lasciò vagare lo sguardo sulle immediate vicinanze: prima che potesse realizzarlo, aveva già contato quattro famiglie - una di tre, due di quattro e una di cinque persone - sette coppie, due gruppi. Bambini svegli e pimpanti le sfrecciavano davanti, inseguendosi a vicenda sotto lo sguardo stanco e cerchiato di genitori ancora assonnati.
 
Non li invidiava. Le avevano insegnato a compatire quella gente per anni (nessun sano sentimento di pietà, intendiamoci), e adesso, quel senso di superiorità - sebbene indebolito e sempre meno convinto - ancora se lo portava dietro. Li guardava muoversi attraverso la vita, riempiendo i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, con frenesia e panico, con l'unico vero obbiettivo di dimenticarsi di quanto fosse vuota in realtà. Il loro scopo, le avevano detto, era in realtà archiviare quella nozione di inutilità maledetta in un remoto cassetto della propria mente, per far sì che non ne riemergesse mai più, per impedirle di tornare a terrorizzare le menti, a far vacillare gli animi.
 
Natalia si era abituata a quella sensazione di vertigine: quand'era piccola ne era spaventata, ma la paura l'aveva abbandonata presto, sostituita da consapevolezza, rassegnazione e determinazione. Camminava tra le persone, osservandole muoversi come avrebbe osservato degli animali fantastici, rinchiusi in enormi gabbie di vetro. Con la ridicola convinzione - lei lo sapeva - di poter vedere loro, ma non viceversa. Come se la vita di tutti i giorni, quella altrui, fosse per lei uno spettacolo continuo, un'inesauribile fonte di curiosità e diletto. Tuttavia, c'erano dei giorni - quelli peggiori - in cui il dubbio le serpeggiava in petto: e se fosse stata lei l'animale in mostra? E se il vetro che sembrava rinchiudere gli altri, in realtà, stesse rinchiudendo solamente lei?
 
Rifiutava con forza l'ipotesi, ma - nei momenti di maggior coraggio o noncuranza - le piaceva prenderla in considerazione,  freddamente e con lo scrupolo di uno scienziato che stia sezionando un cadavere, giusto per dimostrare che chi aveva fatto tanti sforzi per plasmarla, crearla, usarla, aveva solo finito per renderla un essere umano nient'affatto straordinario, con gli stessi dubbi di chiunque altro. Ai suoi occhi era, insomma, un loro fallimento. Eppure, quand'era sincera con se stessa, sapeva che gli obbiettivi della Red Room erano ben altri, tutti raggiunti con risultati talmente eccellenti da ritorcersi contro il progetto stesso.
Non erano passati che un paio d'anni da quando aveva deciso di mettersi in proprio, di vivere secondo i propri ritmi, i suoi e di nessun altro. Libera di scegliere gli incarichi che preferiva, quelli più interessanti, complessi o di maggior prestigio, più spesso quelli che promettevano un compenso più alto. Era quello il caso della missione di San Paolo: il misterioso Mr. Billmann, l'aveva contattata affinché recuperasse la coordinate del virus e gli schemi di costruzione delle armi cilene di nuova generazione. Un quarto del compenso in anticipo, il resto a lavoro fatto. Spese di viaggio incluse nel prezzo. Billmann non l'aveva totalmente convinta, era quasi del tutto certa che fosse un nome inventato (aveva trovato poco o niente quando aveva cercato conferma della sua identità) e che l'uomo che si era presentato come tale non era affatto il diretto interessato. Ma la promessa di tutti quei soldi l'aveva tentata al punto di soprassedere sui propri dubbi (non senza prendere, ovviamente, le dovute precauzioni) e a tentare la fortuna. Avrebbe potuto prendersi un pausa, decidere il da farsi, preoccuparsi della propria sicurezza, trovare un alloggio consono alle sue esigenze. Il viaggio d'andata si era svolto senza intoppi e il quarto del compenso, promesso in anticipo, debitamente depositato sui quattro conti che Natalia gli aveva indicato. Era sicura che la trappola, sempre che fosse stata reale, si sarebbe palesata di lì a poco, ma non aveva alcuna fretta di correrci incontro.
 
Si portò casualmente una mano al petto, sentendo il rettangolino rigido della chiavetta USB premuto contro il seno destro, al sicuro dentro al risvolto del reggiseno, confezionato appositamente in un tessuto particolare che l'avrebbe nascosta ai metal detector e resa invisibile a qualsiasi tipo di scanner. Al sicuro.
 
Lo scoppio di un pianto improvviso la riportò alla realtà: uno dei bambini che si stavano rincorrendo intorno alle file di poltroncine della sala d'attesa era adesso a terra, rosso in viso, il volto scintillante di lacrime e muco. Immaginò che fosse quella la faccia di qualcuno che è appena andato a sbattere a muso duro contro la realtà.  O, in quel caso, il pavimento. Non le capitava più tanto spesso, ma si sentì in colpa per il pensiero impietoso un attimo dopo averlo formulato. Il padre, un ometto sui quaranta coi capelli ricci e biondi e il ventre sporgente, arrivò prontamente in soccorso del figlio, mettendo fine sia alla crisi di pianto del bambino, che ai sensi di colpa di Natalia.
 
Lo schermo delle partenze lampeggiava sopra le loro teste: il volo per Parigi invitava all'imbarco.
Bevve un altro sorso di tè prima di rimettersi in piedi, percorrendo mentalmente il percorso dalla sala d'attesa al gate 13. Superò la scena del piccolo dramma familiare, immettendosi nella galleria di negozi che l'avrebbe accompagnata fino al suo volo. Un altro schermo, dall'interno di un negozio di souvenir attirò la sua attenzione: l'edizione mattutina del telegiornale mostrava alcune immagini da un piccolo aeroporto privato ad est di San Paolo, un jet in fiamme, cadaveri coperti da teli neri, disseminati appena fuori da un hangar crivellato di colpi. "Scontro a fuoco tra trafficanti di armi", titolava la scritta in sovrimpressione.
 
Riprese a camminare senza neppure rendersene conto. In fondo, non le interessava. Provava solo una vaga e vuota soddisfazione nel pensare al quartier generale dello SHIELD sommerso da scartoffie, documenti, e-mail e fax che pretendevano spiegazioni convincenti.
 
Probabilmente, si disse, non sanno neppure cos'è che li ha colpiti.
 
 

 

New York City
S.H.I.E.L.D. Central
Ore 18:00
 

 

“Soggetto identificato, signore.”
Un guizzo nell'unico occhio sano, un fremito delle labbra, impercettibile.
Lo schermo, a favore di sguardo, rimandava una ben nota immagine.
Le mani serrate sulla scrivania e l'ira repressa che fremeva per uscire nella sua forma più distruttiva.
 
“Che sta succedendo là dentro?” Maria Hill raggiunse l'agente Coulson.
Le grida si potevano sentire perfino dal corridoio.
“Fury”, fu la serafica risposta, mentre si versava una generosa tazza di un caffè tutt'altro che invitante “A quanto pare la nostra russa preferita è comparsa di nuovo sulla scena del crimine.”
La Hill non nascose una smorfia di disappunto, tutto quello che probabilmente aveva da dire sulla faccenda.
“Conviene mettersi comodi”, le suggerì Phil, regalandole magnanimamente la bevanda che la donna però rifiutò con un cenno del capo. “E' tutta la mattina che il quartier generale è in fermento.”
“Come se non avessimo altro da fare che occuparci di inutili scartoffie...”
“Inutili?” rispose scettico lui.
Bevve un sorso di caffè, prima di avvertire il direttore chiamarlo a gran voce.
“Pausa finita”, sospirò, scambiando un'occhiata significativa con la donna.
Lanciò il caffè ammezzato nel cestino accanto alla scrivania e, concedendosi un profondo respiro, entrò nella sala comandi.
“Signore…” palesò la sua presenza, restando placidamente in attesa di ordini, ben lontano dal provocare l'ennesima, seppur minima, esplosione di Fury.
L'uomo lo accolse con granitica determinazione.
 
“Contatta l’agente Barton”, fu tutto quello che disse.
  

  
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