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Autore: afumacdougall    21/08/2013    8 recensioni
"Ed erano lì, e vi giuro, vi giuro che erano felici. Felici come può essere un bambino, come può essere l’arcobaleno dopo la pioggia. E loro di tempeste ne avevano passate. Erano un po’ come un arcobaleno, sì. Con tutti quei colori che si dipingevano sulla faccia del più piccolo, mentre parlava con l’altro, e guardava i suoi occhi, quegli occhi così belli, di così tanti colori, uno per ogni colore dell’arcobaleno."
"È strano come il tempo riesca a passare. È incredibile come alla fine il cielo si stanchi, e ritorni azzurro per conto proprio. È così strano e ingiusto come le cose vadano avanti anche quando non dovrebbero. Ed è così ingiusto che le cose belle finiscano, perché a volte non se lo meritano, e non potrebbero durare per sempre?"
afu :)
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buon salve, gente! Allora, eccomi di nuovo qua, con la mia terza os sterek :) Devo dir che questa è diversa dalle altre, più lunga, molto più lunga delle altre, e... niente, significa molto per me. Spero vi piaccia, fatemi sapere <3 buona lettura (?), Afu.

ps: a voi due, perché l'arcobaleno viene sempre dopo la pioggia, e Jack è un nome bellissimo.

E dopo la pioggia c’è sempre l’arcobaleno.

***

 

Ed erano lì, ed erano felici. Ed erano nel loro bosco, nel loro posto, fra le braccia della propria persona.

Ed erano lì, ed erano felici. Ed ora è tutto offuscato, tutto un ricordo. Di quelli che la mente ti ripropone ogni notte, di quelli che il tempo non può cancellare, e gli odori continui a sentirli; sono sempre presenti, e le risate si trasformano in un pianto, perché quel ricordo è così vivido che non è giusto, no, non lo è. Non è giusto che sia solo un ricordo, una memoria di cose andate ormai perdute.

Ed erano lì, ed erano felici.

Incuranti del mondo, forse per la prima volta veramente. Incuranti di ciò che la vita gli avrebbe riservato, incurante della loro natura, della loro città. Incuranti dei pianti e delle grida, perché per una volta volevano essere solo loro due, solo due ragazzi che si amano, due semplici ragazzi.

Ed erano lì, e vi giuro, vi giuro che erano felici. Felici come può essere un bambino, come può essere l’arcobaleno dopo la pioggia. E loro di tempeste ne avevano passate. Erano un po’ come un arcobaleno, sì. Con tutti quei colori che si dipingevano sulla faccia del più piccolo, mentre parlava con l’altro, e guardava i suoi occhi, quegli occhi così belli, di così tanti colori, uno per ogni colore dell’arcobaleno.

Mancava solo il viola, ma Stiles giurava su stesso, che una pagliuzza in quegli occhi era di quel colore.

E a volte se li buttavano addosso tutti quei colori. Quando ridevano e scherzavano, e Stiles si sentiva sempre più importante e sempre più orgoglioso, perché quella risata era riservata solo a lui, ed era il tesoro più prezioso del pirata più temibile. O quando si urlavano contro, e i colori diventavano tristi, e l’arcobaleno se ne andava per un po’. In quei momenti Stiles si faceva piccolo,  ancora più di quanto già non fosse, e urlava, urlava tutto il fiato che aveva in gola, e in quelle parole lo supplicava a non smettere di lottare, perché se lo avesse fatto, tutto sarebbe finito. Quelle urla che poi si trasformavano in sussurri, perché la gola faceva male, e il cuore batteva troppo forte per respirare regolarmente, e allora Derek dimenticava tutto; non gli importava più il motivo per cui stavano litigando, Stiles stava male e lui non poteva permetterselo. E in quel momento il suo cuore si macchiava un po’ di nero, e sporcava quel rosso vivo che solo Stiles era riuscito a donargli.

E si diceva che era tutta colpa sua, che  aveva sbagliato a farlo entrare nella sua vita. E pensava a come fare per allontanarlo, per riuscire a vivere senza di lui, per poter finalmente smettere quel supplizio, perché Stiles stava male, tremava, e lui era grande e grosso per nulla, perché le sue braccia non riuscivano a contenere tutte quelle emozioni.

Ma l’arcobaleno ritornava, come sempre dopo la pioggia, e Stiles alzava lo sguardo, e semplicemente diceva «no.», perché chissà come Stiles capiva sempre i pensieri di Derek.

E allora tornavano ad essere lì, ad essere felici. E l’arcobaleno si ergeva alto in cielo, e tutta Beacon Hills guardava la sua bellezza con i nasi all’insù.

Ed è questo che alla fine è l’amore; è una tempesta dopo l’altra, pioggia, tanta, tantissima pioggia che entra ovunque, s’infiltra nelle pareti e fa cadere palazzi pieni di muffa, che poi risorgeranno, perché qualcuno prenderà quell’edificio e gli darà nuova vita, e la pioggia cesserà, perché se inizia deve finire, e allora in quel cielo azzurro ci saranno quei colori, gli stessi che disegnavi quando eri piccolo e stavi attentissimo a non invertire l’ordine, come se, se avessi sbagliato un solo colore la magia sarebbe volata via.

Rosso, arancione, giallo, verde, blu e viola.

 E forse è vero.

Forse gli amori, quelli che durano, sono quelli in cui l’arcobaleno ha sempre gli stessi colori, sempre nel giusto ordine.

Sono quelli in cui si ci impegna a non sbagliarli, a colorare bene e non fuori dai bordi.

E i loro arcobaleni erano i più belli, i più vivaci.

Stiles si impegnava con tutte le sue forze, così come Derek.

Ci provavano e provavano, solo che succede che una volta Derek sbaglia un colore, e un tuono squarcia il cielo, e gli occhi di Stiles si fanno immediatamente lucidi.

Era una cosa che Derek non sopportava di Stiles; aveva la capacità di far diventare i suoi occhi lucidi in un nano secondo, e poi farseli passare nell’attimo dopo. E Derek soffriva da morire in quel breve attimo. E allora succede che Derek posa il colore sbagliato, alza lo sguardo e nota che Stiles non è riuscito a fermare le lacrime, e ora stanno inondando il disegno, mischiando tutti i colori.

E no, no!, urla. Stai attento! Stai mischiando tutti i colori! L’arcobaleno si sta rovinando, Stiles!

Solo che succede che ormai il gioco è stato fatto, e da quel bel disegno sgocciolavano colori e lacrime.

Ed erano lì, ma non erano più felici, perché quella era stata la stagione più piovosa a Beacon Hills, e tutti erano tristi perché il cielo non si faceva più azzurro, e non c’era più l’arcobaleno da vedere con il naso all’insù.

E faceva freddo, tanto freddo. E Stiles non sapeva più come coprirsi; usava ogni coperta a disposizione, la sua, quella di sua madre, ma sentiva sempre freddo. E Derek quasi godeva del freddo, e stava sempre con la sua canottiera, e lasciava tremare i muscoli e ammalare il corpo, per quei pochi istanti in cui il suo corpo poteva ammalarsi.

 

 

 

 

 

È strano come il tempo riesca a passare. È incredibile come alla fine il cielo si stanchi, e ritorni azzurro per conto proprio. È così strano e ingiusto come le cose vadano avanti anche quando non dovrebbero. Ed è così ingiusto che le cose belle finiscano, perché a volte non se lo meritano, e non potrebbero durare per sempre?

E Stiles è cambiato; è cambiato talmente tanto che suo padre a volte non riesce nemmeno a guardarlo negli occhi. Semplicemente lo saluta e passa avanti, perché quella visione gli fa male, e ormai lui è anziano, e il cuore fa capricci, e non vuole fargli del male più di quanto già non abbia sofferto. Perché Stiles è cambiato, e il suo bel naso non è mai più stato all’insù, e ha smesso di disegnare, sorridere. È andato avanti solamente perché gli anni sono passati, e il suo corpo è cambiato, e ha preso un diploma e una laurea, e ormai è una persona rispettata, e ha una moglie, e un suo percorso.

E chi lo conosce da prima non lo riconosce, e chi lo conosce da dopo quel tuono crede che sia una normale persona. Senza capire che lui non lo è mai stato, e mai lo sarà. Perché lui è Stiles, e solo il suo nome lo riesce a  descrivere.

Perché se chiedi a Scott di descriverlo, prova a spiegarti con le sue parole affrettate, e si gratta la testa perché diamine se è difficile spiegare Stiles, e alla fine dice semplicemente che Stiles è Stiles, è un pianeta ancora non scoperto, è una seconda luna nascosta dalla prima, è così tante cose che non si può spiegare o classificare: Stiles è Stiles.

 Solo che ormai Stiles non è più Stiles, e dentro di sé si sente perso. Come in un labirinto senza uscita, come in un perenne nero e lui non vede niente, e vorrebbe semplicemente trovare la via per scappare da lì, e gli andrebbe bene pure affrontare la realtà e soffrire.

Perché da quel tuono, Stiles si è chiuso con lucchetti e catene. Ha preso il proprio sé e se l’è ficcato in una parte nascosta del corpo, si è alzato da quel letto e ha iniziato a vivere senza sé stesso.

A volte  gli capitava di sentire quel suo piccolo sé urlare, chiedergli perdono, ammettere che era solo colpa sua se il suo cuore ormai era viola scuro, e si scusava se anche quello gli ricordava i suoi occhi.

A volte capitava che Stiles prendesse in mano quel suo piccolo sé, nei momenti in cui era solo, e la nostalgia era troppa per lasciar correre. Se lo metteva adagiato sulle mani, e si faceva raccontare tutti quei ricordi che di giorno provava a dimenticare. E lo faceva parlare, parlare. E quel suo piccolo sé respirava, e alla fine gli chiedeva di ritornare in vita, di lasciarlo libero. Ma Stiles non l’aveva mai fatto. Se lo richiudeva dentro quell’angolo angusto, e andava a lavoro. Camicia e cravatta. Pantalone elegante e un’utilitaria.

Niente jeep azzurra. L’azzurro era nell’arcobaleno, non era consentito.

E la vita andava avanti, anche se no, non doveva.

 

 

 

 

Gli occhi di Derek sono quelli che si dicono essere cangianti. Cambiano in base al tempo, o all’umore. E non solo perché lui è un lupo mannaro e quando si arrabbia gli occhi gli diventano rossi.

Stiles aveva imparato a distinguere e classificare ogni loro sfumatura in base alle situazioni.

C’erano gli occhi luminosi e più verdi, con del giallo vicino alla pupilla quando Derek era felice, o rideva.

C’erano gli occhi spenti, sul grigio e verde macchiato di un po’ di azzurro, quando Derek era triste.

Ed era con quegli occhi che Stiles lo aveva conosciuto, e si era ripromesso che in quel bel viso avrebbe messo su gli occhi luminosi.

E ci era riuscito. Solo lui. Dopo lei.

E ora i suoi occhi sono ancora più spenti, e il verde quasi è andato via, e quando si arrabbia gli occhi non sono più rossi, ma azzurri, perché ha perso ogni potere,  per ricordargli quello che ha fatto.

Ogni giorno della sua vita, ogni volta che la sua natura la fa’ da padrona.

Derek non sa bene il motivo per cui non è più stato un Alpha. Sa solo che un giorno si è svegliato, e gli occhi erano azzurri. Di nuovo.

E il suo potere era dimezzato, come se non avendo più Stiles accanto, la ragione per cui aveva bisogno di più forza non c’era più.

Come se fosse diventato più forte perché doveva proteggerlo, e una volta andato via quello scopo era inutile.

E Derek si dannava, si dannava, perché quella forza in più non l’aveva chiesta, e non la voleva, e se quel giorno aveva messo quel colore sbagliato era stato proprio per colpa di quella forza in più. Di quei muscoli pompati, di quel sangue che non gli arrivava al cervello.

Di quella parola di troppo, e di tutte quelle in meno. Perché erano sempre così poche le parole che Derek diceva. E a Stiles andava bene, perché sapeva che quelle poche che gli venivano dette, erano così piene di significato.

Solo che a volte capita di dire sciocchezze anche a chi parla poco, e quel giorno Derek ne aveva detta una.

E i bordi si macchiarono di un colore non giusto, e quel tuono, quel tuono lo sveglia ogni mattina, e vorrebbe tanto piangere, ogni giorno, ogni mattina, vorrebbe lavarsi via quel colore, quel nero, e urlare al mondo che il nero non è nemmeno un colore, e non può avergli rovinato la vita. Non di nuovo.

Non quando si era ripromesso di non fare più lo stesso errore.

E quegli occhi sono di nuovo azzurri, di un azzurro ancora più acceso, perché di persone sulla sua coscienza non c’è n’è solo una, ormai.

 

 

 

 

 

 

 

Succede che un giorno Stiles si sveglia di soprassalto da un sogno, e sua moglie non lo nota nemmeno.

Allora si alza, va in bagno, e si butta addosso un po’ di acqua fredda. E si guarda allo specchio, e nota lacrime che non aveva sentito scendere sulle proprie guance. E si chiede cosa stia facendo della sua vita, e il ricordo di quel giorno è così prepotente che chiude a chiave la porta, e si lascia cadere a terra.

 

Gli Alpha erano stati eliminati, finalmente. Derek era tornato l’Alpha indiscusso di Beacon Hills, e Scott non notava la sua natura, non volendo tutto quel potere.

Era una sera, e come sempre Stiles era al loft di Derek.

Stavano insieme da un anno, ormai. L’indomani avrebbero compiuto trecentosessantacinque giorni – Stiles amava dirlo così, perché un anno sembra niente, ma trecentosessantacinque giorni sembrano un’eternità -  e non vedeva l’ora di festeggiarlo con Derek.

Sapeva che non avrebbero fatto chissà cosa; sapeva che non l’avrebbe portato fuori a cena, che non gli avrebbe regalato niente, e che sicuramente non l’avrebbe nemmeno ricordato.

Ma alla fine non gli importava granché. Certo, un po’ gli dava fastidio, però aveva accettato Derek in ogni cosa, e quindi non poteva ora ribellarsi, o rimanerci troppo male.

Derek era fatto di pochi gesti, e per niente eclatanti. E loro erano fatti di «stai attento.» e «Per favore non morire stasera.». Erano un continuo aspettare con il cuore in gola, continue urla perché degli artigli si conficcavano con troppa forza nella pelle. Erano fatti di corse per salvare l’altro, in quello strano gioco che era stato loro sin dall’inizio. Quel salvarsi senza spiegarsi il motivo, semplicemente perché una vita senza l’altro non riuscivano ad immaginarla. E poi tutto quello si era trasformato in amore, e avevano finalmente capito un bel po’ di cose.

E certo, era difficile amare Derek. Era un continuo scappare lontano, perché ti fa male e lui non vuole. Un continuo avere lune storte, soli e palle girate, sbuffi e ringhi.

Ma era anche abbracci di notte, per fortuna. Era anche lacrime quando trovava Stiles vivo, intero, e dopo avergli urlato tutte le più brutte parole, perché quante volte gli aveva detto di non cacciarsi nei guai?, lo teneva stretto a sé e nessuno si poteva avvicinare.

Era anche sussurri dolci, e mani esperte.

Era tutto quello che a Stiles andava bene.

E quel giorno, quel trecento sessantacinquesimo giorno era arrivato, e Stiles aveva addosso la sua felpa rossa. Capelli più lunghi, stessi nei e stessi occhi da cerbiatto.

E Derek con la sua stessa canottiera verde, gli stessi jeans e lo stesso sguardo ferito di sempre.

 E appena arrivato in quel loft, Stiles aveva capito che qualcosa non andava.

«Che succede? Qualche altro Alpha? Vampiro? Cacciatore? Kanima? Che cos’altro ci aspetta?»

«Mi aspetta, Stiles. A me spetta, a te non spetta niente.» il suo tono era grave, di quelli che non vogliono repliche.

«Non ricominciare, e dimmi cos’è stavolta.» Stiles faceva di tutto per rimanere serio e non urlargli addosso che voleva solo essere felice, solo quel giorno.

«Vedi? Stavolta. Ci sarà sempre un’altra cosa, e dopo un’altra ancora. Sempre. E tu quanto potrai resistere?»

«Sono forte, e lo sai! Sono sopravvissuto alla qualunque!» Stiles si stava adirando. Non si era ricordato che giorno era. E per di più stava facendo uno dei suoi soliti discorsi.

«APPUNTO! Sei sopravvissuto! Stiles, sopravvissuto! Tu non devi sopravvivere, tu devi vivere!» i muscoli di Derek fremevano e le urla facevano spaventare gli uccelli.

«E allora fammi VIVERE! Fammi vivere! Ma non spetta a te scegliere come io debba vivere! A me questa vita va bene, cazzo! Derek! Perché devi rovinare sempre tutto?!»

«Perché io non ti faccio vivere, io ti faccio sopravvivere, a stento. Ti faccio annegare per poi prendere aria, ti faccio correre fino a che i tuoi muscoli non diventino doloranti  e allora ti prendo in braccio. Ti porto allo stremo e poi ti calmo. Ti porto al largo per poi andare alla deriva.»

«E a me va bene, Derek. Ti prego, a me va bene…» il suo era un sussurro.

«Ma a me no. Non più. Ho sbagliato.» glielo disse ad occhi bassi, a braccia conserte.

E poteva giurarlo, aveva sentito il cuore del più piccolo rompersi.

Ci fu un silenzio glaciale, poi Stiles sbuffò e si avvicinò a Derek.

«Non ti prego più. Quante volte abbiamo avuto questa discussione? Quante volte ho pianto? Quante volte tu hai distrutto un muro? È sempre la stessa storia, da un anno a questa parte. Anzi, proprio oggi facciamo un anno. Trecentosessantacinque giorni di queste urla, e a me andava bene. Ero felice. Avevo trovato il mio posto nel mondo, ma non posso più continuare così. È come combattere uno zombie cercando di ucciderlo. È come parlare ad un sordo o provare a farti capire che non m’importa andare al largo, che non m’importa avere tutto il corpo che mi fa male, o annegare, proprio perché so che arrivi tu e mi salvi. Ma non l’hai capito, e mai lo farai. E io sono solo un ragazzino, e grazie. Grazie per aver rovinato questo momento. Grazie per questi trecentosessantacinque giorni, grazie per avermi dato il permesso di entrare nella tua vita. Ma se non capisci la reale importanza di tutto questo, Derek, ti dico che ti amo, e che non mi vedrai più.»

Derek non riusciva a parlare. Il suo cuore aveva fatto un rumore assordante, ed ora dentro di lui c’era solo silenzio. Come in quel loft, come nel mondo intero, come se tutti fossero rimasti in silenzio ad ascoltare le parole del piccolo uomo. C’era il rumore della pioggia, e niente più.

«No, Stiles… no.» farfugliava Derek, non sapendo cosa dire, cosa fare.

Aveva rovinato tutto. Lui lo voleva solo proteggere! Voleva solo il meglio per lui!

Possibile che fosse davvero al proprio fianco, il meglio?

«Sì, Derek. Addio.» Stiles si sporse verso di lui, e gli diede un bacio sulla guancia. L’ultimo. Non capiva dove avesse trovato il coraggio, e la forza, e dopo gli diede le spalle ed uscì da quel loft, in silenzio.

Così come Peter trovò suo nipote, con gli occhi ancora sgranati, ancora a braccia aperte, mentre guardava la porta sperando che Stiles entrasse, e gli portasse uno di quei peluche imbarazzanti che si comprano in quelle occasioni.

Così come quello che aveva comprato lui, per Stiles.

 

Stiles si ritrovò ad avere un attacco di panico.

Erano anni che non ne aveva uno.

La stanza ruotava a tremila, il cuore pompava troppo sangue e il respiro era assente.

E doveva calmarsi, doveva farlo o sarebbe stata la fine.

Allora pensava a Scott, a quando era piccolo, a sua madre. Ma niente, non si calmava, e il tempo scorreva, e non era mai andato così veloce.

E poi si ricordò il discorso che uno Scott adolescente gli aveva fatto, in camera sua. Qualcosa sull’àncora, sul fatto che questa riusciva a mantenerlo umano durante la luna piena.

E allora pensò alla sua àncora, pensò a Derek, ai loro giorni felici, e se era stato proprio il ricordo del loro addio a procurargli quell’attacco di panico, solo il viso duro del lupo riuscì a calmarlo, facendo passare l’attacco.

E nel frattempo nessuno, in quella casa, si era accorto di niente.

E Stiles doveva andarsene da lì.     

Prese la sua utilitaria, e guidò all’impazzata verso Beacon Hills, e una volta arrivato lì non si fermò a casa di suo padre, né da Scott. Continuò dritto, e prese la stradina che lo avrebbe condotto al bosco.

Si ricordava come fosse facile, con la sua Jeep, attraversare quel percorso. Cosa che, con la sua utilitaria, non gli riusciva di niente.

La parcheggiò in malo modo, mandandola al diavolo, e continuando la strada a piedi.

E si ritrovò lì. Davanti quella casa fatiscente, memore di così tanti ricordi, così contrastanti tra di loro.

Ricordò la prima volta che vide Derek, e gli scappò da ridere.

Il suo piccolo sé stesso urlava, e gli chiedeva di uscire fuori, perché quel bosco gli mancava come l’aria, e quegli odori non poteva trovarli da nessuna parte. E così fece, lo liberò, ed entrambi finirono seduti sulla terra, a gambe incrociate, a guardare assorti quella casa, cercando chissà quale verità, e provando a riavvolgere indietro il tempo, come un nastro rotto in cui si deve trovare il punto di rottura.

E Stiles se lo chiese davvero, che cosa in tutto quello fosse andato storto.

E sì, si ricordava perfettamente il perché lui lo avesse lasciato. E sì, si ricordava perfettamente ogni istante, ogni rumore di cuori rotti.

Si chiedeva semplicemente il perché, il perché di tutto quello. Il perché la loro storia non era riuscita a superare quell’ostacolo, dopo tutti i mostri che avevano distrutto.

E forse, forse era proprio quello. Sfogavano ogni loro problema su quelle minacce, e poi vivevano quei pochi attimi di calma senza nemmeno parlarsi, perché non volevano rovinarli per niente al mondo.

E quando tutte le minacce erano state sconfitte, non aveva più modo di sfogare i propri problemi, e parlavano ancora in due modi così differenti.

Forse, Stiles si incolpava, non ho lottato abbastanza.

Forse sarebbe potuto andare tutto diversamente, o forse la fine sarebbe arrivata lo stesso.

E il suo piccolo sé stesso lo guardava, comprensivo, e gli spiegava che non era stata colpa sua, almeno non tutta. Perché la colpa sta nel mezzo, ed ognuno di loro aveva le proprie colpe.

Perché Stiles magari poteva combattere un po’ di più, e Derek amarsi quel tanto che bastava.

Ma ormai non c’era più niente da fare. Era passato così tanto tempo, e la vita era così diversa.

Stiles portava una fede. Aveva giurato amore eterno per una donna.

Come poteva correre dal lupo?

E la tristezza riprese il posto a lei dedicato, e fece alzare Stiles da terra, salutare quel suo piccolo sé stesso, e avanzare verso la sua macchina.

Che, poi, gli faceva pure un po’ schifo.

Così si allontanò da quel bosco, da quei ricordi e da quel sé stesso.

L’aveva lasciato andare, libero di riprendere in mano quella vita che a Stiles era sfuggita.

 

E quando un grande lupo attraversò quei boschi, quasi svenne. Il suo odore era così presente, pregnante, intossicante.

Gli entrò dentro il cuore, nelle narici, nel cervello. Ci fece quasi muffa, là dentro, per quanto prepotente quell’odore potesse essere.

E se ne beò, oh, se lo fece. Rimase lì, a guardare quella vecchia catapecchia, nella stessa posizione in cui era stato Stiles qualche ora prima, perché anche se la vita ormai era diversa, anche se a dividerli erano gli anni e chilometri, riuscivano ad essere legati come a quei tempi.

E sospirarono, nello stesso istante, uno lontano dall’altro, come se fossero stati maledetti da chissà quale stregone, costretti a stare lontani. Ad andare nello stesso posto in orari diversi, un po’ come il treno che ritarda sempre. A vivere una vita che non volevano vivere, ad amare qualcuno che  non si voleva amare e direttamente non amare nessuno, perché chi si sarebbe più permesso di avere a che fare con Derek? Non potevano certo competere con il ricordo di Stiles, di quel ragazzino, tutto occhi e felpa rossa, ricordando così tanto cappuccetto rosso, e anche in quel caso lui si ritrovava a ricoprire il ruolo del lupo cattivo.

E allora, in quei casi, pensava che magari aveva pure fatto bene a farlo allontanare da lui. Che quello che era successo, fosse stata una buona cosa, per Stiles.

Che avesse fatto la scelta giusta.

Come se, poi, ce ne fosse realmente una, di scelta giusta.

 

Rimase lì tutta la notte, per niente stanco, continuando a fissare quella casa ormai in rovina, chiedendosi come sarebbe stato se gli avesse dato nuova vita, e se, trovando la casa così accogliente, Stiles sarebbe entrato per bere una cioccolata.

 

 

 

 

E così fece.

Ristrutturò la casa, sin dalle fondamenta. Dava ordini a destra e a manca, e Peter a volte andava a far visita al nipote per vedere come stessero andando i lavori.

Era da un po’ che a Beacon Hills era tornata la pioggia, fitta e costante. Un po’ come quella terribile stagione che l’afflisse anni prima. Per questo i lavori andavano a rilento, ma a Derek non importava. L’importante è che fosse nuova, stabile, e pronta ad ospitare qualcuno.

Che non ci fosse nessun qualcuno, poco importava.

Derek lo doveva a sé stesso, ai suoi ricordi, alla sua famiglia, e a lui.

Perché alla fine, tutto, nella sua vita, si riconduceva a lui.

Lui che lo aveva salvato, lui che lo aveva reso un bambino, un adulto e un adolescente nello stesso tempo. Lui che aveva fatto ricominciare a far battere quel suo cuore bruciato. Lui che ci aveva sperato, ci aveva sperato con tutte le sue fragili ossa, in quell’amore.

E lui, che stremato lo lascia andare, perché Derek gli stava togliendo ogni fibra del proprio essere.

 

Ma mi sono un po’ stancata di raccontare come i loro cuori fossero distrutti, e le loro vite così vuote. Posso decidere cosa raccontarvi, cosa farvi vedere e cosa no.

E allora vi porto direttamente al momento in cui quella casa fu finita, con un grande salto a piedi uniti.

Tenetevi stretti, potreste cadere.

 

 

 

 

Era davvero bella. Così imponente, Derek era riuscito a donargli la gloria di un tempo, e il suo tocco aveva dato quel qualcosa in più.

Aveva arredato ogni singola stanza, come se ci fosse ancora la sua popolosa famiglia a viverla. Ogni stanza aveva un letto, ognuno diverso, così come ricordava fossero i loro gusti.

Magari era da sciocchi, tutta quell’attenzione per delle stanze che non avrebbe utilizzato. Magari sarebbe stato meglio renderle tutte una grande palestra, ma aveva il bosco, Derek, e cosa poteva chiedere di più?

 

A Stiles casa propria non piaceva; era anonima.

In un quartiere niente male, su un edificio né antico né moderno. Pitturato di colori neutri, con divani classici e una normale cucina nemmeno tanto grande.

In effetti era da un bel po’ che Stiles non cucinava; non ne aveva più voglia, semplicemente.

Come se questo fosse un fatto normale, poi. Come se la sua rinuncia a tutto ciò che gli faceva del bene fosse una cosa regolare, una cosa che sarebbe successa lo stesso, con il tempo che passa.

Sua moglie, quel pomeriggio, non era a casa. E lui era ritornato appena dal lavoro, e non entrò nemmeno a casa. Fece inversione e prese la strada per Beacon Hills.

Come la volta precedente – troppo lontana, in realtà, per poterlo dire – non andò a casa di suo padre, né tantomeno da Scott.

Guidò dritto verso il bosco. Parcheggiò la macchina fuori dalla stradina e iniziò la camminata.

Stare là lo calmava, in una maniera strana. Era come se il suo corpo la smettesse di combattere all’infinito, come se la maschera che aveva addosso semplicemente scivolava e permetteva alla pelle di avere un po’ di pace.

Era come se quel posto fosse suo in ogni fibra del suo essere, e il suo corpo lo riconosceva all’istante.

Come quando ti senti al sicuro solo nella tua stanza, e per quanto sai che è una cosa sciocca, appena chiudi la porta ti scappa un sospiro di sollievo.

E Stiles stava sospirando, libero.

E camminando non si accorse di ciò che aveva di fronte. E quasi si chiese se avesse sbagliato strada, anche se la risposta era ovvia. Poteva camminare per quel bosco anche bendato e con una molletta a tappare il naso; sarebbe sempre arrivato lì.

Ma qualcosa non quadrava. Quella  che aveva davanti non era più la vecchia solita catapecchia.

O almeno, era la solita vecchia catapecchia, solo più bella e sistemata. Nessun legno bruciato, nessun buco nel tetto.

Era, ma era come se non lo fosse più.

Stiles si sentì strano. Come se solo in quel momento si fosse accorto realmente di quanto tempo fosse passato.

Perché se un qualcosa del tuo passato rimane così com’era, tu ti aggrappi ad essa, pensando che in fondo non tutto è cambiato, se quella è ancora così com’era prima che tutto finisse.

Ma se anche quell’ultima cosa del tuo passato cambia, muta forma, tu vieni sbattuto di forza contro la verità.

E la verità era che era passato troppo tempo.

Troppi anni, troppe cose diverse.

Troppe, troppe che il suo cuore non le regge più, così come le gambe, e gli sta per venire un altro attacco di panico, Stiles lo sa, e si rivede un piccolo diciasettenne contro il mondo, ad urlare e combattere. E si chiede dove sia finito, respirando male, toccandosi dappertutto perché no, non lo trova, e si sente perso. E vorrebbe non aver liberato quel suo piccolo sé stesso, perché ora è solo come non aveva ancora capito di essere, e quest’attacco non accenna a placarsi, e tutto gira troppo velocemente, tanto che quella nuova bella catapecchia ritorna ad essere fatiscente come un tempo, e lui si ritrova addosso una felpa rossa come quelle che non compra più da tempo, perché sua moglie le trova ridicole, e lui ormai è un uomo adulto.

Solo che a volte la vorrebbe mettere di nuovo. Vorrebbe tirare su il cappuccio, e sperare che nessuno lo noti, perché quei graffi fanno male.

Vorrebbe solamente avere con sé quella felpa, e la sua jeep, e sentirsi ancora invincibile in quei vestiti che non cozzavano per niente.

Vorrebbe ritrovarsi più piccolo, guardarsi allo specchio, chiedendosi se fosse mai possibile amare Derek Hale.

E vorrebbe ritrovarsi, per rispondersi che sì, era possibile amare Derek Hale, e lui lo avrebbe fatto con tutto il suo cuore, con ogni pezzo di sé, fino a frantumarsi.

Ed era così che si sentiva, in quel momento, Stiles.

Frantumato. Fatto a mille pezzi dal tempo che scorre, e cazzo no!, non dovrebbe scorrere.

Dovrebbe tornare indietro, come quella bella canzone dei Coldplay, e permettergli di aprire quella porta, con fare teatrale, e dire a Derek che quella era davvero l’ultima volta, e aspettare che quest’ultimo gli andasse vicino e si scusasse. Perché in fondo, a Stiles erano sempre piaciute le scuse di Derek.

E si sarebbe fatto dare quel peluche che non ha mai ricevuto, e avrebbe pianto di gioia, perché Derek se n’era ricordato, ed era una continua sorpresa, con lui, e Stiles si sarebbe ripromesso di parlargli più spesso, e di abbracciarlo di più, perché se lo meritava.

Invece niente era andato così, e nel frattempo Stiles ha un attacco di panico che non riesce a calmare, e non c’è nessuno in quel bosco pronto a soccorrerlo. E vorrebbe urlare, o ululare, o qualunque cosa lo faccia sentire ad altre persone.

Ma basta il suo cuore, che batte all’impazzata. Perché Derek ha il super udito, e quel cuore lo riconoscerebbe tra milioni.

Allora corre, corre. Corre per tutto il bosco, utilizzando tutta la velocità che ha in corpo. E per una volta si ritrova stanco, e guarda Stiles seduto a terra, con le mani sul viso, cercare di regolarizzare quel battito che non ne vuole sapere di calmarsi.

E Derek deve fare qualcosa, deve. E sta piovendo, piovendo di brutto. I vestiti di entrambi sono fradici, e domani Stiles avrà un bel raffreddore, ma per il momento ci sono solo loro due, come da tempo non succedeva.

Quindi Derek si siede, accanto a lui, e gli prende la mano. E vorrebbe piangere nel vederla così grande e robusta.

E gli sussurra che va tutto bene, che è con lui, che non se ne va.

E funziona, perché il battito di Stiles si regolarizza, e le ossa smettono di tremare. E fanno un male cane.

E sì, Stiles domani avrà un bel raffreddore.

E si guardano, negli occhi, e Stiles rimane sorpreso di sapere che quella pagliuzza viola c’è ancora, e quasi ride.

«La casa…» sussurra, ancora con il fiatone.

«L’ho ristrutturata.» risponde Derek, guardando le loro mani unite.

«È bella.»

«È per te.»

E ogni parola che ci potesse essere, muore in gola a Stiles. Perché quella casa era per lui, proprio come avevano detto tanto di quel tempo prima che sembra fosse passato un decennio.

E forse era davvero così.

«Ti ricordi ancora?» gli chiede, non riuscendo a muoversi. Al diavolo il raffreddore, al diavolo la febbre o la polmonite.  Davanti a sé ha Derek. Derek Hale.

Il suo Derek Hale.

«Non potrei mai dimenticare, Stiles.» e il suo nome sussurrato da quella voce fa l’effetto desiderato, e Stiles si ritrova a piangere fra sue braccia.

E non sa più se quelle che sente sopra di sé sono gocce di pioggia o lacrime.

«Entriamo.» gli dice Derek. Alzandosi, prendendolo per mano, e camminando lentamente.

Una volta entrati dentro casa, la pioggia cessa.

E tutta Beacon Hills si ritrova con il naso all’insù, perché un arcobaleno come non c’era da tempo è ritornato a colorare il cielo, e Scott sorride felice.

Il suo migliore amico è tornato, finalmente.

E non importa quanto dovrà essere difficile ritornare lì, licenziarsi dal lavoro e separarsi dalla moglie. Non gli importa, nemmeno un po’. Perché ora si guarda allo specchio, e si riconosce. E quando chiede a Derek il motivo per cui lo avesse aspettato per tutto quel tempo, senza andare avanti, lui gli risponde «Perché tu sei tu, Stiles, e nessuno può essere come te.»

 

  
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