Dedicata a una mia amichetta, nella speranza di risollevarle un po’ il morale
Io sono un cane. Sono
nato cane, morirò cane. Provengo dal distretto più miserabile, dalle condizioni
più miserabili. Ero un cane randagio, e per molti versi lo sono ancora. Con la
differenza che ora ho un padrone. Non ho altro modo per definirlo, il
nostro….rapporto? Mi sembra una parola troppo grande, troppo importante… non
mene sento degno. Non mi sento degno di Lui. Già, Lui… Lui così forte, Lui così
freddo, Lui così impassibile, duro, rigoroso, Lui che non ride mai, Lui che non
piange, Lui che non concede a nessuno i suoi pensieri, Lui che nessuno
eguaglierà mai.
I suoi occhi neri, che mi trafiggevano ogni volta che osavo
alzare lo sguardo, non hanno mai mutato espressione, mai una volta la loro luce,
il loro bagliore incandescente mi ha suggerito una sensazione diversa da quella
totale soggezione che mi colpì fin dal primo momento. Mi colpirono i suoi occhi,
come potrebbe colpirmi una spada in pieno petto, mi lasciarono tramortito, a
terra, sanguinante, senza fiato. Da quell’unica volta ch’io ebbi l’impudenza di
guardarlo negli occhi, non ho mai osato farlo di nuovo.
Mi considerò da
subito il suo cane, e io obbediente, scodinzolavo a ogni suo comando, a ogni suo
cenno; smaniavo dal desiderio di compiacerlo, e ho accettato di sottomettermi.
Non mi sono ribellato alla mia condizione, e forse proprio per questo non ho mai
avuto il tuo rispetto. Mi sono lasciato soggiogare sotto ogni punto di vista, ho
calpestato il mio cuore perché lui lo voleva, perché era un suo capriccio, ho
lasciato che mi torturasse a suo piacimento, senza lamentarmi, nella totale
dimenticanza del rispetto che dovevo prima di tutto a me stesso; da bravo cane
gli ho donato il mio collare su un piatto d’argento.
Lui questo lo capì
dalla prima volta che alzai lo sguardo verso di lui. Mi aspettavo di trovarmi di
fronte l’ennesimo bastardo, rampollo disgustosamente viziato di un’importante
casato di iene, che per di più mi aveva strappato l’unico brandello di famiglia
che mi era stato concesso. Lo disprezzavo. L’avrei ammazzato con le mie
mani. A lui bastò uno sguardo per strapparmi l’anima. No. Non è
vero. Fui io a dargliela, gliela offrii in ginocchio, non mi chiese mai niente,
Lui non aveva bisogno di chiedere.
Mai, mai si è abbassato al mio livello,
mai mi ha concesso di ascoltare la sua voce senza che vi fosse l’ombra di un
comando, perché in effetti, lui non mi ha mai chiesto niente. Lui mi dava
ordini.
Non ho mai saputo cosa davvero pensasse di me; spero soltanto d’esser
stato un buon cane. Per quanto mi riguarda, non avrei voluto altro
padrone. Qualunque cosa pensasse, so di certo di essergli piaciuto. Molto in
fondo forse, probabilmente non l’ha mai confessato neanche a se stesso, ma io ne
sono sicuro. Io ero il cane randagio più violento e indisciplinato. Per questo
gli piacevo. Si è divertito a domarmi da subito, e ovviamente non ha trovato
resistenza alcuna; ha iniziato col sottomettere la mia mente, ma non gli
bastava. Per questo decise di iniziare quello che per me è stato l’inizio della
fine di me stesso. Mi sono consumato in un gioco di speranze vane; dalla prima
volta che mi si avvicinò troppo, e con le sue dita da artista mi sfiorò una
ciocca di capelli sfuggita dal laccio, dicendo che aveva un colore assurdo; le
sue mani che sfioravano il mio viso, sempre fredde, come d’altronde tutto in
lui..
Io che non immaginavo nemmeno il calore di un corpo sul mio, io che
sapevo solo per sentito dire cosa fosse un bacio, non avevo idea di cosa lui
volesse.
Come se fosse la cosa più normale di questo mondo, una notte
semplicemente mi chiese di raggiungerlo; qualcuno mi disse che
quella notte il freddo fu devastante, ma io non sentì altro che il contatto
morbido della più perfetta pelle d’avorio che potesse esistere. Non potrò mai
cancellare la sensazione che quella pelle bruciasse sulla mia, che le viscere mi
andassero a fuoco, e l’esplosione che mi devastò, che devastò entrambi, il
delirio che ci prese e ci scaraventò nel baratro, aggrappati l’uno a l’altro, le
sue unghie piantate nella mia schiena, quasi avesse paura che lo abbandonassi
quando finalmente era lui ad avere bisogno di me, nell’unico istante della sua
vita in cui ero riuscito a farlo sentire debole, vulnerabile.
Ovviamente era
sempre lui a condurre il gioco, lui ad amare me, mai il contrario. Io dovevo
solo mettere a disposizione me stesso. Non posso però certo rinfacciargli
l’egoismo, perché nonostante sia vero che prima di lui non avessi mai assaggiato
una donna, tantomeno un uomo, nessuno riuscirebbe a toccare le corde che fece
vibrare lui dentro di me; l’amore è un’arte, il sesso un talento. Lui aveva quel
talento, e lo aveva affinato fino a livellarlo come la sua pelle, a renderlo
fluido, rosso, a dargli un profumo e un sapore sconvolgenti.
Per quanto
barbaro potesse essere il mio modo di esprimere quello che provavo, quando mi
carezzava e giocava con i miei capelli, ero capace di sussurrare
ininterrottamente il suo nome, senza che lui mi udisse, ma lasciando che lo
sentisse attraverso altri sensi; esattamente come un cane, per lui mi rammollivo
a tal punto da essere irriconoscibile. Le sue mani che scivolavano sulle labbra,
che sfioravano il collo, che percorrevano cicatrici vecchie e nuove. Mi vergogno
di me stesso, sono disgustato dai miei stessi pensieri, dal fatto che ricordando
quel contatto non posso far a meno di sorridere, di quanto quelli siano i
ricordi più belli che ho.
Quei ricordi, quei momenti che non torneranno più,
li conserverò per sempre, saranno soltanto miei. Da bravo cane fedele non
tradirò mai il mio padrone, per quanto le nostre strade possano dividersi, per
quanto possiamo arrivare ad ammazzarci l’uno con l’altro.
Non mi pento
d’essere stato il cane di qualcuno, non mi pento d’essere stato il suo cane.
Anche se non potrò più toccarlo, anche se non lo bacerò mai più, lo amerò per
sempre; ma questo lo sapremo solo io e lui.
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