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Autore: Frikadelle    26/08/2013    0 recensioni
"Quegli inetti bastardi di angeli mi stavano rubando del tempo. E quello lasciatomi si accorciava sempre più. Con un scelta ardua da affrontare sotto ogni aspetto." ... "Eppure da quanto mi aveva detto Caronte non ero l’unica ad aver avuto questa possibilità. Molti erano stati traghettati al limbo per l’insicurezza di un giudizio sbagliato."
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dalla parte del manico


 
 

Rigirandomi nel letto sentivo scivolarmi dolcemente gocce salate che mi percorrevano senza nessun timore, superando tutti gli ostacoli del mio volto, fino ad arrivare alla bocca per poi scomparire come erano arrivate.

Dalle fessure della veneziana penetravano raggi di luce e il mio corpo ne era invaso. Si sviluppavano in strisce che mettevano in risalto solo parte di quello che era sudore.

Il caldo torrido mi opprimeva mi sentivo avvolta da una voragine di fuoco e non sapevo che fare. Probabilmente una doccia fredda mi avrebbe dato sollievo ma sono sicura che dopo poco tempo questa sensazione mi avrebbe rapita e fatta sua nuovamente. Avrei potuto fare una, due, tre docce ma queste avrebbero alleviato il calore che emanavo esteriormente, quello che espelleva il mio corpo.

Ma che avrei fatto per quello interiore? Quello di cui gli agenti atmosferici non avevano colpa. Quello che bruciava ad ogni pensiero negativo. Non potevo farmi catturare così. Pensai che ogni persona ne avesse. Ma soffrivano quanto me? Provavano quello che provavo io? Se avessi continuato a buttare benzina sul fuoco esso avrebbe continuato ad ardere, ma se non l’avessi più fatto un giorno si sarebbe spento e avrebbe lasciato solo cenere. Che scelta avrei appoggiato? I ricordi che bruciano e continuano a bruciare senza sosta, o rimanere senza un passato con la cenere al loro posto? Avevo una chance. Un’opportunità. Non l’avrei gettata come un foglio accartocciato nell’immondizia, accatastata con tutte le altre mie pessime scelte. Dovevo solo capire qual’era la migliore da prendere.
Ad un tratto sentii un sollievo da tutti quei pensieri, mi picchiava incessantemente sulla testa, percorreva il volto per poi scorrere verso il basso e scivolare per tutto il corpo.

Acqua.

Ero sotto la doccia.

Quegli inetti bastardi di angeli mi stavano rubando del tempo. E quello lasciatomi si accorciava sempre più. Con un scelta ardua da affrontare sotto ogni aspetto.

Erano le 18:37

Mi avevano strappato così tanto tempo.

Non era negli accordi.

Ma loro sapevano che mi avevano in pugno.

Sapevano che avendo ridotto il mio tempo mi avrebbero condotto passo a passo, come accompagnando una bambina per mano nell’intento di attraversare la strada, sulla scelta per loro più favorevole.

Mi dovevo sbrigare anche se glielo avessi chiesto non mi avrebbero lasciato un minuto in più e avrei perso altri secondi preziosi.

Almeno adesso so che mi sarei fatta quella maledetta doccia.

* * *


Eppure da quanto mi aveva detto Caronte non ero l’unica ad aver avuto questa possibilità. Molti erano stati traghettati al limbo per l’insicurezza di un giudizio sbagliato.

Certo.

Non tutti avevano avuto questo privilegio, se si può definire tale, ma solo quelli che lo meritavano.

Il limbo non era un posto così angusto come tutti pensavano. Era come vivere una nuova vita, ripartendo dal punto da dove ci si era fermati sulla Terra per poi proseguire come se nulla fosse accaduto.

C’era solo una pecca, che rendeva questo luogo nero e cupo al cuore di chi ci marciava sopra.

In questo luogo si conservavano dentro alla mente, chiari, nitidi, permanenti tutti i sentimenti, tutte le paure, tutte le colpe, tutti i ricordi. Compreso il dolore straziante della morte della vita precedente. Come in una teca di vetro in frangibile, dove le emozioni si mischiano e rimbombano, percuotendo chi ci sta all’interno. Più si ricordava più le viscere dello stomaco ne risentivano e bruciavano.

Difatti la gente preferiva andare all’inferno pur di scappare da tutte le emozioni e gli sbagli commessi. Chi si sognerebbe mai di vivere in un posto del genere?

Per questo stanno togliendo dalla mia clessidra manciate di granelli di sabbia, per pensare meno. Perché pensare troppo non fa bene in questo luogo. Più che sulla Terra. Ma per quanto facesse male avevo bisogno di tempo.

Mi erano stati concessi tre giorni.

Tre giorni per riflettere. Una vera tortura.

Ma da come procedeva il tempo in realtà mi avevano lasciato più o meno un giorno e mezzo.

Mi asciugai i capelli superficialmente con l’asciugamano.

Alzai lo sguardo e mi vidi. I capelli umidi, biondi e ricci che si sfaldavano tra di loro formando piccole ciocche a spirale che cadevano sul mio volto. Gli occhi invece, cercavo di non osservarli intensamente. Essi si erano presentati a me in quelle condizioni solo poche volte. Mentre ora mi toccava possederli sempre con quello sguardo. Quello iniettato di orrore. L’orrore della paura. Dell’ultima vera paura da me provata.

Slacciai l’accappatoio. Lo scostai quel tanto per…

Ecco.

Ecco il segno.

Era ancora evidente, come poteva non esserlo? Mi scappo un ghigno.

Sembrava ancora fresca, la sfiorai con l’indice per accertarmene.

Zampillò una goccia di sangue.

Un brivido mi scosse. Mi fece chiudere con uno scatto il tessuto di microfibra, facendomi strizzare gli occhi e scuotere la testa. Così da poter riuscire a far sfumare alla mia mente ciò che stava per farmi rivivere in ricordi.

Non potevo proseguire così, d’altronde il tempo a mia disposizione scarseggiava. Quindi presi la mia decisione.

Mi sarei preparata.

Tutto doveva essere perfetto. Tutto come quel giorno.

Beh…

A parte il carnefice.

* * *



L’unico modo per poter tornare finalmente in vita, era quello di infliggere al mio corpo e al mio animo lo stesso sentimento, lo stesso dolore che avevo provato quando mi uccisero.

Mi diressi verso la camera da letto. Sbattei maldestramente col piede contro lo stipite di un mobile prima di arrivare. Avanzai un po’ zoppicando verso la cassapanca in cui avevo custodito gelosamente i vestiti che avrei dovuto indossare dopo la doccia quell’ultima volta sulla Terra.

Tornai in bagno, appoggiai con cura i vestiti sull’attaccapanni, cercando di posizionarli perfettamente come quella volta che fui uccisa.

Misi a posto l’accappatoio sforzandomi di ricordare come era stato messo, rimanendo spoglia come un fiore appassito di tutte le mie vesti.

Afferrai ioil coltello, dalla parte del manico, questa volta.

Feci scorrere l’acqua calda. Aspettai che una nube di vapore avvolgesse me e la stanza così da poter ricreare la scena del delitto.

Ecco. Era arrivato il momento.

Tenni ben stretto il coltello e lo feci calare di colpo contro la parete morbida del mio torace. Facendo penetrare la lama nella vecchia ferita.

Il dolore mi invase tramutandosi in un urlo agghiacciante che fece vibrare le mie corde vocali. Dalla ferita gocciolò del sangue che a contatto con la vasca umida si dissolse emanando nell’aria piena di vapore parole.

Goccia dopo goccia si diffuse un discorso.

Il discorso.

 

Quello del mio ricordo peggiore.

Le parole mi balzavano nelle orecchie creando un eco interminabile. Si mischiavano e prendevano vita.  

La pozza di sangue si faceva sempre più grande, come il mio terrore a rivivere quel momento.

Ci fu silenzio.

Poi ecco le immagini prodotte dai miei ricordi:

 

Ero qui. Nel mio bagno. Non esattamente questo del limbo, ma quello di casa mia. La mia vera casa. Era tardi. Ero appena tornata da lavoro e da una litigata col mio ragazzo. Decisi che con tutta quella tensione e stanchezza addosso la cosa migliore doveva essere una doccia calda, ricreando un clima quasi come alle terme, musica di sottofondo con le cuffie nelle orecchie per non dare disturbo a quei simpatici vicini e relax totale.

Non sentii aprire la porta, ero troppo presa da quella tensione che si scioglieva con l’acqua. Ma quando si fece a me la visione di quel volto, con cui avevo condiviso tanto e che mi aveva rubato tempo prima il cuore, con un coltellaccio in mano, non potei far nulla. Potevo solo concedergli il mio petto e…

 

Morire.

 

Mi risvegliai nella mia vera casa con la testa china sperando che prima o poi la finissi. La bava mi pendeva dal labbro inferiore ricoperto di quel liquido verdastro, unito a pezzetti di cibo non ancora digerito.

Potevo sentire il sapore di quel cibo che non sapevo neanche che fosse. Cercai di analizzarlo assaporandolo ben bene. Probabilmente avevo ingurgitato del tonno e dell’insalata riccia, verde di stagione e… bleah. Una mela.

Santo cielo che schifo.

Mai quanto la visione della tazza del cesso, del Mio cesso bianco, che mi toccava vedere da così vicino percependone, contro la mia volontà, l’odore nauseante e acido del vomito.

Tutta via come ritorno a questo mondo un po’ di mal di stomaco non è male.

 

Avevo fatto la mia scelta: Tornai nel mondo dei vivi senza un passato, con la cenere al posto dei ricordi.

Più o meno.

Non mi ricordavo come mi chiamavo, ne che lavoro facevo, ne tanto meno ogni singola cosa che avevo fatto sulla Terra.

Ma quelle sul limbo, sì. E l’immagine che la mia mente produsse del mio assassino me la ricordavo perfettamente. Ogni lineamento, ogni segno che lo distingueva dagli altri.

C’era solo la vendetta che lo attendeva.

 

La mia vendetta. 

  
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