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Autore: Natalie Baan    27/02/2008    4 recensioni
Sorata e Arashi sono incaricati di fare un breve viaggio al Monte Koya… Un’occasione per entrambi di scoprire piccole, importanti cose…
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Arashi Kishu, Sorata Arisugawa
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Ritorno

 

Ritorno

Una fanfiction su “X”

Di Natalie Baan (traduzione di Shu)

 

 

 

Ehi, bellezza! BELLEEEZZAAA!” Lo schiamazzo risuonò per il corridoio, accompagnato dal rombo in rapido avvicinamento di piedi al galoppo. Arashi alzò gli occhi dal suo libro, spaventata, e prese in considerazione l’idea di correre a chiudere a chiave la porta mezza aperta della sua camera da letto. Ebbe appena il tempo di completare il pensiero, che si stava rivelando una buona soluzione, perché in un secondo la porta fu spalancata con un’energia tale che sarebbe stato un disastro se ci fosse stato qualcuno nelle vicinanze. Sorata si affacciò dalla soglia, col fiatone, con una mano che ancora stringeva la maniglia e l’altra a puntellarsi contro il muro del corridoio. Un respiro, un sorriso timido, e poi bussò con due nocche allo stipite della porta.

Lei gli scoccò uno sguardo accigliato. Prendendolo come un invito, il ragazzo schizzò nella stanza e si lanciò con un balzo sul letto per atterrare a gambe incrociate. “Indovina che cos’ho qui?” annunciò, sventolando un piccolo mazzo di quelli che sembravano foglietti di carta.

“Cosa sono?” Se l’avesse ignorato, lui le avrebbe ripetuto la domanda almeno altre due volte, in modi diversi, e alla fine glielo avrebbe detto lo stesso; quel metodo invece era molto più efficace.

“Biglietti dello Shinkansen!” Ogni sillaba era dotata di un proprio punto esclamativo, e sembrava dimenarsi per l’euforia come la coda di un cagnolino sovreccitato. Sorata cominciò a contare i foglietti a due a due e a posarli sul copriletto. “Il Tokaido Shinkansen per Shin-Osaka, poi c’è la Namba Station –oh, ma quello è solo un tratto di metropolitana, i biglietti possiamo farli anche là- dopo prendiamo il diretto Nankai Tetsudo fino a Gokuraku-bashi, e infine c’è solo da fare un pezzettino in funivia!” Con un gesto teatrale le allungò una metà del mazzetto, identica all’altra, e poi tornò a sedersi con un risolino per lei che se ne stava sulla sua sedia con lo schienale dritto accanto alla finestra. “Andata e ritorno per due per il Monte Koya, a spese del Tempio!”

“Io non vengo con te.”

Oh, di certo doveva essersi aspettato che la sua reazione sarebbe stata quella, ma esibì lo stesso lo sguardo sorpreso e implorante ad occhi sgranati. “Ma, bellezza, sarà fantastico! Posso mostrarti tutti i panorami –conosco ogni angolo dei templi, e anche tutti i posti più belli sulle montagne- e poi lì sarà tutto così piacevole e fresco e verde in questo periodo dell’anno. Molto meglio che Tokyo a ferragosto, anche qui all’Istituto. Ecco.”

E lì Arashi sentì un piccolo tuffo al cuore, e le vennero in mente il tempio di Ise e la nebbia mattutina che si alzava come fumo tra le colline coperte d’alberi, quelle innumerevoli sfumature di verde smorzate e addolcite dalla luce che annunciava l’aurora, come un soffice tappeto di muschio da stendere ai piedi della dea al suo risveglio. L’odore delle foglie bagnate, il ponte Ujibashi lucido di pioggia che si curvava in un piccolo arco verso i torii del cancello, il canto basso del fiume mentre levigava incessantemente i sassi, tutte queste cose la chiamarono dai ricordi, lontano oltre la città tentacolare, quella Tokyo soffocante di caldo, sempre di corsa, piena di pericoli. Girò una pagina del suo libro, accorgendosi solo dopo che non l’aveva finita di leggere. “Te lo ricordi, vero, che dovremmo proteggere le barriere di Tokyo dai Draghi della Terra?”

“Ma staremo via soltanto un giorno e una notte” la blandì. “Okay, così non c’è tempo per vedere un sacco di cose –ma non sarà bello staccare, anche se solo per un pochino? Ho già parlato con gli altri, e Karen-san e Sumeragi-san e tutti gli altri mi hanno detto che ci sarà una sorveglianza extra quando saremo via, giusto per sicurezza!” Nuvole di temporale dovevano aver cominciato ad addensarsi visibilmente nell’espressione della ragazza –che presuntuoso, si era accordato con gli altri Draghi del Cielo prima ancora di chiedere a lei, come se avesse già accettato!- perché Sorata fece marcia indietro all’istante. “Aspetta, aspetta!” Si guardò addosso con aria agitata prima di infilarsi una mano dentro la camicia che portava sopra la canotta, causando un momentaneo stato d’allarme in Arashi. Ma non ne tirò fuori nulla di più pericoloso di una lettera un po’ accartocciata, che brandì trionfalmente. “Ho delle comunicazioni top-secret! Da parte del Direttore per l’Indovino del Koyasan!” Le mostrò la lettera, con l’apertura verso di lei, e Arashi poté distinguere chiaramente il sigillo ufficiale dell’Istituto CLAMP, stampigliato in ceralacca. Sorata lanciò in aria la busta, con un po’ troppa energia –quella compì una piroetta, ondeggiando qua e là, e lui dovette allungarsi fin quasi a cadere dal letto per riacchiapparla. Se la strinse al petto e indirizzò alla ragazza uno spudorato sguardo da innocente. “Non vorrai farmi portare queste cose così importanti tutto da solo?”

Arashi chiuse gli occhi, e pregò i kami di concederle molta pazienza.

 

* * * * *

 

Le ombre del crepuscolo si stavano facendo più scure, come il colore del tè quando si spande e tinge l’acqua in cui è messo in infusione, mentre Arashi cominciava a risalire la riva del fiume. Quella tranquillità, quella solitudine erano accoglienti, sembrava che il bosco fosse diventato una stanza privata, un santuario sigillato da cortine di buio. Passò di nuovo dall’Okunoin, con i segnacoli delle sue tombe che si drizzavano in piccoli gruppi tra le rocce e lo svettare dei cipressi, fin dove lo sguardo si poteva spingere in quella luce incerta. L’antico cimitero era immerso nel silenzio, tranne ogni tanto per lo stridente frinire di una cicala: tutti i turisti e le scolaresche se n’erano andati ora che il complesso del tempio era chiuso per la notte. Di loro era rimasta qualche offerta, bastoncini d’incenso ormai consumati o quasi, e il ricordo del loro passaggio, l’eco dei passi, delle voci, del battito vivo dei cuori, a dissolversi nella presenza dei defunti che tutto avvolgeva.

Onorevoli antenati, spiriti guardiani…

Lasciato il cimitero, trovò il sentiero che si apriva su per la collina e portava al complesso principale del tempio. Non sapeva bene se poteva stare in giro dopo l’ora di chiusura, sebbene i monaci le avessero assicurato che, da ospite di riguardo qual era, poteva visitare liberamente tutto, a parte i santuari più segreti, e anche se nessuno era venuto a cercarla lì sulla riva del fiume dove aveva passato le ultime ore delle giornata. Comunque, sentiva che era meglio trovare Sorata prima di rientrare alla foresteria. Era certa che neanche lui sarebbe tornato indietro senza di lei.

Non era stato poi così male come aveva temuto –o almeno, non dopo i primi minuti di viaggio sullo Shinkansen, durante i quali Sorata aveva dato spettacolo, com’era prevedibile, facendo un sacco di chiasso. Una volta che era riuscita a convincerlo che riferirsi alla loro trasferta come a una “luna di miele in anticipo” in sua presenza non era una buona idea, si era calmato e aveva cambiato rotta, raccontando una lunga serie di storie sulla sua vita nel monastero. Le sembrava quasi di conoscere il posto, e tutti i vari personaggi che vivevano, lavoravano e meditavano lì, allo stesso modo in cui conosceva il quieto, raccolto mondo dei servitori dei kami a Ise. Era stato solo verso la fine del viaggio che si era accorta di come Sorata fosse riuscito a tirare fuori anche a lei qualche piccolo aneddoto, ma, ad ogni modo, non riusciva proprio a pentirsene. Quello che era iniziato come un monologo si era trasformato in una conversazione. E quel cambiamento non le era riuscito sgradito.

E più si avvicinavano al Koyasan, più diventava facile stare con Sorata, perché l’oggetto della sua attenzione si era spostato da lei. Prima ad Osaka, poi durante il secondo tratto in treno su per le montagne, e soprattutto quando avevano raggiunto il tempio, i pensieri del ragazzo si erano rivolti su quello che lo circondava, invece che su qualunque cosa fosse quell’attrazione che provava per lei. Non aveva esagerato quando aveva detto di conoscere ogni angolo di quel posto, e nella sua euforia di ritornare a casa era tutto un traboccare di commenti da acuto osservatore interno su ogni sito che visitavano, una guida turistica sorprendentemente istruttiva e coinvolgente. Le sembrava di aver imparato davvero tante cose, anche se erano di fretta. A ripensarci, il pomeriggio era stato una girandola di vedute e di suoni, impressioni di una vita –il pianoro a forma di coppa circondato da otto cime, simili a petali di un fiore dischiuso; il rosso rubino della pagoda di Konpon Daito che fiammeggiava contro l’azzurro del cielo, quei due colori riconciliati dai tetti d’ardesia incurvati in armoniose parabole, mentre un inatteso soffio di brezza estiva carpiva un tremolio di musica dalle campane del vento appese ai pinnacoli; la rassegna degli incredibilmente complessi stili di ikebana del Koyasan al Museo Reihoukuran; il lento, sonoro rintocco della Campana delle Sei –e attraverso tutte queste cose passava il filo della voce di Sorata, che sottolineava certi punti, spiegava, regalava un aneddoto, un segreto, una risata. E anche il silenzio, si era resa conto, l’eclissarsi di quella voce quando ce n’era bisogno: un silenzio che, in quei sacri recinti, immersi nella reverenza e nella bellezza, spesso bastava.

Non si era mai accorta che Sorata avesse un dono per il silenzio.

Verso la fine della giornata l’aveva visto esitare un po’, era scivolato per qualche minuto in una quiete diversa, e poi aveva suggerito che forse le sarebbe potuto piacere farsi una passeggiata da sola lungo il fiume. Le aveva parlato di un particolare masso che si affacciava su un bacino piccolo ma sorprendentemente profondo, e infatti era proprio là che la ragazza aveva concluso la sua camminata, all’ombra del verde scuro dei rododendri, ad ascoltare il fiume che mormorava contro i sassi prima di indugiare in un’immobile superficie d’argento, uno specchio per la contemplazione. Anche per essere sul Monte Koya, la calura estiva era considerevole, ma in quell’angolo esisteva solo il fresco dell’ombra e dell’acqua. Il suono delle voci dei turisti era stato remoto e saltuario, riguardava quasi solo loro, come i richiami che si lanciavano gli uccelli. Arashi si era chiesta se anche Sorata considerasse quel luogo un rifugio, anche se, dal modo in cui gli altri monaci che avevano incontrato l’avevano punzecchiato sulla sua infanzia da combinaguai, sospettava che il suo intento fosse stato più di nascondersi che di stare in solitudine. Ma aveva scelto bene per lei –il dispiegarsi di un silenzio di cui non si era accorta di aver bisogno finché non era arrivata là, la pace di respirare nel profumo del bosco, in un’aria densa ma dolce, imperturbata. Chissà se era stato per la capacità del ragazzo di scovare bei posti, o per quella di guardare dentro alle persone; chissà se l’aveva fatto per lei, o per svolgere quella missione, qualunque fosse, che li aveva portati fin lì.

Forse, concluse, era stato un po’ per tutte quelle cose insieme.

Raggiunse il Kongobuji appena prima che facesse davvero buio. Il tetto ricurvo del tempio si distingueva ancora dal cielo quasi notturno. Si stava avviando verso il portico illuminato dalle lanterne, quando si bloccò, perché seduto lì c’era un vecchio, tutto coperto di vesti e mantelli nonostante il tepore della sera, una persona che le era stata presentata all’inizio della giornata –l’astrologo e veggente, l’Indovino Chuu. Il nonno, come lo chiamava Sorata. Arashi esitò, perché nonostante la disinvolta familiarità che Sorata aveva con lui, l’Indovino era un uomo di eccezionale fama e potere spirituale, e lei solo un’ospite che forse era rimasta un po’ troppo a lungo dove non doveva. Ma il volto barbuto del vecchio si distese tra le rughe in un sorriso gentile, anzi, accogliente. La ragazza gli si avvicinò, nella luce soffusa delle lanterne appese al tetto, e s’inchinò.

“State continuando a trarre beneficio dalla vostra visita, carissima?” le chiese, la voce debole e un po’ tremante per via dell’età. “Il nostro Sorata non vi starà facendo stancare troppo?”

“No, signore. Grazie. Questo viaggio è stato davvero piacevole.” Tutte le meraviglie dei duecento anni di storia di quel luogo sacro le balenarono ancora una volta nelle mente, e lei arrossì appena, cercò di tirar fuori qualcosa di più generoso. “Anche tra il resto dei tesori nazionali del Giappone, Koyasan è un vero e proprio gioiello che spicca per il suo splendore.”

“Quel che si innalza spesso viene abbattuto.” ammonì lui, ma gli occhi gli brillavano. “Anche se bisogna ammettere che il nostro stimato fondatore non era noto per essere molto dimesso.” Le dita della mano che emergeva dalle stoffe per tener chiusa la veste si mossero, in un gesto vago, generico. “Sapete, i fulmini e quant’altro.” Arashi annuì. Aveva letto la leggenda di come Kukai avesse scoperto il sito dove fondare il suo centro religioso scagliando un fulmine a forma di tridente dalla Cina, e quando era finalmente arrivato nel punto in cui la folgore aveva colpito, i kami della montagna gli avessero fatto dono di quel luogo. “Quanto a noi, siamo onorati di essere semplici guardiani, custodi di queste meraviglie che il passato ha lasciato al nostro paese.”

Arashi fece un altro inchino, in segno di consenso e rispetto, e poi chiese, incerta: “Scusatemi, signore, ma Sorata-san si trova qui?”

“Sorata è… dentro.” L’anziano uomo si mosse appena, quindi si risistemò. “Volete che uno dei monaci vi riaccompagni alla foresteria?”

Ah. “Non preoccupatevi, vi ringrazio, posso trovare la strada da sola.” Ne sapeva abbastanza di misteri religiosi da poter leggere dietro quelle parole oblique: Sorata era rientrato nell’ambito del tempio, al momento non era disponibile per gli esterni. Si trattava dell’incarico per cui erano venuti, che ancora, a quanto ne sapeva, non era stato neppure menzionato? (Infatti, aveva cominciato a sospettare che il Direttore dell’Istituto CLAMP avesse fatto da Cupido. Forse avrebbe dovuto scambiare due parole con il suo segretario una volta a casa, giusto per star sicuri.) Affari interni, o magari l’adempimento di qualche rito privato? Non aveva intenzione di chiedere. Ma il cuore le risuonò, come un gong, di un’improvvisa nostalgia per Ise, per Kaede, per la sua camera nella successione degli ordinati spazi del santuario, un senso di solitudine inaspettato, dai mille echi. Rimase perplessa, chiedendosi se le parole dell’Indovino fossero un congedo.

Il vecchio sospirò.

“Qualche volta mi interrogo” mormorò “su quello che facciamo ai giovani. Il peso dei voti presi da bambini. Di vivere le conseguenze di decisioni prese da altri, le circostanze che le scelte di altri hanno costruito.”

“Per tutti i bambini ci sono cose decise dai genitori.” replicò Arashi, un po’ rigida, cercando di dare un parere diverso ma senza offendere, specialmente se, come sembrava, l’Indovino stava parlando quasi solo a se stesso. “Io non mi sono mai pentita dei miei voti.”

“Mmm. Ma un voto significa poco finché non viene messo alla prova. Finché non se ne sperimenta e comprende pienamente il costo.” L’anziano monaco fece una risatina. “A differenza della maggior parte dei genitori, almeno io posso dire che le stelle mi hanno mostrato quel che doveva essere. Passo dopo passo, esse disegnano il corso di tutto ciò che è stato, che è, che sarà. Ma questo sapere… non giustifica le azioni che si compiono. Ognuno dovrebbe farsi un esame di coscienza, perché, dopotutto, nessuna forza estranea ha la responsabilità di quello che fanno gli esseri umani. Ma bisogna stare attenti a scegliere tra il far soffrire e il compiere la cosa giusta. Soprattutto quando anche quest’ultima può essere ugualmente dolorosa…” La sua voce si spense, l’uomo aveva lo sguardo rivolto oltre il cortile del tempio, verso la distesa di oscurità, e il bosco che era adesso solo una nuvola nera, più scura del cielo notturno contro cui si stagliava. Ma dopo un attimo si voltò di nuovo verso Arashi, e le sorrise.

“Stanno spuntando le stelle.” disse. “I miei assistenti saranno qui a momenti per spegnere tutte le lampade.”

Questo che era un congedo –Arashi fece un ultimo inchino, più profondo dei precedenti, e poi si allontanò, dirigendosi verso la parte anteriore del tempio e la strada principale che scendeva giù per la montagna fino all’alloggio per i visitatori. La ghiaia del cortile scricchiolava sotto i suoi passi. Laggiù, la cicala solitaria di prima era stata raggiunta dalle compagne, a giudicare dall’aumento del volume del suono; e in lontananza le sembrò di avvertire, quasi coperto dal frinire, il canto basso di voci maschili. Con il cadere della notte, l’aria si era fatta piacevolissima, fresca e sottile, e in alto già si poteva scorgere lo scintillio di una o due stelle, nonostante l’illuminazione del portico del tempio. Arrivata al margine del bosco, si fermò, alzando di nuovo lo sguardo verso il cielo non ancora coperto dai rami –e fu una lunga pausa, prima che si decidesse a riprendere la strada. Quel cielo notturno parlava di potere, di enigmi, di una conoscenza inesplicabile, ma le stelle non avevano nessun messaggio per lei.

 

* * * * *

 

Quando uscirono dalla metropolitana, Arashi fece uno sforzo e smise di stringere i denti. Ora che erano arrivati alla stazione di Shin-Osaka, dopo due ore e mezzo di viaggio, erano esattamente a metà strada per il ritorno. Di sicuro a Sorata si sarebbero scaricate le batterie entro breve.

Perché Sorata era in uno stato di… iper-agitazione, persino per lui. Non c’era altro modo di descriverlo. Fin dalla loro partenza al mattino dal Koyasan, corredata da schiamazzi e battutine di saluto ai monaci, per tutto il viaggio era stato un ciclone: un continuo di chiacchiere e barzellette anche peggio del solito. Della calma del giorno prima non c’era più traccia; Arashi si chiedeva se si trattasse di una sorta di reazione uguale e contraria, come un pendolo che, arrivato a fine corsa, oscilla di nuovo verso l’estremo opposto, oppure se fosse solo Sorata che stava cercando di scrollarsi di dosso le restrizioni del monastero. Alla Namba Station, l’aveva assillata per fermarsi a mangiare hamburger (“Il cibo Shojin-ryori non è male, però non ti riempie… Bellezza, vuoi un po’ di patatine?”), e in un negozio di souvenir aveva cercato di comprarle la versione gigante del peluche mascotte di Osaka, e lei era stata costretta ad una strenua lotta per rifiutare. Per non parlare di tutti i suoi vani tentativi di offrirle dolci e snack di ogni sorta. Il risultato era che stavano quasi per perdere la coincidenza per lo Shinkansen. Ma potevano ancora farcela, a patto di evitare altri ritardi.

“Oooh, uffa, non abbiamo avuto il tempo di vedere proprio niente” si lamentava Sorata, mentre cominciavano ad attraversare la stazione tutta illuminata dal sole. “Avremmo dovuto restare almeno un altro giorno! Ci sono un sacco di cose che non ce l’ho fatta a farti vedere. Il Nyonindou è bello. Antico. Sai, fino all’era Meiji le donne non potevano entrare al Kongobuji –dovevano stare lì, nel tempio per le donne. Sono proprio contento di essere un ragazzo di oggi! Ahahahaa!” Arashi strinse più forte la tracolla della borsa nel pugno, cercando di far finta che nessuno li stesse guardando. “Anche se, a crescere nei quartieri dei monaci, in realtà non c’erano lo stesso donne in giro. Le turiste e le ragazze in gita visitavano il posto, ma non c’era nessuna a viverci tutti i giorni. Ehi! Lo sai cosa stavo pensando? Il fatto che prima solo gli uomini potessero diventare monaci buddisti, e che lo shintoismo sia partito con quasi tutte donne come sensitive e sciamane… è proprio come se fossero la mano destra e la mano sinistra. Sono fatti l’uno per l’altra…”

“Non ti allargare troppo.” Ma perchè tutto doveva sempre finire , si chiedeva. La sua replica fu seguita dal silenzio. Sbatté le palpebre –possibile che fosse riuscita sul serio a zittire Sorata?- ma poi si accorse che si era fermato qualche metro più indietro. Voltandosi, vide che era rimasto impietrito a metà di un passo, con lo sguardo rivolto lontano, verso un punto della stazione, e un’espressione particolare, quasi sconcertata sul viso.  E poi, con uno scatto, si riscosse e passò all’azione: in un balzo raggiunse Arashi e la agguantò per il polso.

“Vieni, vieni, vieni!” La trascinò quasi correndo nel suo slancio, ad una velocità troppo alta perché lei potesse puntare i piedi e liberarsi dalla sua presa. Si ritrovò senza fiato e si lasciò scappare un gridolino di spavento, tutta rossa in viso. Oh, questa volta l’avrebbe ammazzato davvero. “Signora! Ehi, signora!” Sorata si tirò dietro Arashi mentre correva dalla parte opposta della stazione, dove c’era una donna che se ne stava vicino al banco delle informazioni, probabilmente in attesa di qualcuno. La signora alzò lo sguardo piuttosto stupita quando la corsa dei due si arrestò davanti a lei. Sorata tirò fuori da una tasca dello zaino una macchina fotografica usa e getta e cominciò a gesticolare. “Mi farebbe il favore più grande del mondo, scatterebbe una foto a me e alla mia ragazza?”

“Ma che…!”

“Basta che prema quel tasto grosso nero.” spiegò il ragazzo, indicando prontamente. L’altra mano era rimasta chiusa attorno al polso di Arashi. Lei cercò di divincolarsi dalla stretta, ma Sorata la tirò, riuscì, chissà come, a farla voltare e, quando se la trovò vicina, la schiena contro il suo petto, se la strinse circondandole spalle e petto col braccio. Arashi s’irrigidì, sentendo la gola strozzata e gli occhi che si spalancavano. Sorata era riuscito a tirar fuori la mano libera, due dita distese nel segno della vittoria; c'era soltanto da immaginarsi il sorriso idiota che doveva esserglisi stampato in faccia. “CHEEEEEESE –ough!” E mentre lui si piegava in due per la gomitata, la ragazza si liberò e si allontanò furiosa di qualche passo, fuori portata, a distanza di sicurezza.

“Oh” fece la donna, abbassando la macchina fotografica. “Non sono sicura che sia venuta molto bene.”

“Va benissimo” rispose Sorata boccheggiando. “Sono… sono sicuro che sarà perfetta.” Cercò di raddrizzarsi. “Aaah –grazie mille, signora.” Arashi rivolse uno sguardo obliquo ai due, e vide la donna restituire la macchina a Sorata. Doveva avere probabilmente meno di quarant’anni, era snella e vestiva un abito leggero a fiori, smanicato; i capelli castani, di media lunghezza, li portava legati, a parte due ciuffi che le arrivavano al mento, incorniciandole il viso. Aveva gli occhi grigi. Stava sorridendo appena, un’espressione che si trasformò in sorpresa quando Sorata, insieme alla macchina fotografica, le prese anche le mani.

“Signora, lei ha appena fatto la mia felicità.” disse il giovane, a voce bassa e con un sorriso d’insolita intensità. “Assolutamente.”

“Oh, ma non è stato niente di che, in realtà…”

“Niente di che? Signora, lei è troppo modesta! Ahahaha!” Sorata staccò il bocciolo di un geranio da una fioriera che era lì vicino e piegò un ginocchio a terra per presentarlo alla donna –ignorando l’uomo in uniforme che aveva aperto la porta del banco informazioni e aveva cominciato a urlargli contro. “Davvero! Lei è la migliore!”

La donna si portò una mano alla guancia mentre le veniva offerto il fiore. “Oh, cielo…”

Arashi non poteva sopportare oltre. Girò le spalle ai due e riattraversò a passo di marcia la stazione in direzione del binario dello Shinkansen, ignorando le suppliche stupite di Sorata che la pregava di aspettare. “Grazie ancora, signora!” lo sentì sgolarsi mentre ancora si attardava dietro di lei, cercando di indugiare un altro po’. “Buona giornata!”

“Anche a te” rispose la signora, il divertimento affiorava chiaro dalla sua voce ora che la stava alzando per raggiungere il ragazzo. “Sono sicura che le cose andranno al meglio per voi due!” E poi Arashi credette di aver sentito la donna ridere, un breve, allegro tintinnio, prima che i rumori della folla inghiottissero tutto.

“Bellezza –aspettami- sto arrivando…!”

A passare tanto tempo con Sorata, era diventata una professionista dei cento metri. Si lanciò su per le scale e arrivò al binario esattamente mentre le porte del treno si aprivano con uno sbuffo. Infilandosi nella più vicina, attraversò le carrozze, anche se non abbastanza velocemente da seminare del tutto il suo inseguitore. Lo sentì scusarsi perché si era scontrato con un impiegato da qualche parte dietro di lei. Raggiunti i loro sedili, si lasciò cadere su quello accanto al finestrino e tenne lo sguardo ostinatamente rivolto verso i binari lì fuori. Il tentativo di sfuggirgli era stato ovviamente inutile, visto che avevano i posti assegnati l’uno accanto all’altra, ma sperava di avergli almeno mandato un messaggio.

Sorata arrivò proprio quando il treno aveva appena ripreso a camminare. Si sprofondò nel sedile dal lato corridoio con tale tatto che la sua compagna pensò di essere finalmente riuscita a fargli capire quanto fosse irritata. Nella fila c’erano tre posti, ma nessuno venne a reclamare il terzo. Bene –voleva dire che potevano tenere il sedile vuoto in mezzo a loro, almeno fino alla prossima fermata. Quel silenzio inconsueto continuò mentre il treno attraversava la città. Alla fine, Sorata si schiarì la gola. “Ah… immagino che adesso tu ce l’abbia un po’ con me.”

“Non riesco a credere a quanto sei stato sfacciato con quella donna!” Seppure con uno sforzo, Arashi dominò la rabbia, che si era smorzata ma senza diminuire davvero –era rimasta come un’irregolare massa di piombo a opprimerle il petto. “Una perfetta estranea!” lo accusò, tenendo la voce bassa ma lasciando sferzante il tono. “E poi, se era sposata?”

“Ah, ma non lo era. Un’estranea, voglio dire. Almeno, direi di no, non in teoria. Però, , era sposata.” Sorpresa, Arashi si girò a guardare Sorata. Si era lasciato scivolare nel sedile, coi gomiti sui braccioli e le dita intrecciate in grembo. Gli occhi, persi a fissare il retro del sedile di fronte, gli brillavano. “Quella donna… era mia madre.”

La rabbia si dissolse un soffio d’aria nel cuore di Arashi, e la ragazza prese un lungo respiro, lentamente. “Credevo… credevo che tu fossi stato portato via dai monaci quando eri molto piccolo. Che non ricordassi nemmeno il viso di tua madre.” Nei mesi passati, briciole e brandelli delle loro storie personali erano venuti fuori, e Sorata le aveva parlato della sua infanzia anche prima del loro viaggio a Koyasan.

“E’ vero. Ma questa volta, quando sono stato a trovarlo, ho chiesto al nonno Chuu di aiutarmi a vedere dove potevo incontrarla. Perché forse non avrò un’altra possibilità. Volevo ricordarla meglio.” Sorata chiuse gli occhi. “L’ho fatta ridere –hai visto?” mormorò in un piccolo sorriso estatico che lo faceva assomigliare ad un qualche improbabile Buddha. “Sono riuscito a vedere il suo viso che rideva.”

“Ma…” Arashi era un po’ incerta, non sapeva quanto poteva intromettersi, quanto dolore poteva nascondersi dietro quell’apparente calma. Pensò alle parole dell’Indovino, sui voti e le scelte. “Non le hai detto chi eri tu.

“Sì. Lo so.” Gli occhi di lui si dischiusero –lo stesso grigio di quelli della signora, notò Arashi. Il ragazzo voltò la testa dall’altra parte, lasciando scivolare lo sguardo lungo il corridoio. “Non volevo vederla piangere di nuovo.”       

Arashi restò ad osservare il suo viso, che si era fatto più serio, una lieve tensione attorno ai sopraccigli, lo sguardo concentrato su qualcosa di più lontano della carrozza del treno. Ma all’improvviso, lui sbatté le palpebre, si raddrizzò nel sedile, e quell’istante era già passato. “Oh, ecco che arriva la ragazza col carrello degli snack. Bellezza, sei sicura di non volere niente? Un panino, o magari delle patatine, o una Coca?”

Quell’istante era già passato, ma non era svanito, come non era svanita Osaka, anche se persino i suoi sobborghi erano ormai lontani, come non lo era il Koyasan, il loto dagli otto petali adesso richiuso nel suo rifugio sulla montagna: entrambi avevano lasciato la loro impronta nella mente e nel cuore. Allo stesso modo in cui le scelte fatte e le loro conseguenze sono le fondamenta su cui ognuno costruisce la propria vita. Con aria composta, Arashi si lisciò la gonna e poi si posò le mani in grembo. “Vorrei un pacchetto di Pocky alle mandorle, per favore.”

“Davvero?” Sorata la guardò con una faccia stralunata. Inarcò un sopracciglio, poi subito schizzò in piedi, una mano dietro la nuca. “Perfetto! Ogni tuo desiderio è un ordine, mia bella! Muhahahaa!” Le regalò un sorriso abbagliante prima di girarsi a chiamare a gesti la cameriera, e, d’istinto, Arashi ripose quel ricordo nel posto più profondo, dentro di sé: il fermo immagine del suo volto che sorrideva, e rideva.

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Il monte Koyasan, il Loto dagli Otto Petali, situato a poco più di due ore di viaggio da Osaka, nella prefettura di Wakayama, è il sito di quello che è il quartier generale del credo Shingon del buddismo esoterico. Ha quel soprannome perché il pianoro sulla cima della montagna è a forma di coppa ed è circondato da otto piccole creste. La costruzione del tempio Shingon principale, Kongobuji, fu iniziata dal fondatore della setta, Kukai (noto anche col nome di Kobodaishi) nell’819, anche se il complesso che si vede oggi e l’uso del nome “Kongobuji” per indicarlo risalgono al diciannovesimo secolo. Ci sono più di 120 templi disseminati nella zona, che è anche parco nazionale.

Potete dare un’occhiata al sito http://www.koya.org/eng/index.html per vedere le foto della maggior parte dei posti a cui si è accennato in questa storia, e anche per avere una descrizione dello stile di ikebana del Koyasan.

La leggenda della fondazione del monte Koya che ho messo in bocca ad Arashi è un bell’esempio classico di sincretismo tra buddismo e shintoismo; potete leggerla su www.asunam.com/koyasan_page.htm.

Shojin-ryori è una speciale dieta vegetariana servita al tempio, che consiste in verdure, cereali e alghe marine. Oltre che ai monaci, viene data anche ai visitatori che alloggiano alla foresteria.

E per finire, il pezzo che riferisce che le donne non erano ammesse all’interno del Kongobuji e che dovevano invece stare al tempio Nyonindou è una notizia autentica. Su un sito di turismo giapponese ho trovato le parole che potete leggere più in basso –questo sito fornisce anche un po’ di contesto per le religioni misteriche citate nel manga delle CLAMP, e mi ha dato l’opportunità di riflettere anche con una punta d'ironia sulla vita del Giappone moderno:

“L’isolamento dal resto del mondo era un addestramento comune per i giovani monaci buddisti in passato. E, sebbene l’accesso alle donne fosse stato vietato alle donne fino all’era Meiji, adesso chiunque può visitare il posto grazie alla funivia.”

I ringraziamenti vanno ai Char per il supporto, e in particolar modo a K-chan, perché le sue domande sui genitori di Sorata sono state la scintilla iniziale che ha messo in moto questa storia; e poi a Mel, per avermi indicato come si scrive Koyasan. ^^

 

  
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