1) The rockshow.
21
gennaio 2010
In
cinque anni possono
cambiare parecchie cose nella vita di una persona, nella mia
è cambiato tutto.
Per prima cosa non vivo
più a Baltimora, ma a Los Angeles, in una casetta bianca nei
sobborghi che ho
perso in affitto con i sudati soldi del mio lavoro.
Holly, come avevo
promesso, vive con me e al momento frequenta un tizio che si chiama
Jeremy, un
tecnico del suono che lavora alla Interscope e che spesso segue anche
le band
durante i tour.
Vanno molto d’accordo, non
mi stupirei se si sposassero.
Jeremy mi piace come
persona, dice che le band che noi idolatriamo e di cui abbiamo un sacco
di
poster appesi in camera in realtà sono composte da persone
normali e non da dei
e come tali vanno trattate.
Mi piace questa filosofia:
è pratica e sensibile allo stesso
tempo
e Holly ha bisogno di una cosa così.
Io, invece, ho solo
accumulato storie di poco conto, non sono ancora pronta per una
relazione seria
sia per via della mia famiglia, sia per via di James.
James era il figlio dei
nostri vicini di roulotte, un ragazzo magrolino, con i capelli neri e
irti che
indossava sempre un chiodo di pelle. Diceva che voleva somigliare a Sid
Vicious
e che io era la sua Nancy, ogni volta che lo diceva il mio cuore faceva
le
capriole dalla gioia.
Finalmente avevo trovato
qualcuno che mi amava e che non fuggiva davanti alla mia situazione
famigliare,
peccato che l’unica cosa in cui James abbia finito per
assomigliare al bassista
dei Pistols sia stata l’eroina.
Iniziò a farsi quasi per
gioco, ma quando arrivarono i primi sintomi della rota – gli
spasimi, il
dolore, il bisogno impellente di una nuova dose, gli occhi a spillo e
lo
sguardo spiritato – il gioco smise di
essere tale e diventò tragedia.
James cominciò a rubare la
roba di sua madre, poi quella delle altre roulotte e a ogni dose
giurava che
quella sarebbe stata l’ultima.
È morto nel cesso di un
bar di infima categoria, una morte degna de “I ragazzi dello
zoo di Berlino”,
una morte che sua madre non mi ha mai perdonato e di cui mi considera
colpevole.
Il mio unico torto era di
essere la ragazza di suo figlio, di non essermi mai drogata con quella
roba e
di essere rimasta viva.
Quella donna mi odiava
perché ero viva e non tre metri sotto terra come suo figlio,
lei e mia madre
erano accumunate dallo stesso odio verso di me.
In quanto a me eravamo
rimasti all’estate del 2005 che dovevo trascorrere con mio
padre: fu un totale
disastro.
Iniziammo a litigare la
prima sera in cui misi piedi nel suo bell’appartamento che
dava sul Central Park
e lo facemmo di continuo per un mese, ossia tutto il tempo che
trascorsi da lui.
Non sopportavo lui, non sopportavo la sua nuova moglie e le loro due
viziatissime figlie, non sopportavo di rivedere quasi ogni giorno mio
fratello
maggiore.
Ogni giorno avevo la
tentazione di rompergli qualcosa in testa, ma non potevo
perché sarebbe stato
disdicevole e politicamente scorretto visto che lui era omosessuale e
con
questa scusa se ne usciva con le peggiori battute nei confronti della
sottoscritta.
Io ero quella brutta,
stupida, una zecca della società e lui invece era perfetto.
La nuova moglie di
mio padre lo portava in palmo di mano come un esempio da seguire, dal
niente
era riuscito ad entrare in un prestigioso studio di architettura.
Peccato che il suo capo
fosse cugino della vacca e amante di mio fratello e poco contava anche
che mio
fratello sul piano umano fosse una merda.
Lì contavano solo i soldi
e mio fratello ne aveva e ne ha fin troppi ed era anche dotato di una
discreta
mancanza di memoria.
All’inizio del secondo
mese di convivenza – un luglio torrido –
ci fu l’ennesimo litigio con mio padre dopo che
lui aveva obbligato a
licenziarmi il tatuatore che mi aveva appena assunta.
Un litigio con i contro
coglioni in cui sono volati piatti e sedie e in cui mi ha riempita di
botte,
come se fossi un sacco da boxe. È sempre stato il suo modo
di risolvere le
questioni con me, ma io ero stanca e il giorno dopo ho fatto una cosa a
dir
poco scorretta, ma di cui non mi pento nemmeno ora: ho aperto la
cassaforte
dell’appartamento e ho arraffato soldi e gioielli.
A Baltimora avevo
trascorso la mia adolescenza tra avanzi di galera e di riformatorio,
quindi
avevo imparato anche cose che le normali adolescenti non sanno, tra
cui,
appunto, aprire una cassaforte senza sapere la combinazione
Con il mio bottino nella
borsa e il cuore stretto in una morsa sono scappata alla stazione degli
autobus
e ho preso il primo
per Baltimora. Prima
ancora di andare da Holly mi sono fermata da un ricettatore che
conoscevo e mi
sono fatta dare i soldi che valeva la roba che avevo rubato.
Era una bella sommetta, ha
consentito a me e a Holly di pagarci il viaggio, il primo affitto e il
mio
corso per tatautrice.
Il resto me lo sono
sudato, già mentre facevo il mio corso ho portato i miei
disegni a un tattoo
store e mi hanno assunta come apprendista, Holly invece
trovò lavoro come
commessa in un negozio di roba goth e punk.
Eravamo sistemate, la vita
aveva iniziato a girare nel modo giusto per noi.
In questi cinque anni, io
ho aperto il mio negozio e Holly mi fa da segretaria ed è
con i soldi del
negozio che abbiamo comprato la casa.
Non ho mai detto alla mia
amica da dove venissero i nostri primi soldi, ma credo che lei
l’abbia capito
lo stesso. Lei ha sempre avuto fiuto per queste cose e soprattutto sa
perfettamente quando le dico una bugia, quella volta le dissi che i
soldi erano
un regalo di mio padre.
Lei sapeva che il vecchio
non avrebbe mai sganciato, non a me almeno, le sono grata per non aver
indagato
In ogni caso ora fila
tutto o quasi liscio.
Il mio fratellino si è
arruolato e prima di lasciare la roulotte dove vivevamo ha affidato mia
madre
ai servizi sociali, tanto mi basta per stare in pace.
Non ho molta voglia di
rivederla, dentro mi è cresciuta una freddezza che
è difficile da estirpare.
Ho sempre l’impressione di
vivere e vedere il mondo dietro una finestra incrostata di ghiaccio,
che non
riesco a rompere e che mi raffredda l’anima.
Adesso non ha neppure
molta importanza perché siamo fuori al freddo in fila per un
concerto: quello
degli All Time Low.
Holly ne va matta e mi ha
contagiato, il giorno che ho ammesso che mi piacevano
lei ha ammesso candidamente di adorare i
blink da una vita.
Perfetto.
Io mi sono sentita “Nothing
personal” e a “Lost in stereo” ho sentito
un brivido serpeggiarmi lungo la
schiena, senza che ne capissi il motivo.
Holly dice che sono di
Baltimora anche loro, forse li ho incontrati prima che diventassero
famosi e
non lo so, forse in quel momento c’era una finestra aperta da
qualche parte
della casa.
“Ti rendi conto che tra
poco apriranno i cancelli e li vedremo?”
Mi fa eccitata la mia
amica, con quei lunghi capelli neri strati di bianco e gli occhi
chiarissimi
somiglia vagamente a Amy Lee degli Evanescence.
“Sì e tu stai pronta alla
battaglia o la prima fila non sarà nostra!”
Lei annuisce e guarda
decisa davanti a sé, si farebbe uccidere pur di cedere la
transenna che nella
sua testa è già sua. Ha una determinazione tutta
irlandese che però al momento
mi ricorda curiosamente quella di Hitler nel perseguire gli ebrei
dovunque essi
fossero.
Alle sei aprono i cancelli
e la folla scatta come un gigantesco leopardo, io e Holly ci prendiamo
per mano
e a forza di calci e pugni ci facciamo largo tra tutti questi corpi
estranei.
Ricevo un calcio sugli
stinchi che di sicuro mi ha incrinato una tibia e una gomitata che
domani mi
lascerà un livido blu e sembrerà che qualcuno mi
abbia picchiata.
Alla fine di tutta questa
lotta mi attacco a un pezzo di metallo – l’agognata
transenna – e quasi non ci
svengo sopra.
Solo l’acqua che Holly mi
versa sulla testa e il fatto che mi faccia ingoiare a forza una
zolletta di
zucchero mi fanno riprendere.
“Le trincee della prima
guerra mondiale devono essere state qualcosa di simile.”
Boccheggio io, non appena
mi riprendo un po’ e realizzo che sono davvero sotto al
palco: dietro di me c’è
tanta gente che spinge e prima del concerto degli All Time Low stanno
mettendo
della musica metal.
Cosa diavolo c’entri il
metal con il pop-punk non lo capisco, ma l’importante
è essere qui.
L’adrenalina inizia a
circolare anche in me e comincio a saltellare sul posto in preda
all’impazienza
e alla frenesia della battaglia vinta, poco importi che abbia perso
metà di una
gamba dei miei pantaloni militari a tre quarti e un cappellino della NY
che
amo.
Chissene.
Io e la mia amica mangiamo
e dopo mezz’ora le luci si spengono e iniziamo a urlare tutti.
Da quel momento in poi i
miei ricordi si fanno confusi, salto, urlo, canto come tutti.
Quando iniziano le prime
note di “Lost in stereo” ho l’impressione
che Jack Barakat guardi me, ma non ho
il tempo di approfondirla, da dietro mi alzano e sono costretta a un
surf
crowding in orizzontale che si conclude quando arrivo davanti al
chitarrista, a
Jack.
Di nuovo ho l’impressione
che guardi solo me durante la canzone, di nuovo mi dico che
è solo una
suggestione derivata dall’essere in mezzo a una folla che li
ama.
Io per lui non sono
niente, sono solo una fan, non sono certo una che conosce e il fatto
che
entrambi proveniamo da Baltimora non è importante.
È solo una coincidenza.
Trascorro il resto del
concerto lì, parlando ogni tanto con il body guard.
È gentile e quando i
coriandoli argentati che cadono copiosi indicano la fine del concerto,
lui mi
porta da Holly.
Io e lei ci abbracciamo e
poi corriamo ad appostarci all’ uscita posteriore: speriamo
entrambe di
riuscire ad avere un autografo.
Non riusciamo ad arrivare
in prima fila, solo in un’onorevole terza fila.
Siamo stanche e tutti i
dolori iniziano a farsi sentire.
Finalmente i quattro
escono e stranamente il body guard che li scorta si ferma davanti a me
e
costringe la folla ad aprirsi.
“Tu!”
Mi indica.
“Tu vieni con me!”
“Io non vado da nessuna
parte senza di lei!”
Lui bestemmia a bassa voce
e ci fa cenno di seguirlo.
Cosa diavolo sta
succedendo?
Perché sto seguendo un
omone grande e grosso verso il pullman di una band che mi piace?
E perché vogliono me e
proprio me e non nessun altro?
La situazione ha
dell’irreale, sembra una di quelle fiction che ogni tanto
legge Holly in cui
l’idolo del momento cade fulminato ai piedi di una fan.
Robe che nella realtà non
accadono, forse sono ancora collassata sulla transenna e sto sognando
tutto.
La portiera del bus si
apre e con poca grazia l’uomo ci fa capire che dobbiamo
salire, inizio ad
avere il batticuore e mi guardo
intorno.
Le mie gambe fremono per
poter scappare, ma Holly mi dà una spinta abbastanza forte
da farmi capire che
è tutto vero e che mi costringe a salire facendomi finire
addosso a qualcuno:
Alex Gaskarth.
Sono caduta niente di meno
che addosso al frontman della band, la gola mi si secca.
“Scusa, non volevo.”
“Tranquilla, forza
salite.”
Ci fa accomodare su un
divanetto e ci offre della coca cola, intanto gli altri chiedono le
nostre
impressioni sul concerto.
Parla solo Holly che si
profonde in elogi, io sono troppo stranita, troppo presa da una
sensazione di
irrealtà dilagante per riuscire a spiccicare parola.
“Scusate.”
Dico flebilmente a un
certo punto.
“Perché mi volete qui?”
Alex e Zach (il bassista)
si scambiano uno sguardo.
“È Jack, che adesso si sta
facendo una doccia. Appena ti ha visto è come impazzito,
continuava a urlare “È
lei, l’ho ritrovata!”.”
Io lo guardo con la bocca
spalancata, sono così scioccata che ho paura che la mascella
mi si stacchi da un
momento all’altro e se ne vada a fanculo.
Qualche minuto dopo, il
signorino che ha tanto richiesto la mia presenza fa la sua comparsa con
solo un
asciugamano addosso alla vita e mi punta un dito addosso.
“Tu! “Lost in stereo” è
stata scritta per te!”
Io mi indico sconvolta.
Lost in stereo per me.
Per me
Per.
Me.
All’improvviso tutto
intorno a me si fa grigio e poi nero e le voci diventano distorte fino
a
scomparire in brusii indistinti.
In quel momento perdo il
controllo della realtà e ho paura che non lo
riacquisterò tanto presto.
Certe notizie possono
sfociare in un infarto mortale a volte.
Contrariamente alle mie
aspettative riacquisto il controllo della realtà durante la
notte.
Per prima cosa non sono
morta di infarto e già questa è
un’ottima notizia.
Percepisco di essere
sdraiata su un letto morbido, avvolta in lenzuola che sanno di pulito,
involontariamente sorrido: amo il profumo di pulito.
Questa mi fa capire che
non sono in ospedale e non posso fare a meno di ringraziare Dio. Dove
sono?
“Ben svegliata!”
Qualcuno lo sussurra
accanto a me e io apro gli occhi di scatto: vicino a me, comodamente
seduto su
una poltroncina, c’è Jack Barakat.
Merda!
Io metto le mani nei
capelli.
“Allora è tutto vero, ho
incontrato il chitarrista degli All Time Low e gli sono svenuta davanti
e
adesso lui mi sta guardando mentre dico cazzate con le mani nei
capelli.”
Lo sento ridacchiare.
“All’incirca la situazione
è questa.”
“Una rockstar ha appena
assistito a una delle mie peggiori figure di merda, posso seppellirmi
ora.”
Lui ride di gusto.
“Che bimba minchia che
sono!”
Faccio per alzarmi, il
dolore alla tibia però me lo impedisce, ma sul mio volto non
traspare alcuna
smorfia di dolore: voglio tenermi aperta una via di fuga.
“Mannò, se fossi una di
quelle a quest’ora staresti già tentando di
violentarmi!”
“E a te non dispiacerebbe,
vero?”
“Se fossi tu a farlo, no.”
Lo guardo con gli occhi
sgranati.
“Te lo ricordi cosa ti ho
detto prima che tu svenissi?”
Io ci penso un attimo e
poi come un fulmine la verità si abbatte su di me: sono la
ragazza di “Lost in
stereo.”
Faccio per alzarmi e
scappare – seguendo il mio istinto – ma un
giramento di testa me lo impedisce e
lui mi fa sdraiare di nuovo.
“Dov’è Holly?”
Chiedo isterica.
“Dabbasso che gioca a
poker con la band, li sta stracciando.
Io adesso ti porto un
panino e poi parliamo, ok?”
“Dove siamo?”
La mia voce cresce di
un’altra ottava.
“A casa mia. È tutto ok?”
“Sì, sì. Va tutto bene.”
Non appena lui esce io mi
alzo e ispeziono la camera, la finestra è troppo in alto e
troppo lontana da un
albero. Se saltassi giù mi schianterei e basta, senza
riuscire a scappare e
condannandomi all’ospedale se non alla sedia a rotelle.
Rimango un po’ troppo in
contemplazione perché faccio giusto in tempo a saltare a
letto di nuovo che lui
torna con un vassoio di sandwich al tonno e maionese.
“Grazie.”
Ne prendo uno, sembrano davvero buoni ed effettivamente lo sono. Li
avrà fatti
lui per me?
“Buoni!”
“Grazie, posso sapere il
tuo nome?”
“Wendy, Wendy O’Connor.”
Lui sorride.
“È un bel nome, Wendy.”
“Grazie, ma i sandwich li
hai fatti tu per me?”
Lui annuisce rapidamente e
poi riprende a parlare.
“Io mi ricordo di te,
sai?”
Io impallidisco, vero, sono
quella ragazza.
“Davvero?”
“Sì. Eri sempre intenta a
creare playlist per il Magazzino o a ballare e io avrei tanto voluto
ballare
con te.
Mi ricordo anche di Holly,
sai?
L’ultima volta che ti ho
vista è stato durante una serata blink.”
Io lo guardo come
fulminata: il ricordo di un ragazzo moro che beve birra mi attraversa
la testa.
Holly aveva ragione! Era
interessato a me!
“Poi sei sparita e a me è
rimasto il rimpianto di non essermi fatto avanti quella sera, avrei
dovuto
provarci durante…”
“I miss you.”
Concludiamo insieme.
“Adesso anche io mi
ricordo di te, di quella sera. Holly diceva che avevo fatto colpo su di
te e io
non le avevo creduto.
Poi sono stata un po’a New
York da mio padre e poi mi sono trasferita qui.
Poi non pensavo di
piacerti, stavi tracannando birra come un matto e poi stavi parlando
con Stella
Dawkins, credevo fosse la tua ragazza.”
Lui scuote la testa.
“È stata la ragazza di
Alex, non la mia.”
“Com’è New York?”
Io stringo le mani a pugno
pensando a tutti i litigi con mio padre, alla mia matrigna e alle mie
sorellastre, per non parlare di mio fratello naturale.
Istintivamente mi tocco un
occhio, quello sano, l’ultima volta che ci siamo visti a New
York mio fratello
mi ha dato un altro pugno, senza che mio padre e la sua troia alzassero
un
dito.
Che famiglia amorevole!
Non è certo una cosa che
posso raccontare a un tizio che vedo la prima volta soprattutto se
è uno
famoso, non voglio suscitare pietà in lui.
“È una città.”
“Più bella rispetto a
Baltimora.”
Io scuoto le spalle.
“Preferisco Los Angeles.”
Rimaniamo un attimo in
silenzio.
“Non riesco ancora a credere
che quella canzone sia dedicata a me…”
Perché?
Sei una bella ragazza.”
Io mi stringo le gambe tra
le braccia.
{“Sei brutta,
Wendy,
brutta come il peccato.
Brutta come tuo padre,
avrei preferito che tu nascessi morta.”
Le frasi di mia madre
sono
come tante coltellate nel mio ego. Sento un dolore che non credevo
possibile
sentire.}
Mangio tutti i sandwich e
poi faccio per alzarmi.
“Non vuoi raccontarmi
nulla di te?”
“La mia vita non è
interessante, sono solo un’anonima tatuatrice.”
Questa conversazione
inizia a diventare pesante da sostenere, a ogni sguardo che gli rivolgo
ricordo
di Baltimora.
Ricordo di quella
ragazzina prima troppo grassa, poi troppo magra.
Ricordo mia madre ubriaca
che scopava.
Ricordo la tintura di
capelli azzurra in eccesso scendere nel lavandino, creando un cielo
artificiale.
Ricordo le botte e gli
insulti.
Ricordo le sere passate a
pogare per potermi sfogare.
Ricordo le sere passate
con gente che mi insegnava a rubare.
Ricordo le canne e la
gente accanto a me che si faceva di ero tranquillamente.
Ricordo quello che ho
cercato di dimenticare in questi cinque anni e li rivedo negli occhi
innocenti
di questo ragazzo che non sa nulla di tutto questo.
“Dove vivevi?”
“Scusa?”
“A Baltimora, dove
vivevi?”
“In una roulotte, in una
zona fuori città, prima in una di quelle villette belle e
con il prato davanti
regolarmente falciato.”
Lui si siede accanto a me
sul letto dopo essersi tolto le scarpe.
“Come ci sei finita lì?”
“Mio padre se n’è andato
con la sua amante e non ci ha mai pagato gli alimenti, mamma ha perso
il lavoro
e campavamo con il sussidio sociale.
Ecco come ci sono finita,
per colpa di un bastardo che prima ha scodellato tre figli con una
poveraccia e
poi ha trovato la sua gallina dalle uova d’oro e il resto ha
smesso di contare
per lui.”
La mia voce è tagliente
come l’odio che provo per quell’uomo che ci ha
rovinato la vita senza neanche
chiedersi se fosse giusto o sbagliato: l’ha semplicemente
fatto.
Ci ha gettati via, come si
getta l’immondizia quando la pattumiera è piena.
Sento Jack parlare accanto
a me, ma non lo ascolto, migliaia di ricordi dimenticati tornano a
farsi vivi e
in questo momento mi sento la Wendy debole e fragile di Baltimora e non
quella
fredda e forte di Los Angeles.
“Mi stai ascoltando?
No, non mi stai ascoltando,
mi spieghi che cos’hai?”
Io sospiro e guardo il
soffitto.
“È troppo lungo,
complicato e pesante da spiegare e io non ho intenzione di buttarti
addosso la
montagna che mi porto dietro.”
“E se io volessi? E se mi
interessasse?
Ti ho chiamata perché
volevo conoscerti.”
Io trattengo le lacrime.
“Non c’è niente di bello
da conoscere in me, vattene, finché sei in tempo.”
Lui mi guarda e fa
l’ultimo gesto sulla faccia della terra che io mi aspetto che
faccia: mi
abbraccia.
Nessuno mi aveva mai abbracciato,
forse il mio fratellino qualche volta dopo qualche lite particolarmente
violenta tra i nostri o dopo qualche sfuriata senza motivo di mia madre.
Faccio fatica a farmi
abbracciare persino da Holly che conosco da una vita. Ogni volta che
qualcuno
tenta di farlo mi vengono in mente le botte.
Rimango rigida per un
attimo, poi inaspettatamente mi lascio andare, mi sembra che le sue
braccia
siano fatte apposta per abbracciarmi.
A questo pensiero mi
stacco: lui non deve entrare nella mia vita.
Io sono un’anonima ragazza
e lui una rockstar, coppie del genere si formano solo nelle fan fiction.
Mi guarda per un attimo,
poi il suo sguardo cade sul polsino che porto sul polso sinistro:
quello pieno
di tagli recenti e non.
“Bello quel polsino.”
“Grazie.”
“Me lo fai vedere?”
“NO!”
Lui non demorde e inizia
una lotta per togliermelo, da parte sua avverto chiaramente che
è uno scherzo,
per me non lo è. Non mostro quel polso a nessuno, solo a
Holly.
Io cerco di sottrarmi più
che posso, ma lui alla fine vince e me lo sfila.
Sorride fino a che lo
sguardo gli cade sul polso in questione, quando lo vede cambia
espressione e da
felice passa a preoccupato.
Io invece mi alzo di
scatto dal letto, lasciandolo lì con il mio braccialetto in
mano, e scendo al
piano inferiore. Holly sta effettivamente giocando a poker con i
ragazzi, ma io
non la chiamo, questa villa sta diventando troppo stretta, me ne devo
andare.
Mi infilo gli anfibi,
prendo la giacca e la borsa e attraverso di corsa il giardino, in
qualche modo
apro il cancello e poi corro ancora.
Mi fermo solo quando
arrivo in una strada grande e frequentata e con la mano cerco di
bloccare un
taxi: ce la faccio.
Non appena entro nella
vettura scoppio a piangere: non avrebbe dovuto togliermi quel polsino!
Non ne aveva alcun diritto,
lui non è nessuno!
Sento il cellulare
vibrare, lo tolgo dalla borsa e mi accorgo che è Holly che
mi sta chiamando.
Spengo il cellulare con stizza o lo ributto nella borsa.
A fine corsa pago il
tassista e percorro il vialetto di casa mia con la vista ancora
appannata dalle
lacrime. Apro le porta, mi tolgo gli anfibi butto giacca, borsa e
vestiti per
terra e in intimo salgo in camera mia.
Apro l’armadio per tirare
fuori una maglia che mi faccia da pigiama, ma quando lo specchio che
c’è su un
anta mi rimanda il
mio riflesso lo
prendo a pugni.
Sospirando vado in bagno,
mi tolgo le schegge più grandi e quelle che riesco a vedere
di quelle piccole e
poi mi medico e bendo la mano alla bell’ e meglio.
Distrutta emotivamente,
stanca fisicamente e piena di lividi mi butto a letto.
Baltimora è venuta a farmi
visita e non mi ha fatto piacere.
Mi rigiro per almeno
un‘ora prima che il sonno decida di calare su di me.
Quanto mai ho accompagnato
Holly a quel concerto!
Avrei fatto meglio a
rimanere a casa!