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Autore: Sonomi    23/08/2013    5 recensioni
Kim Kibum avrebbe voluto diventare uno scrittore, ma la sua vita si stava perdendo dietro la cassa di un supermarket.
Lee Taemin avrebbe voluto diventare un ballerino, ma la sua vita si stava perdendo fuori dalla porta di quel fastfood dagli orari pressanti.
Choi Minho avrebbe voluto diventare un musicista, ma la sua vita si stava perdendo fra le urla in casa e i respiri spezzati.
Kim Jonghyun avrebbe voluto diventare un cantante, ma la sua vita si stava perdendo dentro ad una tuta sterile e a dei guanti per raccogliere la spazzatura in strada.
Lee Jinki avrebbe voluto viaggiare, ma la sua vita si stava perdendo fra le mura troppo strette di quel monolocale di periferia.
Tutti e cinque avrebbero voluto sognare, perchè non c'è nulla di vero al mondo, tranne i sogni.
Dedicata a tutti coloro che non vogliono smettere di sognare.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jonghyun, Key, Minho, Onew, Taemin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata a tutte quelle persone che non vogliono smettere di sognare.
Buona lettura. 
 
 
 
 
Non c’è nulla di vero nel mondo, tranne i sogni.
 
 
 
 
 
Kim Kibum avrebbe voluto diventare uno scrittore, ma la sua vita si stava perdendo dietro la cassa di un supermarket. Più di vent’anni, la frangetta a coprire gli occhi, la mano sempre dolorante per colpa della penna troppo tenuta in mano. Una vita passata prima nella gabbia scolastica, poi fra prosciutti e confezioni di sottaceti, sotto lo sguardo di superiorità di coloro che si ritenevano più degni. ‘Più degni’ di cosa, ancora non lo aveva capito. 
Ciò che poteva definirsi una consolazione era l’amaro divertimento di poter osservare gli svariati tipi di clienti che entravano nel negozio. C’erano quelli indaffarati, spesso in giacca e cravatta: prendevano sono una bibita, o un panino preconfezionato; c’erano quelli annoiati, dalle gambe pigre, intenti a spingere il carrello con gli occhi rivolti verso il nulla; quelli disgustati, come se l’entrare in un centro commerciale pubblico fosse l’azione più ignobile che potessero fare nella loro vita; e poi c’era lui. 
Lui veniva spesso, anche cinque volte alla settimana. Si fermava davanti al bancone delle bibite energetiche, le guardava per qualche minuto, per poi allontanarsi con quel passo fatato. Sembrava piccolo, ‘uno scricciolo’ avrebbe detto Kibum, e delle volte aveva come l’impressione che quelle gambe sottili potessero abbandonarlo da un momento all’altro e farlo precipitare sul pavimento. Lo sconosciuto oramai ‘conosciuto’ arrivava sempre alle 18:07, come un’azione puramente ripetitiva, totalmente affondato nella divisa di quello che sembrava il fastfood dietro l’angolo. Ma Kibum ci era stato solo una volta, quindi non avrebbe potuto giurarlo. Anche quel giorno di novembre lo scricciolo si presentò al supermercato, sempre nella divisa rossa, sempre con le spalle ricurve. Solo che quella volta le cose andarono diversamente. Lo sconosciuto svenne davanti al bancone delle bibite energetiche. 
 
 
 
Lee Taemin avrebbe voluto diventare un ballerino, ma la sua vita si stava perdendo fuori dalla porta di quel fastfood dagli orari pressanti. Vent’anni fatti da poco, il volto stanco coperto dai capelli neri, il sorriso finto, il costante odore di olio fritto sotto il naso. Disgustoso. 
Odiava la sua vita. Odiava quei tavoli pieni di briciole, macchiati di unto, le sedie sempre spostate e mai rimesse a posto dalle persone che alzavano i loro inutili culi per tornare alle loro attività. Fastidioso. Odiava il suo capo, quell’uomo basso, viscido, grasso tanto quanto i cibi spazzatura che vendeva. Raccapricciante. Odiava il suo misero stipendio, talmente tanto scarso che per pagare le bollette e mangiare qualcosa aveva bisogno di un aiuto economico dai suoi genitori. Umiliante. 
Lee Taemin avrebbe voluto cambiare vita, ma per interrompere il flusso monotono delle due giornate si limitava soltanto ad andare davanti al bancone delle bibite energetiche del supermarket lì vicino, a guardare quelle bottigliette colorate con nostalgia. C’era quella all’arancia, quella alla menta, quella al limone. Ma quella che prendeva sempre, quando ancora il ballo non sembrava un sogno così volubile, non c’era mai: sapore di fragola. Anche quel giorno di novembre Taemin uscì dal fastfood alle 18:07, ritrovandosi quasi meccanicamente all’interno del freddo supermercato dove lavorava quel commesso dai capelli biondi e l’aria stanca. L’aveva notato per quegli occhi bassi, per le dita delicate che digitavano ininterrottamente codici sulla cassa, per quelle labbra a cuore che troppe poche volte si tendevano in un sorriso. Taemin si sentiva in sintonia con lui. Ma oltre al solito feeling che percepiva nei riguardi quel giovane, quel giorno aveva anche la netta sensazione che la sua testa fosse troppo pesante, la sua vista troppo annebbiata, le sue gambe troppo molli. Diede la colpa alla massiccia quantità di aria irrespirabile che aveva inalato a lavoro, o al fatto che non avesse pranzato. Ma ad un tratto le bibite energetiche scomparvero sotto i suoi occhi, sostituite da un buco nero, e Taemin cadde sulle mattonelle sporche del supermercato. 
 
 
 
Choi Minho avrebbe voluto diventare un musicista, ma la sua vita si stava perdendo fra le urla in casa e i respiri spezzati. Poco più di vent’anni, un ciuffo di capelli scuri a coprire quegli occhi smisuratamente grandi, le mani sempre impegnate a tenere ben ferma e salda la chitarra marrone scuro che aveva faticosamente comprato lavorando part-time in quel negozio di ceramiche. 
La sua vita poteva essere considerato un enorme ammasso di problemi, dalle infinite litigate dei suoi genitori fino alle mal riuscite audizioni musicali. L’unico momento di pace, se così la si poteva chiamare, che riusciva ad avere era durante la notte, quando l’intera casa era assopita e lui poteva tranquillamente essere se stesso. Magari seduto sul terrazzo, a suonare qualche nota malinconica dedicata alle stelle. Minho si occupava quasi di tutto: faccende domestiche, cucina, pulizie. Sua mamma passava le giornate a piangere sul divano, suo padre rinchiuso nel suo studio. E lui.. Da solo. A badare ad una famiglia sull’orlo della distruzione. 
Anche in quel giorno di novembre i suoi genitori avevano deciso di disturbare la quiete con una delle solite discussioni senza senso. Perché la verità era quella: ogni loro litigata non aveva senso, nemmeno il minimo. E la situazione era tremendamente irritante, tanto che Minho aveva iniziato a pensare di scappare di casa mentre affettava con maestria i pomodorini sul ripiano della cucina. “La nostra vita è inutile”, urlava sua madre dal salotto; “siamo noi che la rendiamo inutile”, rispondeva suo padre; “siete voi ad essere inutili”, avrebbe voluto dire Minho. Spinse con più violenza il coltello sul ripiano, tagliandosi per sbaglio il palmo della mano. Un rivolo di sangue andò a mischiarsi con il rosso dei pomodori, e non poté fare a meno di digrignare i denti per il dolore. “Loro saranno anche inutili, ma tu sei scemo Choi Minho”, si ripeteva nella mente, afferrando un asciugamano ed avvolgendoci la mano dentro. Con l’arto sano gettò il cibo oramai inutilizzabile nel cestino della spazzatura ed uscì di casa a passo svelto senza nemmeno badare si suoi genitori, gettandosi in strada. 
Minho ringraziò il cielo di abitare a due passi dal pronto soccorso, perché la mano faceva male e stava iniziando a sanguinare un po’ troppo per i suoi gusti. Ma arrivato all’interno del triste edificio dovette mettersi in coda e aspettare, mentre casi più urgenti gli sfrecciavano sotto gli occhi. Si guardò per un attimo la mano tagliata, sfiorando la ferita con le dita. Non sembrava un taglio profondo, ma il dolore era davvero lancinante. 
-Sembra far male- affermò ad un tratto una voce sottile accanto al suo orecchio sinistro. Un ragazzo dai capelli biondi lo fissava stravolto, e Minho notò con preoccupazione che si portava dietro un altro giovane totalmente stravaccato sulle sue gambe. Doveva essere svenuto. A quanto pareva non era l’unico ad avere dei problemi, al momento. 
 

Kim Jonghyun avrebbe voluto diventare un cantante, ma la sua vita si stava perdendo dentro ad una tuta sterile e a dei guanti per raccogliere la spazzatura in strada. Poco più di vent’anni, dalla voce di un angelo e gli occhi che esprimevano più parole di quante ne pronunciasse. 
Nonostante tutto il suo cuore, anima compresa, fosse rivolto alla musica, non poteva che sentirsi fortunato nell’avere un lavoro, nel poter portare in casa qualche soldo, nell’essere indipendente. Però quella vita cominciava a stargli stretta. Odiava pensare ai suoi vecchi compagni di corso, ora tutti impegnati a suonare in qualche locale o a incidere canzoni all’interno di una sala di registrazione. Avrebbe dovuto essere lì anche lui, con un microfono davanti alla bocca, a trasmettere un briciolo d’amore all’umanità con la sua voce. Ciononostante non riusciva ad arrendersi alla cruda realtà, ed ogni tanto intonava qualche canzone storica mentre con maestria raccoglieva i pacchetti di plastica e le carte che le persone non avevano la decenza di gettare in un cestino. Molti passanti abituali di quella zona lo conoscevano come “lo spazzino canterino”, soprannome che non gli dispiaceva più di tanto. 
Anche quel giorno di novembre Jonghyun stava cantando in strada, nella sua tuta e con i suoi guanti, mentre le persone entravano e uscivano dal pronto soccorso lì davanti. Poteva vedere persone felici, ma anche troppe in lacrime, disperate, e sperò che per qualche secondo la malinconica canzone che stava intonando potesse risollevare i loro animi stravolti e i loro occhi spenti. Occhi come quelli di quei tre ragazzi che stavano scendendo assieme le scale, con fasciature alle mani e gambe traballanti. Occhi che sembravano i suoi, pieni di sogni non realizzati e segregati in un cassetto dalla serratura troppo piccola per riuscire ad essere riaperto. E quegli occhi lo guardarono, mentre ancora la sua voce usciva dalle labbra esitanti, e seppe che, per qualche motivo imprecisato, quelle tre persone si sarebbero fermate ad ascoltarlo. E così fecero. 
 
 

Lee Jinki avrebbe voluto viaggiare, ma la sua vita si stava perdendo fra le mura troppo strette di quel monolocale di periferia. Poco più di vent’anni, dal sorriso sempre splendente anche nelle giornate in cui avrebbe preferito piangere. 
Jinki era una persona solare per natura, nonostante a volte la sua vita gli sembrasse talmente tanto statica che avrebbe voluto cambiarla da cima a fondo. L’idea di non star mai fermo in un luogo per troppo tempo lo catturava fin da quando era piccolo, quando la maestra passava fra i banchi consegnando cartine geografiche e fotografie di luoghi lontani. America, Europa, Africa: sarebbe andato ovunque, zaino in spalla, e coraggio nelle gambe. Invece era costretto a starsene in quella casa veramente troppo piccola anche per una sola persona, ma l’unica di cui potesse permettersi di pagare l’affitto con il misero stipendio che incassava ogni mese. 
Anche in quel giorno di novembre Jinki uscì da quelle quattro parenti smunte per recarsi al lavoro, turno serale, mentre il sole oramai stava iniziando a calare dietro ai grattaceli portando con se lo scarso calore dei suoi raggi. L’aria pungente gli solleticò il volto, facendolo infossare nell’enorme sciarpa avvolta intorno al collo, mentre piano piano attraversava la strada fino all’altro capo del marciapiede, dove un ragazzo in tuta sterile stava cantando una lentissima canzone d’amore. Intorno a lui stavano altri tre giovani, con lo sguardo rapito, e Jinki non poté fare a meno di fermarsi per un attimo a sua volta ad ascoltare quella voce angelica irradiarsi lungo la via. Una voce così non avrebbe dovuto fermarsi in quell’angolino di mondo, o almeno così credeva Jinki. Avrebbe dovuto raggiungere ogni spazio possibile. Applaudì di getto, dimenticandosi del lavoro che lo aspettava, del fatto che quello fosse uno sconosciuto, del fatto che anche gli altri tre lo fossero. Alla fine, nessuno è poi così sconosciuto a qualcun altro. 
 
 
 
In quel giorno di novembre cinque ragazzi sedevano al un tavolino sbilenco di un bar, dietro ad una tazza di cioccolata bollente. La musica jazz di sottofondo rapiva i respiri di Jonghyun e Minho, incantava i muscoli di Taemin, ispirava poesie a Kibum, infondeva coraggio in Jinki. Nessuno aveva il coraggio di proferire qualche parola sensata, ma andava bene così. Non c’era bisogno di parlare, oramai l’avevano capito. 
-Sapete, io vorrei diventare uno scrittore- disse Kibum ad un tratto, sfiorando il bicchiere con un dito. -Scrivere d’amore, storie di vita, avventure. Ma devo passare il mio tempo alla cassa di un supermercato per pagare l’affitto-
-Io vorrei poter ballare senza sosta dalla mattina alla sera, sotto le stelle e alla luce dell’alba. Vorrei vivere di quello, lasciare il resto fuori- affermò Taemin, lo sguardo basso, le mani intrecciate sul tavolo.
-E io vorrei suonare le melodie più dolci, trasportate dal vento, raccontate dalla gente- sussurrò Minho, guardandosi la fasciatura sulla ferita, pensando alla sua chitarra, allo sfiorare le sue corde. 
-E io vorrei poterle cantare, quelle melodie- continuò Jonghyun con un sorriso malinconico, mentre Jinki gli posava una pazza sulla spalla.
-E io vorrei che i miei occhi potessero vedere le meraviglie del mondo..- concluse quest’ultimo, concludendo quella strana scala di sogni mai realizzati, sorseggiando la bevanda calda come se non gli rimanesse altro che fare quello. 
-La vita non va mai come vorremmo- mormorò Kibum. -I sogni sono solo bugie mascherate-
-Non è vero. Senza sogni non si vive- affermò Taemin. -Senza sogni non si progetta nulla-
-Non c’è molto da progettare infatti-
-Solo perché siamo noi a non volerlo fare- proferì Minho secco, sbattendo la sua tazza sul tavolo. -Siamo cinque sconosciuti che si compiangono davanti ad una cioccolata. Bella merda. Io sono stufo. Voglio cambiare vita. Possiamo farlo insieme- 
Kibum rise, non per deriderlo, ma solo perché l’idea era dannatamente bella. Bella e impossibile. 
-Dirlo è più facile che farlo, Choi Minho- disse il biondo con un sorriso.
-E perché? Ascoltate: siamo dei ragazzi con la testa sulle spalle, carichi di sogni. Siamo giovani! Chi ci costringe e stare dietro ad una vita che non vogliamo, legati a delle catene che ci fanno male?- continuò Minho sporgendosi sul tavolo. -Kibum, tu sei uno scrittore. Potresti scrivere delle canzoni per Jonghyun, e io preparare la base musicale. Taemin potrebbe ballarle. Potremmo girare il mondo in questo modo, permettendo a Jinki di realizzare il suo sogno. Permettendo a tutti di farlo- 
-Come artisti di strada?- chiese Jonghyun, sentendosi trascinato dal discorso.
-Si, come artisti di strada. Vivere il presente, senza pensare al futuro. Ma vivere dei nostri sogni- spiegò Minho con un sorriso, guardandoli tutti in volto. 
-A me l’idea piace- affermò Taemin posando una mano su quella dell‘altro. -Sono con te hyung-
-Penso che sia fantastico- disse Jinki, illuminando la sala con uno suoi sorrisi, aggiungendo la sua mano a quella di Taemin. 
-Buttiamoci- proferì Jonghyun. -E fallo anche tu Kibum-
Il biondo li guardò tutti per qualche istante, pensando alla sua vita fino a quel momento, e decise che avrebbe potuto provare.
Il giorno dopo cinque lettere di licenziamento erano pronte per essere consegnate.
 
 
 
In quel giorno di maggio cinque ragazzi stavano seduti sul ciglio di una strada qualunque di Roma, a regalare al mondo le loro emozioni. Le persone guardavano incantate i movimenti di quel ragazzino, come seguissero le note della chitarra suonata dal giovane lì affianco ed espresse attraverso le parole e la voce di quegli altri due ragazzi che erano con loro. Il tutto registrato dalla macchina fotografica di un altro della compagnia, che si beava della vista, del paesaggio, e della presenza degli amici. 
In quel giorno di maggio cinque ragazzi vivevano di sogni.


Sonomi's Home:
Ringrazio tutti coloro che hanno dedicato cinque minuti per leggere questa piccola fanfiction riflessiva. :)
Al prossimo lavoro <3
  
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