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Autore: Erbacea    21/08/2013    2 recensioni
I need you just now, your breath on my skin, yourself near to me, in our bed, because only it knows that we love each other.
Ho deciso, parto. Vado da lui. Articolo sorseggiando.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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We all start as strangers

«I need you just now, your breath on my skin, yourself near to me,
in our bed, because only it knows that we love each other.»

 

 
Si ho bisogno di lui. La canzone me lo ricorda, ma continuo a sentirla.  Osservando il finestrino medito, mentre le lacrime amare rigano il mio viso. Chi aveva scritto quel pezzo era davvero un mago o aveva solo indovinato ciò che provavo? Sembra tutto concordato.  Aveva per caso letto il mio diario segreto? Tutto ciò che era inciso in questo momento vaga nella mia testa, come l’alcol scorre nel corpo della persona che ne ha fatto uso, percorrendone ogni vena. Ho bisogno della sua presenza, per me è come drogarmi,  lo voglio al mio fianco sempre con maggiore voglia di baciargli senza sosta il collo, sfiorare ogni parte del suo corpo consapevole che sarebbe stato mio, solo mio. Per sempre.

Il sole intanto comincia a spuntare tra le montagne di fronte la finestra della nostra camera da letto. Devo ammettere che fummo fortunati ad acquistare l’appartamento in quella posizione, così da partecipare, ogni giorno a quel bellissimo teatro di colori vivaci che richiamavano la mia attenzione quando  i primi raggi mattutini si posavano sulle mie candide coperte procurandomi quel calore che  tempo fa mi donava lui abbracciandomi durante la notte. Non dorme più al mio fianco da quando partì per la guerra.  Mi ero innamorata follemente di un militare, ventunenne, all’età di quattordici anni. Sembra facile scegliere chi amare, ma purtroppo non è affatto così. Cupido non premedita, colpisce e basta.
Nessuno è capace di scegliere chi amare. A meno che non abbia una scatola con all’interno tante frecce per far innamorare chiunque. Io caddi tra le braccia di R, un ragazzo normale, con una vita altrettanto normale, eppure lottammo molto per incontrarci, ma adesso è andato di nuovo via, lasciandomi con la nostra bambina in grembo.

Mentre conto i giorni che verranno senza il suo corpo accanto al mio, nel nostro letto, accarezzo tremante nostra figlia, forse l’unico ricordo che avrò del mio amato R, l’uomo che ha cambiato la mia vita fin dal primo momento, con un moderno click. Non è qui, chissà dove. Sfioro la cornice d’oro del nostro matrimonio. Ricordo che mia madre mi consigliava di non sposarlo, perché sarebbe stata dura non vederlo per mesi e mesi, o magari vederlo apparire in tv con lo slogan «Dispersi».
Io lo sposai comunque, eravamo innamorati e volevamo stare insieme. Mi aspettò per interi anni, finché non ne ebbi, finalmente, diciotto. Lo stesso giorno del mio diciottesimo compleanno scappai via. Si, partii per il North Carolina solo per vedere dal vivo il suo bellissimo sorriso. Lo ricordo ancora come se fosse ieri, quel giorno. Soleggiato, con candide nuvole sparse qua e là nel cielo infinito come batuffoli di panna e zucchero filato. Stringevo al mio petto la borsetta, seduta sulle panchine blu dell’aeroporto: aspettavo chiamassero il mio aereo. Si, mi apparteneva  perché avrebbe reso un mio sogno realtà in un giorno o quasi.
R mi chiamava tantissime volte, una ogni minuto: gridava i minuti che mancavano per il volo e poi attaccava la cornetta. Mi scappava un sorriso ogni volta che mi squillava il cellulare. C’era una donna  seduta al mio fianco. Era anziana, lo si vedeva dalle rughe che ogni anziano possiede sul corpo, dalle mani ruvide, la voce roca, ma i suoi occhi erano pieni di esperienza e continuavano a parlarmi luccicando. Mi chiese dov’è che andavo così entusiasta. «Dall’uomo della mia vita» le risposi, sorridendole.
Mi guardò negli occhi, vedevo le pupille dilatarsi. Sorrise e mi tenne la mano tutto il tempo, anche quando cominciava ad essere appiccicosa. «Dimmi – pronunciò con voce roca – dov’è che ti aspetta l’uomo della tua vita?»
«Stati Uniti d’America, è lì che vive.» Dichiarai. Rimase immobile per qualche secondo, poi mi lasciò la mano. Sembrava spaventata all’idea che dovessi partire da sola fino in America. «Dov’è che vive?» chiese di nuovo. «North Carolina, Fort Bragg.» Reagii.  «Capisco. – infilò le dita tra i capelli incontrando qualche nodo argentato su quel capo biondo. «Conosco quel posto, mio marito ci lavorava. Sei consapevole del fatto che potresti dormire da sola per intere notti aspettando il tuo uomo tornare da lavoro?» Continuò.
Annuii. La donna aveva ragione, diamine. Le risposi un «sì» secco, quasi rubato, mentre lei aspettava la risposta a testa bassa. Un sottofondo metallico nominò il mio aereo. Mi alzai improvvisamente, con le valigie ai miei piedi che mi ostruivano il passaggio. Salutai la donna anziana, borsa a tracolle e mi allontanai.
«Dov’è suo marito, adesso?» le chiesi dopo qualche passo.
«E’ in cielo» rispose tremante.
«Allora chi aspetta da tanto tempo sulla panca?» Volevo chiederglielo da molto, ma feci appena in tempo a sentire un leggero «Lui che torni in divisa.» perché voltai l’angolo del corridoio.
La donna rimase in piedi, le scivolò fino al mento una lacrima, poi si sedette di nuovo ad aspettare, accavallando le gambe. Un’altra donna occupò il mio posto a sedere. Meditai su ciò che la donna mi aveva appena raccontato  per tutto il viaggio. Quasi rimasi traumatizzata delle sue parole come un bambino quando scopre che Babbo Natale non esiste davvero, anche se  quel trauma prima o poi passa e un giorno quel bambino farà sicuramente lo stesso torto, anche se in buona fede, ai propri figli.
Otto ore seduta accanto il finestrino, otto lunghe ore ad immaginare i contorni del suo corpo, quello delle sue labbra; ad immaginare la sua voce naturale senza l’iniezione metallica del microfono del computer. Una semplice scatola con un monitor che è stato sempre d’ intralcio, qualcosa che mi proibiva di mostrargli del tutto il mio affetto. Anche a lui infastidiva tutto questo, infatti, anche se già ci amavamo da molto non aveva intenzione di dirmelo attraverso un computer.
«Vorrei dirti ti amo e vedere la tua reazione. I tuoi occhi brillare, le tue labbra mordersi dalla voglia matta di baciarmi. Poterti abbracciare, accarezzarti i capelli e il viso con le mani tremanti per paura di farti del male. E vorrei che tu mi rassicurassi, mi guidassi ovunque vada, per sempre. Vorrei fare con te ciò che ci è solitamente proibito, guardarti per ore intere,  augurarti la buonanotte con un bacio e non con uno stupido tasto che ogni giorno ripete la stessa e monotona frase clicca per chiudere la chiamata»
Tutto ciò che mi ripeteva ogni giorno, la causa dei miei continui pianti. Diamine. Ogni notte, durante quegli anni da adolescente sognavo le nostre corsette pomeridiane in pantaloncini; i suoi amici che interrompevano le partite di calcio per avvicinarsi a noi e salutarci; il suo capo sul mio ventre stesi comodamente sull’erba della villetta del quartiere; la sua voce, la sua dolce voce che continuava a  sfiorarmi il collo procurandomi brividi intensi.  E finalmente i suoi baci, caldi e rassicuranti sulla fronte e sul collo stavo per provarli davvero, dopo tante attese. Quasi morivo dentro pensando tutto ciò.
 

A pensare che l’avevo conosciuto per caso, certo che ricordo quando. Come dimenticarlo. Ricordo tutti i momenti, belli e brutti. Li rivivrei per sempre, se si potesse. Non cambierei nulla.
Ricordo i nostri messaggi, i disegni, gli oggetti che ci scambiavamo per posta, anche se arrivavano dopo tempo. Me li mostrava uno per uno ogni giorno, tutti. Spesso sfiorava la collana che gli regalai per la prima volta. Raffigurava una lisca di pesce. La teneva tra le dita e mi guardava, con gli occhi lucidi e pieni di gioia.
«Vorrei averti tra le mie braccia e dirti quanto ti amo, proprio adesso, sai? La sfioro ogni notte, la tua collana. Perché l’hai indossata tutte le volte, e pensandoci ogni volta ho i brividi. Continuo a sfiorarla perché hai sempre dormito con questo pezzo di metallo al collo, ed ora ho la percezione di averlo fatto anche io. Sento di aver passato con te una notte, o anche due. Per alcuni può essere solo un pezzetto di materiale, per me è come tenerti stretta al petto, incollarti a me e non lasciarti più andare via.»
Per me i suoi regali erano molto speciali, anche se potevo comprarli ovunque. Sapevo che lui li aveva sfiorati, impacchettati dolcemente e spediti. Questo li rendeva importanti. 
Passavamo ore intere a guardarci, senza parlare. Respiravamo e ci osservavamo. Così mi innamorai di lui, dei suoi sorrisi improvvisi, delle sue espressioni. Non sembrava un uomo, ma un bambino che aveva tanta voglia di scherzare. Scherzammo finché non ci innamorammo entrambi. Ricordo anche che voleva vedere solo me, in webcam. Quando invitavo le mie amiche a casa e in serata dovevo «vedermi» con lui non gli parlavo di loro anche se erano con me: una volta in webcam aveva le sorpresine. Mi ha sempre implorato di chiedere alle mie amiche di andare a prepararmi un panino per stare solo con lui. Era talmente dolce quando lo faceva. Ricordo quando, nel pieno delle nostre conversazioni gli dicevo un «ciao» secco e chiudevo la chiamata, o viceversa. Rimanevamo sempre dispiaciuti e ci chiamavamo di nuovo a vicenda. Litigavamo qualche volta, lo ammetto. «L’amore non è bello se non è litigarello», giusto? Lo chiamai anche bugiardo e stupido una volta. Esagerai, anche perché aveva ragione lui. Non mi aveva illusa, avevo fatto tutto io pensando che già dopo due mesi mi amasse. O magari mi amava ma non voleva dirmelo attraverso un computer. Diamine, quasi piangevo perché l’avevo offeso.  Mi scusai subito, lui mi perdonò.
Mi promise che mi avrebbe aspettato, che ci saremmo sposati, un giorno. Mantenne la promessa, ho qui il nostro anello, proprio al mio dito. Chissà se lo fissa, quando è lì.
Ci promettemmo amore, in webcam. Per sempre.
Per sempre è tanto tempo, ma non mi dispiacerebbe trascorrerlo al tuo fianco.Non mi dispiacerebbe per niente. R era lì quando avevo bisogno di lui, lì di fronte a me, con una busta di caramelle gommose e una bottiglia di Coca Cola. Molto spesso le mangiavamo insieme, le caramelle. Mi avvertiva ed io le acquistavo poco prima.
R era lì quando ero felice, sorridevo e le mie guance diventavano così rosse da farsi notare. Diceva di volerle mordere, ma questo non faceva altro che peggiorare la situazione: continuavo ad arrossire.
Gli mostravo gli abiti che ogni sabato indossavo per uscire con gli amici, spesso discutevamo perché tiravo fuori dal grande armadio vestiti troppo scollati. Era geloso, ma non voleva ammetterlo.
Anche io lo ero, ma com’è che si dice? Se un ragazzo è innamorato significa che è dolce. Se lo è una ragazza: che la terza guerra mondiale abbia inizio. Accadeva quasi una rivoluzione ogni volta che visitavo il suo profilo, da ragazzina, e leggevo i post di belle donne che lo citavano.
Morivo dalla gelosia, diamine, perché loro l’avevano conosciuto, anche abbracciato, mentre io ero lì, dietro un aggeggio e continuavo a conservare dentro il mio petto pezzetti di cuore in fiamme.
Ecco che un passerotto si poggia sul davanzale della mia finestra. Sembra che mi voglia parlare di lui, continua a cinguettarmi bellissime melodie. Chissà se R riesce a sentirle, o se si sofferma ad osservare, anche per secondi, il caldo sole mattutino come spesso faccio io.
Sfioro il mio ventre e decisa mi reco sul retro, lentamente. Sfioro i quadri del corridoio, mentre raggiungo il giardino. Ci siamo io e lui, nessuna guerra, o allenamento.  Ecco cosa accadeva quando eravamo insieme: non parlavamo di bollette da pagare, cosa cucinare, preferivamo  raccontare la nostra storia come dei ragazzi che si erano appena conosciuti e sentivano il bisogno di confidarsi. Vivevamo in un mondo a parte, la nostra realtà. Notti intere ad abbracciarci nel nostro caldo letto, per intere stagioni. Si addormentava sempre dopo di me, perché voleva vedermi dormire. Mi rannicchiavo al suo corpo, mentre lui mi stringeva da dietro. Una sensazione magnifica ogni notte, ed avevo la fortuna di averlo tutto per me, potevo finalmente dire «Ecco, questo è il mio uomo».
Purtroppo niente è per sempre, e adesso mi mancano i tuoi abbracci improvvisi, i tuoi caldi baci sul collo che mi facevano sentire a casa mia. Mi manchi, a petto nudo, nel nostro letto, quando disegnavo con le dita dei cerchietti immaginari sulla tua pelle, mentre mi sussurravi all’orecchio «Ti amo piccola».
Ricordo ancora come abbiamo iniziato a parlare. Tutti noi cominciamo come strangers. Un modo buffo per conoscerti, eppure sei diventato essenziale già dal primo giorno, R. Chatroulette, 1 Aprile 2013.

 

«Sometimes i would like to stay in the army just to be your soldier»


 
Ho provato a vivere senza te come mia guida. Come una luce che mi illumina la via.  Purtroppo no, non ci sono riuscita. Adesso le mie lacrime sono terminate, non ho più riserve. Gli occhi prosciugati chiedono aiuto.  Asciutti, come le mie labbra che non ricordano il sapore delle tue.
Ogni notte guardo su nel cielo le stelle, sperando che tu stia facendo lo stesso.  Mi sento vuota dentro senza vederti per un giorno, ma qui i giorni si stanno accumulando e stanno diventando mesi.  Mi sento lacerare, e l’unico motivo per cui il mio cuore continua a battere è la nostra famiglia. La mia ragione di vita.
Mi è arrivata una lettera da mia madre. Dice che le hai spedito, in Italia una lettera indirizzata a me.
 «E’ più facile che arrivi in Italia che negli Stati Uniti» dichiara. Aveva ragione, nella lettera.
Diceva anche che sarebbe venuta qui, nel New Jersey per aiutarmi, poiché tra qualche mese nascerà la nostra bambina. Infatti arriverà tra qualche ora. Le ho preparato la camera, in soffitta. Lì dormirà bene, al caldo, grazie alla vernice termica che hai applicato. Lei fu la prima che seppe di noi, ricordi? Le raccontai di te perché mi accompagnasse poi a Roma, per vederti. Lei fu la prima ad affezionarsi a te. «E’ davvero un bravo ragazzo, proprio come l’hai descritto tu.»
Lei non sapeva come ci eravamo davvero conosciuti, però non poteva credere che la distanza avrebbe ceduto così, ai nostri piedi. Ricordi quando ti dissi «La distanza è solo un esame.»? Tu mi rispondesti con una domanda «Passeremo questo esame?» «Se lo vogliamo, sì.» Risposi. Ce l’abbiamo fatta. Anche quando ti parlai di portarmi via con te fuoriuscì un discorso abbastanza serio ma uno dei miei preferiti.

«Portami via» «Questo è ciò che vuoi?»
«Si.»
«Cosa se ti incontro e poi tu dici no?»
«Non capisco.»
«Perché le persone qualche volta non sanno cosa vogliono davvero.»
«Tu sai cosa vuoi?»
«Si. E tu?»
«Voglio un futuro con te.»


Ti risposi «No» quando mi chiedesti di uscire? O quando ti inginocchiasti ai miei piedi per mostrarmi l’anello? Un modo bizzarro per chiedermi di sposarti. Eravamo al lago, avevi affittato una barca. Tu remavi e mi osservavi, mentre io provavo delle sensazioni strane quando il mio sguardo cadeva sul tuo e mi accorgevo che mi stavi guardando già da un bel po’. Sorridevo, ricambiavi il sorriso. Poi d’un tratto posasti sul bordo della gondola i remi. Ti avvicinasti e iniziasti a scherzare con me. Mi regalasti tantissime emozioni quel giorno, soprattutto quando mi indicasti un posto sconosciuto con l’indice, da lontano. Gridasti «Guarda, un licantropo sulla riva.» Io iniziai a cercarlo ovunque (me ne vergogno ancora oggi) poi appena cadde l’occhio su di te, mi mostrasti quel cofanetto. I miei occhi brillavano, potevi specchiarti, ormai. Mi sussurrasti «Vuoi diventare finalmente mia?» «Si si si si si» questa fu la mia risposta. Scattò il bacio, quel bacio che da tanti anni sognavo ogni notte, quel bacio che potevo solo immaginare quando tu eri lontano 7.183 km guardando coppie baciarsi teneramente sui muretti del parco.
Ti avevo aspettato, e ne valse la pena. Certo, ero ancora una  ragazzina, ma sapevo ciò che stavo facendo. Se si ama da impazzire, bisogna chiudere gli occhi e non pensare. Perché ciò che si sta vivendo non durerà in eterno. Perciò chiusi gli occhi e mi lasciai guidare dal mio cuore. Nel tentato movimento di avvicinarti al mio corpo caldo per le emozioni, i remi caddero in mare. Lo sguardo scattò subito dopo aver  udito lo zampillare delle gocce d’acqua.  Mi sfiorasti prima la fronte con le tue labbra e scivolasti giù accarezzando il mio volto fino alle mie.  Mi afferrasti dolcemente facendomi sedere sulle tue gambe, e mi baciasti per chissà quanto tempo. Ma non mi importava: avevamo superato il nostro esame, ormai la distanza non era che un mattoncino di argilla. Ero tua, tu mio, finalmente.
Il suono del campanello, metallico, ha distrutto tutta l’atmosfera che si era creata attorno al mio corpo. Una bolla protettiva purtroppo è ormai saltata in aria. Forse mia madre è già qui. Già, è lei. «Figlia mia» pronuncia la donna dopo averle aperto la porta. La prego ad entrare in casa, non era mai stata nel New Jersey, né a casa nostra. Mi fece subito i complimenti per la posizione del lotto, per i mobili «e complimenti per il bel ragazzo in cornice» non ha esitato a dire. Per una volta eravamo entrambe d’accordo. Non lo eravamo mai state, perciò sembrava strano ascoltare qualcosa proveniente dalle sue labbra e gustarle come provenissero dalle mie. Si accomoda, ormai stanca con il peso del lungo viaggio sulle spalle, sulla sedia accanto il bancone della cucina e inizia ad asciugare delle stoviglie che avevo dimenticato sul marmo poco prima.
«Questa casa profuma d’amore, Sam.» Dichiara annusando l’aria che l’avvolgeva. «Pensavo non profumasse più d’amore da quando R ha oltrepassato quell’uscio, mamma.» Sospiro. Mi allontano di qualche passo, sporgendomi alla finestra. I miei occhi continuano a fissare un punto indefinito del giardino, alla ricerca di una speranza? Sento che si sta avvicinando, mia madre. La sua ombra calda che si posa sul mio corpo, il riflesso nel vetro della finestra. Mi bacia la fronte.
«Sii forte, hai una bambina in grembo, il frutto del vostro amore. R tornerà, sano e salvo.» Le sorrido. Un sorriso finto, più o meno infastidito. Sono forte. Lo sono sempre stata, dal primo momento. Tutto ciò che chiedo, però è il mio lui. Chi non vorrebbe indietro suo marito? La guerra lo ha trascinato, mentre qui c’è sua moglie che prega ogni giorno per lui.
«Cara, è il suo lavoro. Anche se non è uno dei migliori, è un lavoro.» Cerca di cominciare uno dei suoi discorsi. Crede di sapere tutto della vita, di conoscere ogni angolo del mondo. Peccato che la Terra è tonda. Non è quadrata, né rettangolare.
«Questo lo so. Fin dal primo giorno sapevo che era un soldato, ma ho continuato a frequentarlo. Sapevo a cosa andavo in contro innamorandomi. Purtroppo ogni giorno diventa più difficile. Mi manca ogni giorno di più, non posso aspettare fino a quando saremo di nuovo insieme. Non posso sorridere finché non vedrò il suo sguardo, strofinerò gli occhi e realizzerò che non è un sogno.» «Quando ti manca guarda il sole di giorno, la luna di notte, tua figlia quando nascerà. Anche lui vedrà tutto questo, in questo modo potrai sentirti meglio.»
Mia madre è una persona speciale. Anche se molto spesso si comportava da bambina, era bravissima a dare consigli. Potevo fidarmi di lei, sicuramente. Le preparo del caffè, forse si sentirà meglio. Dei biscotti nel vassoio, dello zucchero e una porzione di fragole caramellate nel piatto.  
«Sorprendente» pronuncia assaggiando qualsiasi cosa si trovasse di fronte. E’ una buona forchetta mia madre, ma preferisce la pasta.  
«Anche ad R  prepari cenette del genere quando è in casa?» chiede incuriosita. Lei non è abile ai fornelli.


Ogni sera gli preparavo qualcosa di nuovo, ricordo che cercavo ovunque nuove ricette e correvo in città ad acquistare  gli ingredienti. Era sempre più orgoglioso di me. Spesso ne parlava con i suoi colleghi e li invitava a pranzo o cena. Andavano tutti via entusiasti.
La guardo negli occhi, come per darle la risposta che attendeva da qualche secondo con lo sguardo.
Per un attimo mi è scivolato davanti un ricordo. Un altro ricordo.

«Non mi offendo se mi baci.»

Ricordi quando me lo dicesti? Eravamo in auto. Ero arrabbiata con te, perché anche quel giorno avevi fatto tardi. Tornasti dall’allenamento solo un’ora dopo il nostro «appuntamento». Ero lì ad aspettarti da ore, ma tu arrivasti solo alle nove. Non volevo parlarti, per tutto il viaggio cercavi di strapparmi un sorriso, ma dovevo essere seria. Non potevo dartela vinta, anche se morivo dalla voglia di baciarti, perché l’avevo aspettato da molto. Parcheggiasti l’auto fuori casa mia, inizialmente vivevo in un appartamento in città. Uscii dal veicolo con un semplice e strappato «Ciao», e tu mi bloccasti, tirando giù il finestrino. Mi arresi, non riuscivo a non baciarti, ero sul punto di perire.
Mi chiedesti di entrare a casa, eravamo sulla soglia. Tu eri poggiato sulla porta con le mani, io ero contro il muro. Finalmente ti permisi di farlo, il primo dei tanti baci. Sì, proprio il primo. Di nuovo mia madre che sfuma il profumo di sogno.
«Mi porti in città? Ho voglia di conoscere questo bellissimo posto nei minimi particolari.»
Ha terminato la merenda e adesso ha voglia di uscire. Accontentiamola.
«Certo. Ho bisogno di comprare dei francobolli per le prossime lettere. Non voglio rimanerne senza.»

Il tempo passa, anche il pomeriggio è volato. Nel New Jersey, ormai è ora di dormire.«E’ comodissimo questo letto.» Dichiara mia madre. Continua a palpare il materasso del suo nuovo letto in soffitta.
«Questa sarà la sala giochi della nostra bambina un giorno.» Le rispondo soddisfatta.
Mentre la donna è a cambiarsi, dietro il paravento, mi allontano fino alla finestra che s’affaccia sul giardino.
Sto guardando le stelle, sperando che tu stia facendo lo stesso. Anche se non potrai sentirle perché lontane, le parole della buonanotte continuano a volteggiare nell’aria mischiandosi a quella afghana. espira. Respirane tanta. Sentirai il sapore dell’amore sulle labbra.
Spesso accarezzo i tuoi vestiti nell’armadio, tocco il tuo profumo, spruzzandolo nell’aria per sentirti più vicino.
Ecco la luna,  l’unica candela che ci tiene uniti. L’unica candela che non si spegnerà mai, nemmeno con le nubi di gas causate dalle bombe. Quelle nubi ti tengono intrappolato, lì, chissà dove, nella grande Asia musulmana.
Perché? Mi chiedo perché c’è bisogno di te e di altre migliaia di uomini se con una bomba si riesce a spazzar via nazioni intere? Perché sacrificare vite umane? La vita che ti scivola davanti gli occhi mentre miliardi di granelli di sabbia ti ingoiano. La giovane vita di un soldato che ha ancora emozioni da provare come abbracciare un figlio, vederlo crescere e cenare all’aperto in compagnia dei suoi nipoti.
Mi addormento  così, pensando.




«I hate arguing with you and sometimes I’d like to 'kill myself'  but I don't do it cause I know that one day we will quarrel, however  I also will shout a lot but  I know that when everything will be solved we’ll be stronger and I will love you more than I did before.»

Quando ero giovane continuavo a piangere per te, ogni giorno. Gridavo sul pavimento, sperando che un giorno saresti stato una spalla su cui piangere. Saresti stato il mio cuscino da abbracciare quando avrei avuto bisogno di un po’ d’amore. Del tuo amore. In giro per il mondo ci sono persone che si amano ma non possono stare insieme. Volto lo sguardo e osservo famiglie infelici. Uomini e donne sposate che non si amano ma continuano a stare insieme perché è un anello ad unirli. Cos’è peggio di un «ti amo» senza amore? Di un bacio senza voglia di assaporare le sue labbra?Si. Loro continuano a stare insieme, mentre noi ci stringevamo a vicenda ogni notte pensando fosse l’ultima che avremmo passato insieme, per paura di perderci. Canticchiando bellissime melodie fino all’alba, come se non ci fosse più tempo. Non c’è più tempo, R.  Ho bisogno di te, sono sul punto di esplodere. Proprio come una bomba ad orologio. Sfioro più volte quel biglietto e lo stringo nel palmo della mano delicatamente. Accovacciata sul letto, rimetto al suo posto il biglietto per l’aereo.
«Buongiorno» mi augura mia madre. Si è presentata in camera da letto con un vassoio tra le mani. «Ti ho preparato dei biscotti – dichiara mia madre. Era soddisfatta del suo vassoio pieno di dolcetti di pasta frolla. Accomodatasi nel posto vuoto accanto a me  mi porge la tazzina.
«Ti ringrazio ma… l’ultima cosa che voglio fare adesso è mangiare, mamma.» Le rispondo. Mi guarda stranita e si avvicina al mio corpo lentamente.
«Ho deciso, parto. Vado da lui.» Articolo sorseggiando.
«Cosa? Sei impazzita?» domanda mia madre.
«Mamma, ho già deciso. La valigia è pronta, l’ho fatta questa mattina all’alba.»
«Hai una bambina in grembo.» Replica.
«Lo so, R deve vederla nascere. Perciò parto. Lascia che vada.»
Dopo qualche tentennio finalmente capisce. Deve lasciarmi andare.
«Hai già prenotato l’aereo?» Sospira senza alcuna voglia di mettermi i bastoni tra le ruote.
«Per l’Afghanistan? Sì. Tra due ore c’è il volo.»
«Abbi cura di te.»
Mi accarezza il viso, poi il ventre e va via dalla camera. Sono contenta che abbia capito. Due ore e sarò da lui, finalmente. Il vento artificiale causato dall’elica dell’elicottero che mi scorta fino da te è violento, come l’aria viziata che tu respiri ogni giorno. La polvere, appiccicosa  si mischia con il fango e pietrifica le mie scarpette. Alzo gli occhi al cielo, l’oggetto volante si sta allontanando. Non abbasso il capo finché non lo vedo scomparire.
E i vortici di vento, sabbia e poltiglia marroncina si sfamano inghiottendo il mio corpo. Tengo stretta al petto la foto di mio marito, un po’ sgualcita e vecchia  ma sono sicura che lo riconosceranno e mi porteranno da lui. Di nuovo da lui.
  
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