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Autore: Demetra    25/08/2013    3 recensioni
Maman diceva sempre che aveva la “tête dure” come un muro.
A Victore non importava. Anzi, non capiva cosa diamine ci fosse di male ad “avere la testa dura come un muro”. Maman le diceva che non era “charmant”. Victoire le gridava: “Chi se ne importa!”.
Ecco, forse per questo era rimasta lì. Da sola.
Come una stupida.
E Victoire odiava sentirsi una stupida.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Teddy Lupin, Victorie Weasley | Coppie: Teddy/Victorie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Note dell'autrice (verificate voi se siano utili o meno): Sarò breve, anzi brevissima. Questa sottospecie di one-shot voleva essere una cosidetta slice-of-life - o come preferite chiamarla- tra Teddy Lupin e Victoire Weasley. Non che io sia una fan strasfegatata della coppia...diciamo che sì mi piace e mettiamo pure che è una delle pochissime coppie non bisfrattate dall'universo Potteriano (fanworld allegato). Diciamo che mi sentivo in vena di un qualcosa di sobrio e leggero che non capitolasse nel classico finale da "coppietta felice". Non è un missing moment, non ha nulla a che vedere con Hogwarts o il filo generale della storia...è solo un momento puro e semplice che mi è uscito così. Forse l'unica cosa è rimasta davvero intatta e inalterata...o almeno spero -così ho cercato di fare- è il carattere IC dei personaggi. Vabbeh...giudicate voi!
Ah...quasi dimenticavo! La fic ha partecipato al contest "Partecipa e vinci la Coppa delle Case" - che ormai trovate tra i contest scaduti - !!!







Ti va di giocare?
 

Victoire Weasley se ne stava seduta, con le manine aggrappate ai bordi della finestra e il visino premuto contro il vetro.  La marea di goccioline che rimbalzavano e schizzavano contro la finestra scorrevano obliquamente fino agli infissi e si riflettevano in inquietanti ombre scure sul suo volto, donandole un’aria quasi spettrale.
Aveva la fronte aggrottata e gli occhietti fissi su una piccola porzione di terra sotto uno dei grandi faggi che costeggiavano la Tana. Il terreno era bagnato, completamente fradicio e ricoperto dalla poltiglia di foglie che erano state trasportate lì dal vento. Ma, per quanto la pioggia continuasse a scrosciare su quel piccolo tratto, il terriccio smosso era ancora palesemente visibile sotto gli occhi attenti e malinconici di Victoire.
Non era un bello spettacolo in effetti, non con dietro tutti quei lampi che a tratti illuminavano il cielo, rendendo la giornata ancora più cupa e inconsistente. A Victoire non piaceva molto la parola “inconsistente”: era lunga e difficile da pronunciare. E poi era una parola che non sapeva di nulla, non racchiudeva qualcosa di allegro o palpabile: le faceva venire in mente un impenetrabile strato di nebbia da cui era difficile liberarsi e il suono le sembrava vagamente triste.
 
Fissava le goccioline, Victoire. Le guardava scorrere sul vetro liscio della finestra e scontrarsi con la più vicina per formare insieme una lunga scia più grossa e im… impetuosa! Sì, si diceva così. Lo aveva sentito pronunciare qualche volta da Maman, quando lei e papà si abbracciavano stretti-stretti, dietro la porta, dopo averle infilato il pigiama e rimboccato le coperte. Lei li osservava di soppiatto, nascosta tra le lenzuola, mentre si scambiavano lunghi baci. Allora Maman appoggiava la testa sulla sua spalla e gli sussurrava all’orecchio: “Bill, vous êtessi impétueux!”
E poi, poi la sentiva ridere, mentre il suo papà continuava a baciarla. Poi si allontanavano, stretti, con le mani intrecciate tra loro. Victoire li vedeva sparire dietro l’uscio della loro camera e poi… poi più nulla.
Quella sì che doveva essere una bella parola - qualunque cosa significasse -.
Eppure mentre fissava quel mucchietto di terra smosso, Victoire non poteva fare a meno di pensare a parole tristi, mentre il suo bel visino si accigliava, cercando di trattenere quella maledetta lacrima che voleva a tutti i costi scendere e bagnarle la guancia. La tratteneva ben ferma tra le ciglia, mentre ascoltava involontariamente i discorsi difficili che facevano i grandi di là, nella cucina.
Sentiva Maman ridere. Sentiva le loro voci felici riecheggiare in tutta la stanza, fino ad arrivare nel salottino buio, dove lei era rimasta da quando erano rientrati - quando la pioggia aveva cominciato a cadere -.
Sentiva le vocine allegre e i passi svelti dei suoi cugini correre al piano di sopra.
Probabilmente stavano giocando a nascondino o ad acchiapparella.
 
Poi sentì qualcuno fermarsi di colpo e urlare agli altri: “Io scendo, ho sete”.
 
 C’era stato un secondo di silenzio e poi il rumore dei passi era ricominciato.
 
Sbuffò. Perché si divertivano tutti tranne lei? Perché nessuno correva da lei per confortarla, per farla ridere, per dirle che era una sciocca a starsene lì seduta tutto il giorno? Perché il suo papà non era lì con lei a giocare alla “principessa e il suo cavallino”, facendola montare sulle sue spalle e correre per tutte le stanze e i corridoi della Tana? Eh, perché?!
Victoire sbattè sdegnosamente un piedino a terra, con aria stizzita. Poi udì la vocina dentro di lei sussurrarle: probabilmente perché non ti saresti mai arresa e avresti continuato a startene lì rannicchiata comunque.
Maman diceva sempre che aveva la “tête dure” come un muro.
A Victore non importava. Anzi, non capiva cosa diamine ci fosse di male ad “avere la testa dura come un muro”. Maman le diceva che non era “charmant”. Victoire le gridava: “Chi se ne importa!”.
Ecco, forse per questo era rimasta lì. Da sola.
Come una stupida.
E Victoire odiava sentirsi una stupida.
Strinse le labbra in una smorfia, corrucciata.
Bene, se nessuno voleva stare con lei, tanto meglio. Se la cavava benissimo da sola!
Tanto non avrebbero capito.
Con aria stizzita tornò a rimirare il proprio riflesso nel vetro, contando le nuove goccioline che si erano unite a formare miriade di stille infinite.
Osservò come i colori del suo volto apparissero più magri e sbiaditi, facendola assomigliare a un fantasma.
 
Sospirò.
E il suo sguardo tornò di nuovo al mucchietto smosso di terra.
 
“Che cosa stai facendo?”
 
Sussultò improvvisamente e per poco non cadde dallo sgabello sul quale era seduta.
Teddy Lupin la fissava accigliato; una spalla appoggiata allo stipite dell’ingresso che separava la stanza dalla cucina.
 
Victoire lo osservò compunta per qualche istante. Aveva i capelli color verde “pallini acidi” quel giorno. Quindi sicuramente doveva essere allegro. Quando Teddy aveva i capelli di un colore chiaro era sempre allegro.
 
Fece una smorfia e si voltò nuovamente a guardare fuori dalla finesta.
 
Un po’ infastidito da quella mancanza di considerazione, Teddy si avvicinò lentamente verso di lei e il suo sgabello.
 
“Ti ho chiesto che fai” rimarcò deciso a ottenere una risposta.
 
“Guardo l’albero” rispose Victoire, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
 
Che domanda stupida da fare!
 
Teddy inarcò un sopracciglio, vagamente confuso.
 
“Perché?”
 
“Perché sì” sbuffò contrariata da quell’inopportuna invadenza.
 
“Ti va di giocare?”
 
“No” sbottò seccata, senza degnarlo di uno sguardo, ben intenzionata a continuare la sua lunga veglia solitaria.
 
“Perché?”
 
Avrebbe voluto prenderlo a pugni.
 
“Perché sono triste, va bene?”
 
Sperò che se ne andasse. Che avesse capito l’antifona e che lì non era aria.
 
Teddy però non si mosse. Rimase in piedi, alle sue spalle, fissandola compunto.
 
“Ho perso Flick”
 
 Sbottò a un certo punto, quasi non senza rendersene conto. Le sue labbra si erano mosse da sole, come se avessero sentito il bisogno di sfogarsi.
Per un attimo Teddy si chiese di cosa diamine stesse parlando, ma prima che potesse aprir bocca, si ricordò. Un pesciolino dalle sfumature rossastre nel sacchettino di plastica azzurra che Victoire aveva vinto, un giorno, a Diagon Alley.
 
“Oh” gli uscì dalle labbra, mentre si avvicinava lentamente, appoggiando a suo volta il viso contro il vetro. “Mi dispiace”
 
“Grazie” tirò su con il naso, Victoire. Sentiva che non sarebbe più riuscita a trattenere quella lacrima. Il naso le prudeva e sentiva uno strano nodo alla gola.
 
Teddy rimase per qualche minuto in silenzio, forse per rispetto o forse perché aveva chiuso gli occhi per la concentrazione, come se cercasse di non far sfuggire quelle parole che aveva ben impresse nella mente.
 
“Sai, non l’hai davvero perso” sbottò a un certo punto, lasciandola di stucco.
 
Victoire si girò verso di lui, fissandolo attentamente. Teddy però non la guardava, avevo lo sguardo perso fuori dalla finestra. Come lei qualche istante prima.
 
“Le cose che amiamo, non le perdiamo mai veramente” recitò come fosse quasi una poesia imparata a memoria. “Restano sempre con noi e ci vegliano, anche se noi non le vediamo, da lassù”
 
Victoire seguì il dito di Teddy che puntava al cielo. Oltre le nubi scure.
 
“Che scemenza” sbottò.
 
“No, è vero” protestò il bambino dai capelli verdi-acidi, con aria compunta.
 
“Come fai a saperlo?” domandò seccata e un po’ incurosita.
 
“Perché anche i miei genitori sono lassù”
 
Ecco.
Adesso sì che si sentiva una stupida.
 
Abassò lo sguardo, cercando di trovare le parole adatte a quella lacerante mortificazione che sentiva nel petto.
 
Eppure non riusciva a trovarle. Era ancora piccola, ma Victoire non era sicura che esistessero davvero delle parole adatte.
 
“Credi davvero che Flick sia lassù con loro?” domandò a un certo punto, scrutando il cielo come se cercasse di individuarne qualche visibile segno.
 
“Sì” disse semplicemente Teddy, come se quella fosse stata la cosa più ovvia e sicura del mondo.
 
A Victoire sembrò quasi “impetuoso”.
 
“Ai tuoi genitori piacciono i pesci?” domandò, incerta, abbassando lo sguardo timidamente.
 
“Credo di sì”
 
“Allora spero che Flick gli faccia compagnia”
 
Si sorrisero. Teddy sentiva le guance scottare e Victoire il nodo alla gola sciogliersi.
 
“Teddy?” domandò a un certo punto Victoire.
 
“Sì?”
 
“Ti va di giocare?”
  
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