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Autore: suni    28/02/2008    5 recensioni
Al 12 di Grimmauld Place, nel silenzio, soltanto un uomo ed una penna d'oca, per raccontare una storia d'amicizia che è una storia d'amore, un amore mai ammesso e mai nato...
(siate altruisti, lasciatemi un commento, anche se probabilmente negativo...)
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Potter, Remus Lupin, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Settimo anno

Sì, lo so, sono quasi sorpresa anche io, che sapevo benissimo di stare pubblicando.

Dopo soli nove mesi dall’ultimo aggiornamento, ecco a voi un nuovo capitolo di questa storia… Credevate fosse stata abbandonata? Invece no. Mai lo sarà, per vostra sfortuna.

E’ che le cose vanno fatte con calma.

- meritatissima pioggia di pomodori marci –

Ahm. Immagino che non ricordiate nemmeno più di che parla.

Di scemenze, ovviamente.

Lascio al signor Black l’onore di esplicare il concetto.

A presto

suni

 

 

Settimo anno

 

 

 

So che stavo cenando. Per una volta mi avevano concesso di sedere a tavola con loro – e costretto, perché non è che ci tenessi particolarmente - perché era il compleanno di mio padre. A pranzo era venuta tutta la famiglia allargata, gente come Lucius Malfoy, per capirci, e l’unica che mancava era la reietta di famiglia, mia cugina Andromeda, quella che ufficialmente non era mai esistita. Provai un moto d’invidia per lei: quei pranzi agghiaccianti non erano più un problema che la riguardasse, dal momento che non era più un membro della nostra famiglia; mi dissi, vago, che dovevo fare anche io qualcosa del genere.

La cosa strana è che non avevo ancora disfatto i bagagli. Non è che fosse poi così strano, in effetti, perché già da un paio d’anni tiravo fuori dal baule sempre e solo il minimo indispensabile; insomma, quella non la sentivo più come casa mia, ero una specie di ospite scomodo di cui meno si notava la presenza meglio era, per me e per loro. E d’altra parte ero arrivato solo da dieci giorni.

Comunque stavamo mangiando, tutti in silenzio fuorché Regulus, immerso nel narrare un resoconto dettagliato dei suoi GUFO. Orion lo ascoltava attentamente, con cipiglio serio e fiero. Nei ricordi di mio padre che conservo, lui ha sempre la stessa espressione facciale, un blocco di marmo regale e austero.

E’ un po’ triste che non mi dispiaccia e non mi sia mai dispiaciuto nemmeno un po’ che sia morto, visto che era comunque mio padre; quando venne a mancare Arnold Potter ne facemmo tutti quanti una malattia, e per Jim ovviamente fu un colpo mostruoso.

Comunque, fu in quel momento che Walburga si disse molto felice perché “almeno tu, Regulus, ci dai delle soddisfazioni”.

Ero abituato a quel genere di commenti e di solito mi entravano da un orecchio per volare subito fuori dall’altro, non ci badavo. Quella volta, forse perché la giornata coi parenti era stata uno stress, osservai che anche i miei GUFO erano stati buoni. Orion mi ordinò di non rispondere a sua moglie con quel tono – a sua moglie, non a mia madre - anche se avevo parlato con molta calma, a quel che ricordo. Lei era già partita, comunque, e iniziò una lunga invettiva contro di me, le mie idee da debosciato disgustoso, i miei amici schifosi, perdenti e inferiori, le mie maniere da bifolco, la mia comunanza con creature infime e tutto il resto. Mi sforzai disperatamente di non reagire finchè lei, in uno sbotto d’ira di quelli che la contraddistinguevano quando non era in pubblico, mi mollò un sonoro ceffone. Ero decisamente più alto di lei, non subivo già da tempo la minima autorità da parte su, e quel gesto era decisamente al di là di quanto potesse ancora permettersi nei miei confronti.

A volte apri un rubinetto e dimentichi di chiuderlo: l’acqua continua a scendere, e dapprima scorre normalmente giù per il tubo; poi, lentamente, comincia a fermarsi nel lavandino, e il livello sale lentamente, si avvicina sempre di più all’orlo, cresce, cresce, finchè ad un certo momento, all’improvviso, senza che succeda nulla di diverso o di imprevisto, supera il limite e straborda semplicemente fuori: accade, tutto qui, è solo perchè se n’è accumulata troppa. E in quello stesso modo, senza ragioni particolari, in quel momento mi sentii troppo pieno, seppi che il limite era oltrepassato e che non potevo contenere di più: ero saturo.

Un’ora dopo io, il mio mantello e il mio baule preparato approssimativamente eravamo fermi lungo Carver Street, a circa un chilometro e mezzo da Grimmauld Place: mi ero accasciato un attimo su una panchina, stanco della corsa, e tutt’a un tratto mi resi conto di quanto la luce fosse particolarmente vivida quella sera, il grigio dei palazzi più brillante e i quattro cespugli striminziti che mi affiancavano molto profumati. Stavo assaporando la sensazione più esaltante della mia vita, la libertà.

Era qualcosa di straordinario, che durò giusto il tempo che decidessi di voler condividere quel meraviglioso momento con James: realizzai che ero solo, in una città che di fatto non conoscevo, con dieci galeoni e sei falci e che non sarei mai stato in grado di usare la magia senza farmi vedere, così sarei stato subito localizzato. E non avevo neanche un posto in cui dormire.

Da questo episodio, tra parentesi, è nata l’idea di trovare un modo di poter sempre comunicare tra noi, da cui poi ebbero origine gli Specchi Magici.

La situazione mi sembrò improvvisamente molto meno rosea di quel che avevo pensato all’inizio: non potevo pagarmi una stanza né tanto meno arrivare in Galles, dove peraltro non volevo certo affibbiarmi come un peso a James. E comunque come avrei fatto a sopravvivere fino a settembre? E perché accidenti ero scappato di casa in quel modo teatrale invece che passando per il camino e dirigendomi magari almeno in un posto magico, dove trovare gente che facesse parte del mio mondo? Perché di quello Babbano allora non sapevo assolutamente nulla: gli unici posti in cui mi ero mosso erano stati Hogwarts – un castello magico, molto poco babbano - e casa Black - e lì di babbano non c’era neanche l’odore.

E fu allora che ebbi quella sfortunata idea.

Sanno tutti cosa penso dei mezzi di trasporto trattati con la magia, insomma, adoravo la mia moto volante e trovo fosse di una comodità immensa, belle cose e tutto il resto: ma quella di viaggiare sul Nottetempo è un’esperienza che non ho mai voluto ripetere. Sarà stata l’eccitazione della serata o – più probabilmente, secondo me - la guida folle di quell’autista pazzo, ma nemmeno nelle mie peggiori ubriacature ho mai vomitato così. Perciò arrivai da James reduce dalla baruffa coi Black, preoccupato e per di più pallido come un cadavere, pieno di sudori freddi.

Non capivo nemmeno più perché avevo voluto fare tutta quella strada per venire a farmi felicitare da James di qualcosa che cominciava a sembrarmi più che altro una difficoltà.

E lui naturalmente fu magnifico. Mi accolse a braccia aperte e m’impose di fermarmi qualche giorno, mi presentò i suoi genitori, due creature deliziose e di una discrezione straordinaria che capirono la situazione senza bisogno di spiegarla, e per finire si fece raccontare tutto dal principio: ci accovacciammo sul suo letto davanti alle due tazze di cioccolata che sua madre, cara Mirtle, ci aveva preparato, e andammo avanti a parlare finchè, alle sette e mezza del mattino, crollammo come sacchi uno addosso all’altro.

Ho dormito in quel letto per tutta l’estate, credo d’averlo già detto. C’erano altre stanze e persino una poltrona allungabile lì di fianco al letto di Jim, ma né l’une né l’altra hanno mai avuto il piacere di ospitarmi. Lui non me l’ha mai proposto e io non l’ho mai chiesto. Non che fosse voluto, ovviamente, certo che no. Semplicemente non ne sentivamo l’esigenza, non mi venne neanche in mente. Un po’ strano, per due mesi consecutivi.

Quell’estate non la saprei raccontare. La terza sera Arnold mi prese da parte e mi spiegò con decisione che lui e la moglie ne avevano parlato e avevano deciso che la cosa migliore era che restassi da loro fino al momento di tornare ad Hogwarts. E che se proprio volevo sdebitarmi, precisò impedendomi di protestare, avrei potuto dare una mano con la cascina e rendermi utile. E queste persone splendide facevano questo per me, un ragazzetto che conoscevano da pochi giorni, senza quasi darci peso.

Del resto mi presero subito in simpatia, e senza che facessi nulla di particolare – ero solo un po’ più civile del solito - e la cosa mi sembrava incredibile: i soli adulti con cui avevo avuto a che fare erano, impersonalmente, i professori, o altrimenti i miei parenti che mi odiavano. Era strano che non mi trovassero spiacevole, persino. Comunque mi appariva grandioso, e sembravo davvero piacergli; del resto James era così visibilmente contento della mia presenza lì e così genuinamente certo che loro non potessero che trovarmi fantastico, così orgoglioso in qualche modo di me, e anche di loro, insomma, era tutto un sorriso, tutto un raccontare loro le migliori cose su di me e a me su di loro, ecco, era quasi commovente.

Sì, me lo ricordo. Mi fa ridere, e in qualche modo lo trovo immodesto e sbagliato, ma quel che penso ogni volta è: che tenerezza, doveva essere così innamorato… Perché non si spiega altrimenti quella perenne ansia di spingerci l’uno verso gli altri, quel continuo cercare di mostrare loro i miei aspetti migliori.

Aiutavo Arnold con l’orto e col campo, e Mirtle con le sue marmellate. Tutto il resto del tempo io e James lo trascorrevamo facendo qualunque cosa ci passasse per la testa con una certa emozione. Era strano trovarci insieme nel mondo di fuori, ci faceva sentire in qualche modo ancor più vicini perché più reali. Niente divise, compiti e libri, ma quotidianità autentica; uscivamo e andavamo fino in paese a fare la spesa – le prime volte mi limitai a guardare, non sapendo che cosa bisognasse fare - o a prenderci dei dolci solo per il gusto di fare qualcosa di normale, da adulti che non vanno più a scuola. Scoprimmo che non ci conoscevamo ancora perfettamente come avevamo creduto: c’erano ambiti nei quali non c’eravamo mai confrontati, cose di cui ricordavamo l’esistenza soltanto allora – come ci piaceva tenere la camera a casa, cosa sapevamo fare a parte le cose scolastiche, simili questioni - che affrontavamo per la prima volta.

E così gli ultimi pezzi del mosaico andarono al loro posto. Adesso il quadro era completo, e con un’armonia assoluta: a settembre non c’era più niente di oscuro, nessun aspetto mancante, avevamo trascorso l’estate a raccontarci tutte le piccole cose che non conoscevamo l’uno dell’altro, ogni pensiero, tutto. E niente era stato oggetto di screzi o delusioni. Ci piacevano anche i modi in cui eravamo diversi, e questa forse era la cosa più importante; il nostro appoggio era incondizionato.

La grande sorpresa dell’estate, comunque, fu che Jim salì sull’Espresso con il rango di Caposcuola.

Una delle tante stronzate che Albus ha fatto nella sua lunga esistenza.

Sono onesto e non mi piace mentire, e James è stato in assoluto il peggior Caposcuola in cui mi sia mai imbattuto: approssimativo, menefreghista, distratto. Non teneva dietro alle cose nemmeno sforzandosi e comunque non gli interessava, l’unica cosa positiva era, a sentir lui, che con ogni probabilità l’altra Caposcuola sarebbe stata Lily.

Per me questo particolare costituiva un’ulteriore difetto della cosa: non ci vedevo nulla di buono in quella nomina, delle stupide riunioni e incombenze mi avrebbero sottratto il tempo di Jim consacrandolo a quella smorfiosa, per non parlare della catastrofica ipotesi in cui le di lei pressioni e le responsabilità dell’incarico non gli facessero venire in mente di dare il buon esempio e rigare dritto. Sarebbe stata la fine del divertimento, ci saremmo allontanati e sarei rimasto solo.

Mi giustificavo dicendomi che era solo per le occasioni di spasso mancate che ero un po’ geloso di James, non certo perché desiderassi che quel tempo venisse dedicato a “noi due”: nelle nostre teste non esisteva nulla del genere, allora.

Comunque Jim a rigare dritto non ci pensava nemmeno. Ancora una volta mi ero sbagliato, ancora una volta la mia inconscia insicurezza non riconosciuta veniva smentita senza neanche essere espressa: quel che tendevo a dimenticare era che non solo James era importante per me, ma anche viceversa. Ci siamo rincorsi per tutta la vita che abbiamo diviso, senza capirlo.

Però il peggio, all’inizio di dicembre, si verificò. Lily capitolò in un momento di debolezza che non mi spiegherò mai. Probabilmente è stato semplicemente perché, trovandosi a stretto contatto con lei per più tempo, James si dovrà essere un po’ rilassato e avrà smesso di fare continuamente lo spaccone, rivelando tutte le meravigliose qualità che io e Remus conoscevamo tanto bene: e Lily avrà avuto modo di apprezzarle. In realtà non ho mai voluto sapere bene com’è andata, perché non era esattamente il mio argomento di conversazione preferito. Sta di fatto che un pomeriggio due ragazzi del Quinto anno, un Grifondoro che si chiamava Thomas qualcosa, mi pare, e un Serpeverde di cui non ho mai saputo il nome, scatenarono una specie di rissa in cui alla fine risultarono coinvolte sette o otto persone: è stata anche l’unica volta in cui James ha adempito onorevolmente al suo incarico di Caposcuola. Sfoderò un’inaspettata autoritarietà e in capo a qualche minuto la situazione era sotto controllo, e lui era intento a confortare il ragazzetto Mezzosangue insultato che stava all’origine del litigio.

Lily dovette sciogliersi, perché due giorni dopo gli concesse il loro primo appuntamento, fissato ad Hogsmeade nel weekend.

Io me la ridevo. Non avevo il minimo dubbio che l’uscita sarebbe stata un disastro e che la Evans avrebbe strangolato James, scaricandolo in malo modo. Sì, non avrei mai ammesso che quella sola uscita di per sé fosse sufficiente ad innervosirmi – e lo era, garantito - e che in realtà la leggera ansia che sentivo non fosse dovuta al fatto che mi preparavo a consolare il ferito al momento delle picche, come mi ripetevo, ma al fatto che non riuscivo a digerire che James fosse finalmente riuscito ad uscire con la ragazza cui faceva il filo da secoli.

Comunque, passai la giornata in giro per negozi con Remus e Peter, facendo incetta di scherzi e sostando ai Tre Manici. In realtà però non c’ero con la testa, la mia mente era persa nell’immaginare l’incontro che stava avvenendo in quelle ore. E che non si concluse affatto con lo strangolamento di James, come venni a sapere al rientro al Castello, ma anzi era andato molto bene. Jim era euforico e sognante, con gli occhi brillanti e il sorriso assente, io invece ero una specie di Marciotto incarognito e stizzito, piombato nel semi-mutismo.

E poi si misero insieme, così.

Dapprincipio fui molto sgradevole. Se prima ogni rimprovero, ogni commento e anche ogni semplice sguardo riprovatorio di Lily m’irritava al punto da costringermi a reagire in modo inconsulto, con repliche perfide e commenti maligni, adesso ero io a provocarla apertamente, ad attaccare rogna. Questa cosa, in teoria, avrebbe potuto costarmi cara: mi mettevo completamente dalla parte del torto e James avrebbe avuto tutti i buoni motivi del mondo per arrabbiarsi con me, per offendersi del mio atteggiamento insultante verso la ragazza che amava, o che riteneva di amare.

Ma non lo fece.

Non ho mai capito questa cosa, forse non ci ho mai nemmeno pensato davvero.

Quel che James fece, al principio, fu sopportare in silenzio le mie uscite aggressive e il mio malumore epico. Protestava blandamente quando mi rivolgevo a Lily in malo modo, con un sospiro esasperato e uno sguardo vagamente risentito, ma non fu secco né si arrabbiò davvero.

Lily invece era furiosa.

Io anche.

Per qualche settimana Jim fu assolutamente assorbito dalla presenza di lei. Era un piacere per gli occhi vedere quella coppietta di adolescenti ammaliati l’uno dall’altra, che tubavano come colombe e passavano venti ore al giorno mano nella mano; un piacere per gli occhi, ma non per i miei.

In quel primo periodo, James sembrò quasi dimenticarsi di noi. Ci regalava qualche frase distratta quando ci alzavamo, prima di scendere in sala comune e ricongiungersi all’amata, o alla sera dopo averla salutata. Presero a sedersi vicini durante le lezioni, decisione che scatenò definitivamente la mia collera. Ti ricordi, Remus, la sfuriata che ti ho fatto nella discrezione del dormitorio vuoto?

Mi rifacevo con i miei commenti velenosi, che accendevano un diffuso rossore sulle guance di Lily, ma era una ben magra consolazione. Lei ovviamente protestava vivamente con James, lamentando la mia cattiveria, ma lui si aggrappava a deboli giustificazioni o minimizzava episodi che oggi mi fanno quasi arrossire di vergogna. Una sera arrivai ad insultarla sibilando che era una vacca Mezzosangue, e fu una fortuna che James non fosse presente, perché forse se la sarebbe presa davvero. Quando lei glielo raccontò, poco dopo, James mi venne a cercare e probabilmente ne sarebbe nato un litigio coi controfiocchi, ma per mia fortuna non mi trovò in dormitorio: si era dimenticato della luna piena, e io, Peter e Remus eravamo già alla Stamberga da un pezzo.

Quella dimenticanza, mai verificatasi prima, lo portò a realizzare che forse stava trascurando troppo altre cose importanti che non fossero Lily.

Lo trovai seduto sul mio letto, al mattino, quando rientrammo. Peter crollò sul proprio materasso immediatamente, mentre io mi accoccolavo cautamente accanto al mio migliore amico, certo che volesse Cruciarmi per le cose che avevo detto la sera prima alla “vipera”. Ero anche infuriato, comunque, perché si era dimenticato della nottata alla Stamberga: era un insulto all’onore dei Malandrini, cosa che all’epoca, per noi, equivaleva più o meno all’omicidio.

Lily mi ha riferito quello che le hai detto, mormorò, non appena il respiro del nostro amico si fu fatto pesante. Io borbottai una risposta noncurante, qualcosa come “e allora?”

Non mi sentivo più così tranquillo. Ero convinto che James fosse infuriato a morte e avevo paura che avremmo finito per litigare davvero, come quando avevo fatto lo Scherzo a Snivellus.

Invece James saltò fuori con un discorso assurdo sul fatto che avevo tutte le ragioni per essere incattivito, che ci aveva trascurati troppo e se ne rendeva conto solo ora e che aveva sbagliato a farlo. Non era giusto, disse, che una ragazza bastasse ad allontanarci. Potevo, per favore, dimenticare quel suo imbarazzante atteggiamento nei miei confronti?

Ero incredulo.

Ci rimasi così basito che non riuscii nemmeno a formulare una qualche risposta intellettualmente astuta, atta ad aumentare il suo senso di colpa nel tentativo di allontanarlo da lei. Farfugliai soltanto che no, aveva tutto il diritto di vedere tutte le ragazze che voleva. Lo pensavo davvero, razionalmente, anche se la cosa che mi divorava lo stomaco diceva il contrario, ma a quell’epoca non avevo le minima intenzione di darle retta.

James scrollò la testa. Non se questo si mette tra noi due, rispose, serio.

Così.

Ti diceva questo genere di cose e tu potevi solo rimanere lì a guardarlo a bocca aperta, e a chiederti se fosse proprio vero o se te lo stavi solo immaginando.

Ma non mi piace come ti stai comportando, aggiunse. Lily non ti ha fatto niente.

A parte scocciare tutti noi per sei anni ogni volta che facevamo qualcosa che non le andava, avrei potuto rispondergli, ma non mi venne in mente. Mi vergognavo, in quel momento. Ero di nuovo stato eccessivo e scorretto quando invece lui, come sempre, conservava per me un affetto sacro e intoccabile. Finii per scusarmi sentitamente e rassicurarlo che non sarebbe più successo.

Smisi di tormentare Lily, in effetti. Almeno apertamente, perché la sua presenza mi indispettiva comunque così tanto che non potevo fare a meno di cercare di metterle i bastoni tra le ruote; ero sempre pronto ad inventare passatempi cui lei non potesse partecipare e a far notare indirettamente che comunque la sua presenza mi era sgradita. E James faceva finta di non vederlo.

Credo che inconsciamente sapesse che prendere atto di quella cosa avrebbe significato doversi mettere di fronte a prese di posizione dure. Ma James, questo ormai lo sapevo, non poteva fare a meno di me. E non voleva fare a meno di Lily.

Ed è proprio qui che sta la differenza: James VOLEVA amare Lily, ma ero io, non lei, la persona da cui non era capace di separarsi. Tutto qui. Lei poteva essere ostile verso di me quanto voleva, poteva screditarmi e lamentarsi di quanto lo facessi apposta a cercare di tenerli separati, protestare per la mia possessività nei confronti di James, per il fatto che ci fossero così tante cose che gli proibivo di raccontarle – e lui, nonostante la sua insistenza, non gliele raccontava davvero – o perché ero scorretto nei suoi confronti: James, irremovibile, aveva sempre una scusa da fornire per giustificarmi.

Al principio, Lily doveva essere convinta che sarebbe riuscita ad allontanarmi un po’ da lui e diminuire la mia influenza sul suo ragazzo, ma dovette arrendersi presto all’evidenza: non ci sarebbe riuscita. Dopo un paio di feroci discussioni in cui gli rinfacciò la debolezza nei miei confronti e alcune sfuriate clamorose, dovette rendersi conto che James comunque non si sarebbe staccato da me ed era quindi inutile litigare per questo. Cercò di essere più sottile, di portare allo scoperto le mie bassezze, ma quanto a sotterfugi e tranelli ero decisamente un osso troppo duro per lei. Quando sbatté definitivamente il naso contro l’evidenza del mio predominio, doveva essere già troppo innamorata di James per poter anche solo pensare di separarsene.

Il tempo che trascorrevamo insieme, comunque, era diminuito molto: stavo con Remus e Peter, ma loro avevano quella fastidiosa abitudine di studiare che a me non aggradava affatto: Remus studiava molto per inclinazione, Peter per cercare di rimediare alla scarsa capacità di apprendimento. James e io, invece, eravamo quel tipo di persone che imparano rapidamente e senza sforzi, e siccome studiare non ci piaceva, lo facevamo il meno possibile. C’era un’altra persona, al nostro anno, dotata di un’intelligenza altrettanto pronta, ed era Frank. Trascorsi molto più tempo con lui rispetto a prima, nella parte finale di quel settimo anno.

Non che i Malandrini agonizzassero o cose simili, stavamo semplicemente crescendo ed ognuno iniziava ad avere le proprie esigenze. Quand’eravamo insieme eravamo gli stessi di sempre, e tra noi si conservava quell’intesa magica e profonda che ci faceva scoppiare a ridere in coro senza la necessità che qualcuno esprimesse ad alta voce cosa fosse all’origine di tale ilarità. Non c’erano ancora spie, traditori o vittime.

Verso la fine dell’anno, James mi prese da parte un’altra volta. Era nervoso, impacciato; sapevo capirlo al volo e la sua faccia non aveva segreti per me.

Stiamo per finire la scuola, allora, mi disse.

Eh già, commentai, perplesso.

Non ce la faceva proprio a prendere le cose alla larga. Iniziò ad investirmi di parole spiegandomi che aveva intenzione di andare a vivere con Lily e sposarla prima possibile. E la cosa assurda di cui mi rendo conto ora, la cosa che mi fa quasi ridere e piangere insieme, è che ricordo perfettamente l’espressione colpevole che aveva in faccia e il lungo elenco di giustificazioni che mi fornì. Quasi come se dovesse scusarsi, spiegarmi un gesto scorretto e sbagliato che compiva con la consapevolezza della sua basilare erroneità.

La notizia non poteva proprio rallegrarmi, e non lo mascherai più di tanto, ma la cosa sembrò solo sprofondarlo nel panico.

Merlino, che tenerezza, James. Ero troppo, troppo giovane per capire quanto mi volevi bene, e lo eri anche tu. Ero consapevole di piacere alle ragazze perché ero bello, accattivante e facevo parlare di me, e non sapevo riconoscere la profondità dell’amore autentico, quello che non ha bisogno di esteriorità e vanti. Allo stesso modo, scambiavo – e scambiavi - la tua infatuazione adolescenziale per la bella Caposcuola dai capelli rossi, contesa tra tanti, per un sentimento profondo, e non vedevo che quello, invece, senza saperlo lo riservavi a me.

Forse quel giorno avrei dovuto dire che era troppo giovane per pensare a sposarsi, cosa che tra l’altro pensai, oggettivamente e al di là della gelosia. Forse così avremmo avuto tempo per capire, tutti e due.

Mi inteneriva quasi il modo in cui cercava sempre la mia approvazione. E ho sempre, sempre avuto bisogno di fornirgliela, come l’appoggio che mi chiedeva inconsciamente o il sostegno di fronte a qualunque problema. Quando si scopriva fragile, James si volgeva a me, e viceversa. E io, puntualmente accorrevo.

Così, balbettante com’era, aggiunse che, ecco, aveva bisogno di sapere che comunque ci sarei stato. Lì per lì la presi per un’offesa, mi sentii quasi insultato: ne avevamo parlato poco tempo prima, gli ricordai, nessuna ragazza sarebbe bastata a dividerci. La presi per una infamante messa in discussione della mia lealtà al nostro legame, ma adesso so che, senza saperlo nemmeno lui, James stava mettendo a nudo la realtà dei fatti: tra me e lei, a dover scegliere, contavo di più io.

Non se ne accorse nessuno dei due e, giunti alla conferma del fatto che ancora una volta niente e nessuno poteva spezzare l’intesa tra noi, ci separammo allegri e leggeri come i due ingenui deficienti che siamo sempre stati.

Ho tralasciato un evento, occorso nel mese di marzo: il mio buon vecchio zio Alphard, che era stato l’unico della famiglia a non fingere di aver rimosso la mia esistenza dai propri ricordi, morì in quel mese. Mi lasciò in eredità una somma sufficiente a garantirmi la serenità economica per un numero di anni tale da non dover pensare a mantenermi forse fino alla morte. Il gesto mi lasciò di stucco e ricordo che piansi calde lacrime per quell’ometto stravagante a cui non avevo mai dimostrato a fondo la mia riconoscenza, svagato e involontariamente ingrato come sono i ragazzi. Mi dispiacevo di non aver avuto più gesti affettuosi verso di lui, di non aver mai lasciato trasparire quanta gratitudine gli portavo ogni volta che mi aiutava, ai tempi in cui vivevo ancora con i Black. Ora purtroppo non potevo più farlo, e questa consapevolezza mi scatenava sentiti singhiozzi.

James sembrò capire al volto il mio stato d’animo, e ovviamente mi ripeté fino allo sfinimento, senza che avessi bisogno di spiegargli cosa mi scombussolasse tanto, che di certo lo zio sapeva quanto gli avevo voluto bene, e che da lì dov’era sentiva tutta la mia gratitudine. Aveva capito cosa provavo senza che glielo spiegassi, come sempre.

L’anno finì, troppo in fretta. Le ultime due settimane furono assurde: ci rendemmo conto tutt’a un tratto che di lì a pochi giorni avremmo lasciato Hogwarts per non fare ritorno; la nostra vita meravigliosa, l’esistenza perfetta che ci eravamo costruiti e che ci riempiva di una gioia inesplicabile, stava per finire. Le cose sarebbero cambiate, non avremmo più trascorso giorno e notte insieme, non avremmo più percorso quei corridoi, quelle scale, quei saloni. Non avremmo più visto il soffitto meraviglioso della Sala Grande, le armature nel corridoio, le scale magiche.

L’ultimo giorno di lezione della McGranitt, cui mi legava un rapporto estremamente conflittuale – adoravo la sua materia, la consideravo un’insegnante eccelsa, ma detestavo la sua severità, e lei allo stesso modo aveva un debole per il mio talento e la mia prontezza, ma non sopportava il mio atteggiamento da bastian contrario – mi trattenni in aula per un paio di minuti dopo il termine dell’ora, fingendo di avere problemi col mio calamaio. In quell’aula mi ero annoiato moltissimo, a volte – in altre occasioni, invece, avevo adorato le sue lezioni – ma ora andarmene e pensare di non sentire mai più le spiegazioni della professoressa mi sembrava assurdo e ingiusto, perché non lo sceglievo io.

Minerva sollevò lo sguardo dal registro e lo spostò su di me, con un’occhiata stranamente benevola.

“Tutto a posto, Black?” mi chiese.

E’ imbarazzante – non te l’ho mai detto, Remus, se no mi avresti schernito a vita – ma quello che feci, in quel momento, fu sollevare gli occhi su di lei e scoppiare in lacrime come un bambino. Rimase esterrefatta, a bocca aperta, senza riuscire a muoversi per qualche secondo. Poi mi venne vicino, preoccupata, chiedendomi se fosse successo qualcosa. Potei solo scrollare la testa, continuando a piangere disperatamente. Lei allora intuì cosa mi turbasse, perché il suo sorriso si fece commosso e gli occhi le si arrossarono.

“Insegnare ad uno studente così portato non capita spesso, Black. Sei una testa calda e un irresponsabile, ma di certo ad averti in classe non mi sono annoiata,” affermò, con voce un po’ tremante. Dovetti scappare dall’aula per evitare di mettermi a urlare.

James fece di peggio. Una delle ultime sere, ad una commento malinconico di Nick quasi-senza-testa sulla nostra imminente partenza, e complice qualche sorso di mirtograppa di troppo, scoppiò a piangere nel corridoio tentando ripetutamente, ma ovviamente invano, di abbracciare il fantasma. La cosa ci fece ridere fin quasi a vomitare, ma era anche orribilmente triste.

Insomma, a pochi giorni dagli esami persino Remus smise di studiare. James spiegò a Lily che era doveroso, da parte sua, dedicarci quegli ultimi momenti, e per una settimana non facemmo che scorrazzare da un angolo all’altro di quel luogo meraviglioso con gli occhi umidi, commuovendoci per ogni ricordo che ci legava a tutti i suoi anfratti, le serre, l’orto di Hagrid, la torre di Astronomia, le cucine, la Stanza delle Necessità. Ripercorrevamo quei sette anni di vita splendenti e osservavamo e toccavamo ogni cosa con una dolcezza e un affetto struggenti.

Amavo Hogwarts, la amavamo tutti e quattro.

L’ultima notte alla Stamberga fu esilarante e straziante, e al mattino ci guardammo in faccia e ci concedemmo una frignata comunitaria.

E poi era finita.

Salire sul treno faceva male, davvero.

Remus sarebbe tornato da sua madre, e anche Peter. James avrebbe trascorso qualche settimana dai suoi, così come Lily, mentre avrebbero cercato casa insieme. E anche io dovevo trovarmi un alloggio, così, nel frattempo, sarei tornato a casa Potter con lui.

Ma c’era un’altra cosa che ci preoccupò appena messo piede sul treno: sapevamo cosa stava succedendo nel mondo di fuori, perché il vento freddo e crudele che tirava nella realtà aveva portato qualche alito leggero fino al Castello, dove durante l’anno si erano moltiplicati gli episodi di razzismo e gli scontri ideologici, e noi stessi avevamo avuto un numero sorprendente di baruffe con i Serpeverde.

Sapevamo, ma non potevamo capire. Avremmo capito in seguito, e sarebbe stato un colpo duro, da cui non uscimmo indenni. Allora, però, non potevamo immaginarlo.

Ed è stato meglio così, perché in quel momento avevamo già abbastanza paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A coloro che commentarono – e che forse ora sono spostai, emigrati in altri continenti, partiti in missione nello spazio o chissà che altro:

   Gaia Loire: grazie, grazie grazie… felice di non essere scontata e che apprezzi il mio stile. Tutto ciò mi rallegra oltremodo.

   Mixky: Capisco che vedere Sirius che barrica James nel cesso possa essere esilarante, in effetti. Io mi sono molto divertita a scriverlo. Poi Jk ha deciso che lo scherzo va messo nel quinto anno e il tutto mi scombussola alquanto, ma pazienza. Grazie e scusami, perdonami per il tuo “a presto” non rispettato…

   Solitamica: Don’t go where I can’t follow non sarà l’unico samismo presente. Non ricordo se già lo leggesti ma lo leggerai presto. Hahaha. Nel frattempo il mondo ci ha divise ulteriormente – il mondo o Efp, ma comunque… Che triste, drammatica esistenza.

   Snaso: ehm… dunque… non so quale dei tuoi perché sia quello giusto, ma comunque sia andata la faccenda tutto ciò mi onora e mi lusinga molto. Insomma, la coppia non ha senso – quant’è vero -  e ciononostante la storia ti piace. Wow. Grazie. Sì, Sirius è perfetto. E’ proprio perfetto. (alla sesta volta che lo ripeto fermami, eh).

 

 

   
 
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