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Autore: Layla    25/08/2013    3 recensioni
“È Jack, che adesso si sta facendo una doccia. Appena ti ha visto è come impazzito, continuava a urlare “È lei, l’ho ritrovata!”.”
Io lo guardo con la bocca spalancata, sono così scioccata che ho paura che la mascella mi si stacchi da un momento all’altro e se ne vada a fanculo.
Qualche minuto dopo, il signorino che ha tanto richiesto la mia presenza fa la sua comparsa con solo un asciugamano addosso alla vita e mi punta un dito addosso.
“Tu! “Lost in stereo” è stata scritta per te!”
Io mi indico sconvolta.
Lost in stereo per me.

Tratto dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Gaskarth, Altri, Jack Barakat, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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1) The rockshow.

21 gennaio 2010

 

In cinque anni possono cambiare parecchie cose nella vita di una persona, nella mia è cambiato tutto.
Per prima cosa non vivo più a Baltimora, ma a Los Angeles, in una casetta bianca nei sobborghi che ho perso in affitto con i sudati soldi del mio lavoro.
Holly, come avevo promesso, vive con me e al momento frequenta un tizio che si chiama Jeremy, un tecnico del suono che lavora alla Interscope e che spesso segue anche le band durante i tour.
Vanno molto d’accordo, non mi stupirei se si sposassero.
Jeremy mi piace come persona, dice che le band che noi idolatriamo e di cui abbiamo un sacco di poster appesi in camera in realtà sono composte da persone normali e non da dei e come tali vanno trattate.
Mi piace questa filosofia: è pratica e sensibile allo stesso  tempo e Holly ha bisogno di una cosa così.
Io, invece, ho solo accumulato storie di poco conto, non sono ancora pronta per una relazione seria sia per via della mia famiglia, sia per via di James.
James era il figlio dei nostri vicini di roulotte, un ragazzo magrolino, con i capelli neri e irti che indossava sempre un chiodo di pelle. Diceva che voleva somigliare a Sid Vicious e che io era la sua Nancy, ogni volta che lo diceva il mio cuore faceva le capriole dalla gioia.
Finalmente avevo trovato qualcuno che mi amava e che non fuggiva davanti alla mia situazione famigliare, peccato che l’unica cosa in cui James abbia finito per assomigliare al bassista dei Pistols sia stata l’eroina.
Iniziò a farsi quasi per gioco, ma quando arrivarono i primi sintomi della rota – gli spasimi, il dolore, il bisogno impellente di una nuova dose, gli occhi a spillo e lo sguardo spiritato – il gioco smise di
essere tale e diventò tragedia.
James cominciò a rubare la roba di sua madre, poi quella delle altre roulotte e a ogni dose giurava che quella sarebbe stata l’ultima.
È morto nel cesso di un bar di infima categoria, una morte degna de “I ragazzi dello zoo di Berlino”, una morte che sua madre non mi ha mai perdonato e di cui mi considera colpevole.
Il mio unico torto era di essere la ragazza di suo figlio, di non essermi mai drogata con quella roba e di essere rimasta viva.
Quella donna mi odiava perché ero viva e non tre metri sotto terra come suo figlio, lei e mia madre erano accumunate dallo stesso odio verso di me.
In quanto a me eravamo rimasti all’estate del 2005 che dovevo trascorrere con mio padre: fu un totale disastro.
Iniziammo a litigare la prima sera in cui misi piedi nel suo bell’appartamento che dava sul Central Park e lo facemmo di continuo per un mese, ossia tutto il tempo che trascorsi da lui. Non sopportavo lui, non sopportavo la sua nuova moglie e le loro due viziatissime figlie, non sopportavo di rivedere quasi ogni giorno mio fratello maggiore.
Ogni giorno avevo la tentazione di rompergli qualcosa in testa, ma non potevo perché sarebbe stato disdicevole e politicamente scorretto visto che lui era omosessuale e con questa scusa se ne usciva con le peggiori battute nei confronti della sottoscritta.
Io ero quella brutta, stupida, una zecca della società e lui invece era perfetto. La nuova moglie di mio padre lo portava in palmo di mano come un esempio da seguire, dal niente era riuscito ad entrare in un prestigioso studio di architettura.
Peccato che il suo capo fosse cugino della vacca e amante di mio fratello e poco contava anche che mio fratello sul piano umano fosse una merda.
Lì contavano solo i soldi e mio fratello ne aveva e ne ha fin troppi ed era anche dotato di una discreta mancanza di memoria.
All’inizio del secondo mese di convivenza – un luglio torrido –  ci fu l’ennesimo litigio con mio padre dopo che lui aveva obbligato a licenziarmi il tatuatore che mi aveva appena assunta.
Un litigio con i contro coglioni in cui sono volati piatti e sedie e in cui mi ha riempita di botte, come se fossi un sacco da boxe. È sempre stato il suo modo di risolvere le questioni con me, ma io ero stanca e il giorno dopo ho fatto una cosa a dir poco scorretta, ma di cui non mi pento nemmeno ora: ho aperto la cassaforte dell’appartamento e ho arraffato soldi e gioielli.
A Baltimora avevo trascorso la mia adolescenza tra avanzi di galera e di riformatorio, quindi avevo imparato anche cose che le normali adolescenti non sanno, tra cui, appunto, aprire una cassaforte senza sapere la combinazione
Con il mio bottino nella borsa e il cuore stretto in una morsa sono scappata alla stazione degli autobus e  ho preso il primo per Baltimora. Prima ancora di andare da Holly mi sono fermata da un ricettatore che conoscevo e mi sono fatta dare i soldi che valeva la roba che avevo rubato.
Era una bella sommetta, ha consentito a me e a Holly di pagarci il viaggio, il primo affitto e il mio corso per tatautrice.
Il resto me lo sono sudato, già mentre facevo il mio corso ho portato i miei disegni a un tattoo store e mi hanno assunta come apprendista, Holly invece trovò lavoro come commessa in un negozio di roba goth e punk.
Eravamo sistemate, la vita aveva iniziato a girare nel modo giusto per noi.
In questi cinque anni, io ho aperto il mio negozio e Holly mi fa da segretaria ed è con i soldi del negozio che abbiamo comprato la casa.
Non ho mai detto alla mia amica da dove venissero i nostri primi soldi, ma credo che lei l’abbia capito lo stesso. Lei ha sempre avuto fiuto per queste cose e soprattutto sa perfettamente quando le dico una bugia, quella volta le dissi che i soldi erano un regalo di mio padre.
Lei sapeva che il vecchio non avrebbe mai sganciato, non a me almeno, le sono grata per non aver indagato
In ogni caso ora fila tutto o quasi liscio.
Il mio fratellino si è arruolato e prima di lasciare la roulotte dove vivevamo ha affidato mia madre ai servizi sociali, tanto mi basta per stare in pace.
Non ho molta voglia di rivederla, dentro mi è cresciuta una freddezza che è difficile da estirpare.
Ho sempre l’impressione di vivere e vedere il mondo dietro una finestra incrostata di ghiaccio, che non riesco a rompere e che mi raffredda l’anima.
Adesso non ha neppure molta importanza perché siamo fuori al freddo in fila per un concerto: quello degli All Time Low.
Holly ne va matta e mi ha contagiato, il giorno che ho ammesso che mi piacevano  lei ha ammesso candidamente di adorare i blink da una vita.
Perfetto.
Io mi sono sentita “Nothing personal” e a “Lost in stereo” ho sentito un brivido serpeggiarmi lungo la schiena, senza che ne capissi il motivo.
Holly dice che sono di Baltimora anche loro, forse li ho incontrati prima che diventassero famosi e non lo so, forse in quel momento c’era una finestra aperta da qualche parte della casa.
“Ti rendi conto che tra poco apriranno i cancelli e li vedremo?”
Mi fa eccitata la mia amica, con quei lunghi capelli neri strati di bianco e gli occhi chiarissimi somiglia vagamente a Amy Lee degli Evanescence.
“Sì e tu stai pronta alla battaglia o la prima fila non sarà nostra!”
Lei annuisce e guarda decisa davanti a sé, si farebbe uccidere pur di cedere la transenna che nella sua testa è già sua. Ha una determinazione tutta irlandese che però al momento mi ricorda curiosamente quella di Hitler nel perseguire gli ebrei dovunque essi fossero.
Alle sei aprono i cancelli e la folla scatta come un gigantesco leopardo, io e Holly ci prendiamo per mano e a forza di calci e pugni ci facciamo largo tra tutti questi corpi estranei.
Ricevo un calcio sugli stinchi che di sicuro mi ha incrinato una tibia e una gomitata che domani mi lascerà un livido blu e sembrerà che qualcuno mi abbia picchiata.
Alla fine di tutta questa lotta mi attacco a un pezzo di metallo – l’agognata transenna – e quasi non ci svengo sopra.
Solo l’acqua che Holly mi versa sulla testa e il fatto che mi faccia ingoiare a forza una zolletta di zucchero mi fanno riprendere.
“Le trincee della prima guerra mondiale devono essere state qualcosa di simile.”
Boccheggio io, non appena mi riprendo un po’ e realizzo che sono davvero sotto al palco: dietro di me c’è tanta gente che spinge e prima del concerto degli All Time Low stanno mettendo della musica metal.
Cosa diavolo c’entri il metal con il pop-punk non lo capisco, ma l’importante è essere qui.
L’adrenalina inizia a circolare anche in me e comincio a saltellare sul posto in preda all’impazienza e alla frenesia della battaglia vinta, poco importi che abbia perso metà di una gamba dei miei pantaloni militari a tre quarti e un cappellino della NY che amo.
Chissene.
Io e la mia amica mangiamo e dopo mezz’ora le luci si spengono e iniziamo a urlare tutti.
Da quel momento in poi i miei ricordi si fanno confusi, salto, urlo, canto come tutti.
Quando iniziano le prime note di “Lost in stereo” ho l’impressione che Jack Barakat guardi me, ma non ho il tempo di approfondirla, da dietro mi alzano e sono costretta a un surf crowding in orizzontale che si conclude quando arrivo davanti al chitarrista, a Jack.
Di nuovo ho l’impressione che guardi solo me durante la canzone, di nuovo mi dico che è solo una suggestione derivata dall’essere in mezzo a una folla che li ama.
Io per lui non sono niente, sono solo una fan, non sono certo una che conosce e il fatto che entrambi proveniamo da Baltimora non è importante.
È solo una coincidenza.
Trascorro il resto del concerto lì, parlando ogni tanto con il body guard. È gentile e quando i coriandoli argentati che cadono copiosi indicano la fine del concerto, lui mi porta da Holly.
Io e lei ci abbracciamo e poi corriamo ad appostarci all’ uscita posteriore: speriamo entrambe di riuscire ad avere un autografo.
Non riusciamo ad arrivare in prima fila, solo in un’onorevole terza fila.
Siamo stanche e tutti i dolori iniziano a farsi sentire.
Finalmente i quattro escono e stranamente il body guard che li scorta si ferma davanti a me e costringe la folla ad aprirsi.
“Tu!”
Mi indica.
“Tu vieni con me!”
“Io non vado da nessuna parte senza di lei!”
Lui bestemmia a bassa voce e ci fa cenno di seguirlo.
Cosa diavolo sta succedendo?
Perché sto seguendo un omone grande e grosso verso il pullman di una band che mi piace?
E perché vogliono me e proprio me e non nessun altro?
La situazione ha dell’irreale, sembra una di quelle fiction che ogni tanto legge Holly in cui l’idolo del momento cade fulminato ai piedi di una fan.
Robe che nella realtà non accadono, forse sono ancora collassata sulla transenna e sto sognando tutto.
La portiera del bus si apre e con poca grazia l’uomo ci fa capire che dobbiamo salire,  inizio ad avere il batticuore e mi guardo intorno.
Le mie gambe fremono per poter scappare, ma Holly mi dà una spinta abbastanza forte da farmi capire che è tutto vero e che mi costringe a salire facendomi finire addosso a qualcuno: Alex Gaskarth.
Sono caduta niente di meno che addosso al frontman della band, la gola mi si secca.
“Scusa, non volevo.”
“Tranquilla, forza salite.”
Ci fa accomodare su un divanetto e ci offre della coca cola, intanto gli altri chiedono le nostre impressioni sul concerto.
Parla solo Holly che si profonde in elogi, io sono troppo stranita, troppo presa da una sensazione di irrealtà dilagante per riuscire a spiccicare parola.
“Scusate.”
Dico flebilmente a un certo punto.
“Perché mi volete qui?”
Alex e Zach (il bassista) si scambiano uno sguardo.
“È Jack, che adesso si sta facendo una doccia. Appena ti ha visto è come impazzito, continuava a urlare “È lei, l’ho ritrovata!”.”
Io lo guardo con la bocca spalancata, sono così scioccata che ho paura che la mascella mi si stacchi da un momento all’altro e se ne vada a fanculo.
Qualche minuto dopo, il signorino che ha tanto richiesto la mia presenza fa la sua comparsa con solo un asciugamano addosso alla vita e mi punta un dito addosso.
“Tu! “Lost in stereo” è stata scritta per te!”
Io mi indico sconvolta.
Lost in stereo per me.
Per me
Per.
Me.
All’improvviso tutto intorno a me si fa grigio e poi nero e le voci diventano distorte fino a scomparire in brusii indistinti.
In quel momento perdo il controllo della realtà e ho paura che non lo riacquisterò tanto presto.
Certe notizie possono sfociare in un infarto mortale a volte.
Contrariamente alle mie aspettative riacquisto il controllo della realtà durante la notte.
Per prima cosa non sono morta di infarto e già questa è un’ottima notizia.
Percepisco di essere sdraiata su un letto morbido, avvolta in lenzuola che sanno di pulito, involontariamente sorrido: amo il profumo di pulito.
Questa mi fa capire che non sono in ospedale e non posso fare a meno di ringraziare Dio. Dove sono?
“Ben svegliata!”
Qualcuno lo sussurra accanto a me e io apro gli occhi di scatto: vicino a me, comodamente seduto su una poltroncina, c’è Jack Barakat.
Merda!
Io metto le mani nei capelli.
“Allora è tutto vero, ho incontrato il chitarrista degli All Time Low e gli sono svenuta davanti e adesso lui mi sta guardando mentre dico cazzate con le mani nei capelli.”
Lo sento ridacchiare.
“All’incirca la situazione è questa.”
“Una rockstar ha appena assistito a una delle mie peggiori figure di merda, posso seppellirmi ora.”
Lui ride di gusto.
“Che bimba minchia che sono!”
Faccio per alzarmi, il dolore alla tibia però me lo impedisce, ma sul mio volto non traspare alcuna smorfia di dolore: voglio tenermi aperta una via di fuga.
“Mannò, se fossi una di quelle a quest’ora staresti già tentando di violentarmi!”
“E a te non dispiacerebbe, vero?”
“Se fossi tu a farlo, no.”
Lo guardo con gli occhi sgranati.
“Te lo ricordi cosa ti ho detto prima che tu svenissi?”
Io ci penso un attimo e poi come un fulmine la verità si abbatte su di me: sono la ragazza di “Lost in stereo.”
Faccio per alzarmi e scappare – seguendo il mio istinto – ma un giramento di testa me lo impedisce e lui mi fa sdraiare di nuovo.
“Dov’è Holly?”
Chiedo isterica.
“Dabbasso che gioca a poker con la band, li sta stracciando.
Io adesso ti porto un panino e poi parliamo, ok?”
“Dove siamo?”
La mia voce cresce di un’altra ottava.
“A casa mia. È tutto ok?”
“Sì, sì. Va tutto bene.”
Non appena lui esce io mi alzo e ispeziono la camera, la finestra è troppo in alto e troppo lontana da un albero. Se saltassi giù mi schianterei e basta, senza riuscire a scappare e condannandomi all’ospedale se non alla sedia a rotelle.
Rimango un po’ troppo in contemplazione perché faccio giusto in tempo a saltare a letto di nuovo che lui torna con un vassoio di sandwich al tonno e maionese.
“Grazie.”
Ne prendo uno, sembrano davvero buoni ed effettivamente lo sono. Li avrà fatti lui per me?
“Buoni!”
“Grazie, posso sapere il tuo nome?”
“Wendy, Wendy O’Connor.”
Lui sorride.
“È un bel nome, Wendy.”
“Grazie, ma i sandwich li hai fatti tu per me?”
Lui annuisce rapidamente e poi riprende a parlare.
“Io mi ricordo di te, sai?”
Io impallidisco, vero, sono quella ragazza.
“Davvero?”
“Sì. Eri sempre intenta a creare playlist per il Magazzino o a ballare e io avrei tanto voluto ballare con te.
Mi ricordo anche di Holly, sai?
L’ultima volta che ti ho vista è stato durante una serata blink.”
Io lo guardo come fulminata: il ricordo di un ragazzo moro che beve birra mi attraversa la testa.
Holly aveva ragione! Era interessato a me!
“Poi sei sparita e a me è rimasto il rimpianto di non essermi fatto avanti quella sera, avrei dovuto provarci durante…”
“I miss you.”
Concludiamo insieme.
“Adesso anche io mi ricordo di te, di quella sera. Holly diceva che avevo fatto colpo su di te e io non le avevo creduto.
Poi sono stata un po’a New York da mio padre e poi mi sono trasferita qui.
Poi non pensavo di piacerti, stavi tracannando birra come un matto e poi stavi parlando con Stella Dawkins, credevo fosse la tua ragazza.”
Lui scuote la testa.
“È stata la ragazza di Alex, non la mia.”
“Com’è New York?”
Io stringo le mani a pugno pensando a tutti i litigi con mio padre, alla mia matrigna e alle mie sorellastre, per non parlare di mio fratello naturale.
Istintivamente mi tocco un occhio, quello sano, l’ultima volta che ci siamo visti a New York mio fratello mi ha dato un altro pugno, senza che mio padre e la sua troia alzassero un dito.
Che famiglia amorevole!
Non è certo una cosa che posso raccontare a un tizio che vedo la prima volta soprattutto se è uno famoso, non voglio suscitare pietà in lui.
“È una città.”
“Più bella rispetto a Baltimora.”
Io scuoto le spalle.
“Preferisco Los Angeles.”
Rimaniamo un attimo in silenzio.
“Non riesco ancora a credere che quella canzone sia dedicata a me…”
Perché?
Sei una bella ragazza.”
Io mi stringo le gambe tra le braccia.
{“Sei brutta, Wendy, brutta come il peccato.
Brutta come tuo padre, avrei preferito che tu nascessi morta.”
Le frasi di mia madre sono come tante coltellate nel mio ego. Sento un dolore che non credevo possibile sentire.}
Mangio tutti i sandwich e poi faccio per alzarmi.
“Non vuoi raccontarmi nulla di te?”
“La mia vita non è interessante, sono solo un’anonima tatuatrice.”
Questa conversazione inizia a diventare pesante da sostenere, a ogni sguardo che gli rivolgo ricordo di Baltimora.
Ricordo di quella ragazzina prima troppo grassa, poi troppo magra.
Ricordo mia madre ubriaca che scopava.
Ricordo la tintura di capelli azzurra in eccesso scendere nel lavandino, creando un cielo artificiale.
Ricordo le botte e gli insulti.
Ricordo le sere passate a pogare per potermi sfogare.
Ricordo le sere passate con gente che mi insegnava a rubare.
Ricordo le canne e la gente accanto a me che si faceva di ero tranquillamente.
Ricordo quello che ho cercato di dimenticare in questi cinque anni e li rivedo negli occhi innocenti di questo ragazzo che non sa nulla di tutto questo.
“Dove vivevi?”
“Scusa?”
“A Baltimora, dove vivevi?”
“In una roulotte, in una zona fuori città, prima in una di quelle villette belle e con il prato davanti regolarmente falciato.”
Lui si siede accanto a me sul letto dopo essersi tolto le scarpe.
“Come ci sei finita lì?”
“Mio padre se n’è andato con la sua amante e non ci ha mai pagato gli alimenti, mamma ha perso il lavoro e campavamo con il sussidio sociale.
Ecco come ci sono finita, per colpa di un bastardo che prima ha scodellato tre figli con una poveraccia e poi ha trovato la sua gallina dalle uova d’oro e il resto ha smesso di contare per lui.”
La mia voce è tagliente come l’odio che provo per quell’uomo che ci ha rovinato la vita senza neanche chiedersi se fosse giusto o sbagliato: l’ha semplicemente fatto.
Ci ha gettati via, come si getta l’immondizia quando la pattumiera è piena.
Sento Jack parlare accanto a me, ma non lo ascolto, migliaia di ricordi dimenticati tornano a farsi vivi e in questo momento mi sento la Wendy debole e fragile di Baltimora e non quella fredda e forte di Los Angeles.
“Mi stai ascoltando?
No, non mi stai ascoltando, mi spieghi che cos’hai?”
Io sospiro e guardo il soffitto.
“È troppo lungo, complicato e pesante da spiegare e io non ho intenzione di buttarti addosso la montagna che mi porto dietro.”
“E se io volessi? E se mi interessasse?
Ti ho chiamata perché volevo conoscerti.”
Io trattengo le lacrime.
“Non c’è niente di bello da conoscere in me, vattene, finché sei in tempo.”
Lui mi guarda e fa l’ultimo gesto sulla faccia della terra che io mi aspetto che faccia: mi abbraccia.
Nessuno mi aveva mai abbracciato, forse il mio fratellino qualche volta dopo qualche lite particolarmente violenta tra i nostri o dopo qualche sfuriata senza motivo di mia madre.
Faccio fatica a farmi abbracciare persino da Holly che conosco da una vita. Ogni volta che qualcuno tenta di farlo mi vengono in mente le botte.
Rimango rigida per un attimo, poi inaspettatamente mi lascio andare, mi sembra che le sue braccia siano fatte apposta per abbracciarmi.
A questo pensiero mi stacco: lui non deve entrare nella mia vita.
Io sono un’anonima ragazza e lui una rockstar, coppie del genere si formano solo nelle fan fiction.
Mi guarda per un attimo, poi il suo sguardo cade sul polsino che porto sul polso sinistro: quello pieno di tagli recenti e non.
“Bello quel polsino.”
“Grazie.”
“Me lo fai vedere?”
“NO!”
Lui non demorde e inizia una lotta per togliermelo, da parte sua avverto chiaramente che è uno scherzo, per me non lo è. Non mostro quel polso a nessuno, solo a Holly.
Io cerco di sottrarmi più che posso, ma lui alla fine vince e me lo sfila.
Sorride fino a che lo sguardo gli cade sul polso in questione, quando lo vede cambia espressione  e da felice passa a preoccupato.
Io invece mi alzo di scatto dal letto, lasciandolo lì con il mio braccialetto in mano, e scendo al piano inferiore. Holly sta effettivamente giocando a poker con i ragazzi, ma io non la chiamo, questa villa sta diventando troppo stretta, me ne devo andare.
Mi infilo gli anfibi, prendo la giacca e la borsa e attraverso di corsa il giardino, in qualche modo apro il cancello e poi corro ancora.
Mi fermo solo quando arrivo in una strada grande e frequentata e con la mano cerco di bloccare un taxi: ce la faccio.
Non appena entro nella vettura scoppio a piangere: non avrebbe dovuto togliermi quel polsino!
Non ne aveva alcun diritto, lui non è nessuno!
Sento il cellulare vibrare, lo tolgo dalla borsa e mi accorgo che è Holly che mi sta chiamando. Spengo il cellulare con stizza o lo ributto nella borsa.
A fine corsa pago il tassista e percorro il vialetto di casa mia con la vista ancora appannata dalle lacrime. Apro le porta, mi tolgo gli anfibi butto giacca, borsa e vestiti per terra e in intimo salgo in camera mia.
Apro l’armadio per tirare fuori una maglia che mi faccia da pigiama, ma quando lo specchio che c’è su un anta  mi rimanda il mio riflesso lo prendo a pugni.
Sospirando vado in bagno, mi tolgo le schegge più grandi e quelle che riesco a vedere di quelle piccole e poi mi medico e bendo la mano alla bell’ e meglio.
Distrutta emotivamente, stanca fisicamente e piena di lividi mi butto a letto.
Baltimora è venuta a farmi visita e non mi ha fatto piacere.
Mi rigiro per almeno un‘ora prima che il sonno decida di calare su di me.
Quanto mai ho accompagnato Holly a quel concerto!
Avrei fatto meglio a rimanere a casa!

Angolo di Layla

Ringrazio Shyline Sixx e LostinStereo3 per le recenioni :). 

 

 

 

 

   
 
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