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Autore: Melanto    26/08/2013    10 recensioni
"Della serata ricordo i tuoi occhi, ma non di cosa abbiamo parlato. Penso d’aver perso il filo dopo il secondo cicchetto e di sicuro dicevamo assurdità.
Ridevamo.
Ho questa immagine della tua testa che si piega all’indietro per scoprire la gola, mentre la sporgenza delle clavicole emerge dallo yukata che si allenta ancora un po’. Io ti guardavo dal basso, testa sul cuscino."

Un ritiro invernale, futon e sakè. Un mix così semplice da poter complicare tutto.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota Iniziale: avevo voglia di un po' di fluff. Sarà perché ultimamente sto trattando malissimo i miei pg preferiti e quindi devo un po' compensare. :3 Poche pagine, niente di che e in prima persona - che io ODIO, ma se mi chiederete perché l'ho scelta, la risposta sarà: l'ha deciso la fic -.

Buone puccerie a tutti! :3

 

Non ti muovere

 

L’ultimo ricordo che ho è quello di te che cerchi di raccontarmi di nuovo di come Jito sia scivolato sul ghiaccio, davanti all’entrata del ryokan, tirandosi dietro anche i gemelli Tachibana, Sano e Soda, in uno strike senza precedenti.
Hai mantenuto l’espressione seria fino alla fine e non so davvero come tu ci sia riuscito, perché io ho cominciato a ridere già alla prima parola; un po’ perché ero ubriaco, un po’ perché sai imitare Mikami alla perfezione.
Il biancore dei denti è comparso solo dopo, quando ti sei buttato nel futon, tra le coperte spostate a caso e le bottigliette vuote di sakè.
Quante ce ne ha passate quella vecchia volpe di Hajime? Cinque? Beh, tre erano già belle che finite dopo un’ora.
Non si dovrebbe bere ai ritiri ma noi siamo ragazzi e ne sappiamo una più del Mister per far passare anche l’impossibile, come le riviste porno di Ishizaki. E Ryo è ancora convinto che non l’abbia sgamato nessuno. Sappiamo far di tutto per sperimentare la follia di questa giovinezza direttamente sulla nostra pelle. I divieti non sono mai abbastanza e mai per troppo a lungo.
Della serata ricordo i tuoi occhi, ma non di cosa abbiamo parlato. Penso d’aver perso il filo dopo il secondo cicchetto e di sicuro dicevamo assurdità.
Ridevamo.
Ho questa immagine della tua testa che si piega all’indietro per scoprire la gola, mentre la sporgenza delle clavicole emerge dallo yukata che si allenta ancora un po’. Io ti guardavo dal basso, testa sul cuscino.
‘Non sfottere la lunghezza dei miei capelli, tanto non li taglio!’ non so di preciso quando l’ho messo in chiaro con solennità, sta di fatto che invece ricordo benissimo i tuoi occhi, come ti dicevo.
Difficili da dimenticare, sai? Con quella forma di mandorla perfetta. Non troppo larga, non troppo stretta; asseconda la varietà delle tue espressioni. E avevi le iridi che sembravano di bronzo perché la luce calda della lampada, tenuta bassa per non restare al buio e per non farci scoprire ancora svegli, vi si rifletteva contro.
Te l’ho detto che occhi così non si dimenticano. Io ci ho messo anni per capirlo e ora eccomi qui: dimmi solo come diamine abbiamo fatto ad addormentarci in questo modo e giuro che non ti porrò altre domande.
Perché la tua gamba è incastrata tra le mie? E perché c’è una mia mano sul tuo fianco? E le tue dita sul mio petto? Mh, discutiamo anche del mio braccio sotto al tuo collo, già che ci siamo, e anche del perché io stia rimanendo immobile, quasi fossi morto, pur di non farti svegliare.
Discutiamo di quanto ci stavamo girando attorno affinché finisse così.
Vuoi negarlo? Dovremmo cercare d’essere più realisti a questa età o forse sto pretendendo troppo dai nostri diciotto anni?
Forse sì. Forse pretendo.
Allora continuiamo così, una chiacchierata tra amici, perché è questo che siamo anche se fino a sei-sette anni fa non ci avrei scommesso nemmeno uno yen. All’epoca non sapevo neppure che esistesse un ragazzino di nome Yuzo Morisaki che faceva il portiere per la Mizukoshi. Non sapevo che un giorno ci avrei giocato in squadra, non sapevo che ci sarei andato a scuola e non sapevo neanche che ci sarei finito in stanza assieme in questo cavolo di ryokan, se ti può consolare. Non sapevo che avremmo bevuto sakè, che i nostri due futon magicamente sarebbero divenuti uno solo né che ti avrei sentito chiamare il mio nome nel sonno, proprio adesso, e che il cuore mi si sarebbe messo a battere fortissimo per questo. Non sapevo nemmeno che ne avrei sorriso.
Certo che non sappiamo praticamente niente. Viviamo brancolando nel buio e prendendoci quello che viene così come ci arriva. Anche questa cosa qui, no, penso di averla presa un po’ così, come me la sono ritrovata tra le mani.
Sarà che non sono affatto bravo a leggere, su due piedi, i segnali che manda il destino, ma li elaboro solo dopo, come in questo caso; dopotutto, tu hai sempre chiamato il mio nome: se hai un problema mi telefoni, prima di entrare in campo è il mio consiglio che cerchi anche se il capitano è Ryo, adesso, e anche se ci sarebbe Misaki a saperti indirizzare meglio di quanto potrei fare io, però è da me che vieni.
Io, invece, se ho un problema, chiamo Hajime, Teppei, Shingo. Dopo aver chiamato te.
Ecco, lo vedi?
I segnali, cazzo, io non li so proprio sgamare! Se avessi saputo farlo, avrei capito subito dove saremmo andati a finire, noi due, e non doveva essere per forza ‘a letto’ la risposta.
Adesso guardati, guardaci dove siamo arrivati dopo essere partiti come perfetti sconosciuti che non avevano niente ad accomunarli se non la passione per un dannato pallone. Credevo che il calcio potesse darmi solo un buon fisico e soddisfazioni personali. For fame and glory, per dirla come quelli di Spartacus.
E invece… e invece, sorpresa!, non sarà una ragazza a starmi tanto vicino da poterla sentire respirare e il bello è che non mi dispiacerà e sai perché? Perché mi hai incastrato, Morisaki. Mi hai incastrato proprio per bene senza neppure accorgertene, mentre io resto qui a chiedermi che faccia farai quando ti sveglierai e capirai in che situazione ci siamo messi.
Proverai a scappare…
…non te lo lascerò fare, questa volta.
E allora torno a chiudere gli occhi, facendomi compagnia con queste domande, mentre le dita scivolano ancora un po’ tra i tuoi capelli e non chiedermi quando io abbia cominciato, devo essermi distratto qualche pensiero più in là. 
Lascio che il sonno si prenda un po’ di me e la luce che filtra dalle tende tirate si faccia più chiara, più viva.
Ritrovo la mia coscienza quando capisco che la calma sta cambiando nel momento in cui il tuo corpo si irrigidisce. La gamba è bloccata, non puoi ritrarla, ed è contratta, così come il collo. Però le dita dal petto le hai tolte subito.
Lasciami indovinare cos’è successo: hai aperto gli occhi, quelle mandorle perfette che non temono di mostrare paura, quando la provi, ma complice il sonno ci hai messo un po’ a carburare.
Magari hai addirittura sorriso, nel trovarmi così vicino. Sai, la mente ancora un po’ annebbiata…
Magari hai iniziato a capire quando hai tentato di ritrarre la gamba e non ci sei riuscito. E poi hai notato la mia mano ben salda su di te – ammetto che fa un po’ parte della tattica per impedirti di fuggire –, da quel momento in poi è stato facile fare due più due.
Guarda che lo sento che sei spaventato a morte, che vorresti sgusciare via ma hai il terrore che se ti muovi troppo io potrei svegliarmi e trovarci così.
Se fossi discreto come te, probabilmente fingerei di muovermi nel sonno e sposterei la gamba, mi girerei dall’altra parte, ti lascerei via libera.
Peccato io sia un po’ stronzo.
«Scappi?»
Con la voce ancora arrochita dal sonno mi basta una sola parola per trasformarti in una statua di carne: immobile, ma viva. E non sono stupito di scoprire che avevo ragione: ti si legge in faccia che sei spiazzato, hai gli occhi grandi, ora, spalancati e vigili; posso guardarli bene, meglio di quanto avessi mai fatto prima.
Tenti la fuga, come previsto, e, come previsto, serro appena le gambe e la mano; ho il tuo corpo in ostaggio e adesso che fai?
«Non ti muovere» impasto; le labbra accarezzano il cuscino. «E’ presto. Dormiamo ancora un po’.»
«C-così?»
«E’ un problema?»
Il modo in cui vorresti rispondere ‘sì!’ è tanto palese che credo potresti addirittura urlarmelo in faccia. Però, ehi, l’abbiamo detto prima: tu sei un tipo discreto.
«N-no! Se… se non lo è per te-»
«Non lo è.»
Abbiamo detto anche che io sono stronzo, ricordi?
«S-scusa… è che devo essermi mosso parecchio, stanotte. Forse colpa del sakè…»
Conosco quella risatina nervosa, la usi sempre per sdrammatizzare le situazioni in cui ti senti in difficoltà. Ti prevedo. Prevedo le tue mosse ed è come se non avessi alcuna difesa contro di me, perché posso annullarle tutte. Anche il modo in cui i tuoi occhi si muovono, cercando di non incontrarmi, parla più di quanto potresti fare a parole.
«Sei a disagio?»
Stavolta mi guardi.
«…sì.»
«Perché?»
«Beh, perché… insomma… non dovremmo trovarci... così.» Come se fosse una risposta validissima e piena di fondamento scientifico. «E’ strano.»
«No, strano sarebbe se ti stringessi in questo modo.»
Il palmo si appoggia su tutta la schiena, la gamba è costretta a scivolare tra le mie un po’ di più e adesso posso sentire il tuo fiato direttamente sulle labbra. Fiato che trattieni per un attimo.
Lo sai che sono bravo a sfruttare le occasioni, se me le offri su di un piatto d’argento, e questa era troppo ghiotta per ignorarla. Ah, e già che ci sono e che il momento è così ‘particolare’, c’è una cosa che volevo chiederti da un po’: quando’è che sei diventato così carino, Yuzo?
«Ecco, sì, questo è…» Un colpetto di tosse, ma la frase muore lì.
Per evitare di toccarmi più di quanto già sei costretto a fare dovresti tenere la testa ben dritta, ma così non potresti rifuggire il mio sguardo, allora ti accontenti del compromesso di far toccare almeno le fronti.
«E comunque non dire che ‘è strano’
«Non dovrei?!» Ullalà, quanta ironia! Questa te l’ho un po’ regalata, lo ammetto.
«No, perché altrimenti dovremmo parlare di quando mi sono svegliato e ho trovato la tua gamba tra le mie, la mia mano sul tuo fianco e la tua testa sul mio braccio.»
Ingoi proprio all’ultimo secondo la risposta un po’ acida che vorresti rifilarmi. Ci ripensi. Hai capito che non ti conviene, eh? Che forse non è il caso di affrontare questa discussione, che forse è meglio assecondarmi un po’, restare immobile, magari dormire.
Anche questo è fuggire e non posso lasciartelo fare, mi capisci, Yuzo? C’è troppo in gioco e non è come quando ci stuzzichiamo, ben al sicuro nelle nostre ‘zone di sicurezza’. Ogni tanto possiamo fare un’incursione fuori, in campo aperto, ma subito rientrare e lasciare tutto così com’è. Adesso ci siamo spinti troppo fuori e per troppo tempo. Adesso non possiamo rientrare. Adesso le nostre zone di sicurezza sono troppo lontane e in questo ‘campo aperto’ di un metro per due ci siamo solo io e te.
«Hai chiamato il mio nome.»
Ecco un modo semplice per chiuderti tutte le porte e costringerti a venire allo scoperto. Impara, piccolo: niente giri larghi, ma poche parole dritte al punto. È così che si fa, no? Se ti do lo spazio per muoverti, finisce che riesci a cambiare discorso.
«Cosa?»
«Prima, nel sonno. Dormivi e hai chiamato il mio nome.»
«Oh.»
Scusa. Scusami se ti sto mettendo così in imbarazzo, ma c’è da dire che diventi ancora più carino quando ti vergogni. Scommetto che non te l’hanno mai fatto notare, fortuna che ci sono io e che so fare anche di meglio.
«Perché?» Appunto.
«Beh, perché… perché sei l’ultima persona che ho visto, perché dormiamo nella stessa stanza, perché… Perché ho bevuto troppo?»
E’ bello scoprire come quella semplice risposta che chiunque mi avrebbe dato al tuo posto e che avrebbe suonato più o meno come un ‘cosa vuoi che ne sappia se stavo dormendo?!’ tu non la prenda neanche in considerazione, ma cerchi davvero di trovare una spiegazione a quel nome detto a fior di labbra che ti è sfuggito per un solo secondo. Un solo, meraviglioso secondo.
Trattieni uno sbuffo. «Perché ridi?»
«Sei arrossito.»
«Non puoi averlo visto! Siamo troppo vicini!»
Non provi neppure a negare!
Dio!, sei incredibile!
Lo sei così tanto che quel bacio rimasto sospeso tra noi te lo rubo prima che tu possa replicare. Le parole che avresti voluto dire mi appartengono, adesso, non te le restituirò mai più, ma tu potrai donarmene ancora, se lo vorrai, e se non lo vorrai le ruberò di nuovo.
Portano ancora il sapore del sakè e quella piacevole scoperta che non è così diverso baciare un ragazzo invece che una ragazza. Ti dicono che è sbagliato solo per spaventarti e costringerti a essere la fotocopia di una fotocopia. L’ennesimo uno in un mare di altri uno. Ma noi possiamo essere gli zero, trovare la nostra strada e imparare da soli cosa sia davvero sbagliato.
Questo non lo è. Noi non lo siamo.
Non può essere sbagliata una persona che ha labbra così morbide. A quante ragazze, prima di me, sono appartenute? Due, tre? Di sicuro a quella del primo anno, con i capelli ricci e gli occhi da cerbiatta. Poi chi altri? Ma loro… loro te l’hanno mai detto? Ti hanno mai detto che si crea una sorta di dipendenza già al primo contatto? Perché nel caso potrei farlo io, son cose che devi sapere: devi sapere che vorrei morderle fino a farle divenire rosse e che più le bacio, meno vorrei smettere.
Non sono un novellino, il mio arco ha già scoccato un paio di frecce, ma una cosa così… io non credo d’averla mai provata e ora che ti lascio di nuovo il permesso di parlare, cos’è che mi dirai?
«Io… credo di essermi perso.»
Sorrido.
Non è proprio la risposta che mi sarei aspettato ma è nel tono il vero significato, nel mormorio in cui l’hai detta, così basso da carezzarmi le orecchie come velluto, e nello sguardo, perché ora non lo abbassi, no, resta fermo nel mio. Dentro di me.
Quando ti bacio ancora è il colore del bronzo che mi esplode davanti. Dilaga nella testa, fuso, con quei riflessi preziosi e caldi. È così che immagino ancora i tuoi occhi, intrappolati nella luce della lampada che mostra e nasconde. Come lo yukata che si allenta sul petto e crea ombre sulla pelle, cela le linee dei muscoli.
Penso a quello yukata, alla mandorla perfetta, al bianco dei denti e all’amaro del sakè.
Penso che ti amo, Yuzo. 
«E’ più chiaro, ora?»
«Sì.»
Un mormorio ancora, ma non c’è esitazione. Non ce n’è neppure negli occhi.
L’ultimo bacio arriva da te, alla fine. Dalle tue labbra che hanno cercato le mie e le hanno trovate già calde, con ancora l’eco del tuo sapore. Gliene doni un altro po’ e allo stesso tempo ti doni a me, pochissimo, ma è come se io avessi già imboccato la strada per l’infinito. Tanto ormai sono incastrato, l’hai capito anche tu, e forse… forse io sono riuscito a incastrare te, in questo gioco di gambe e braccia, di dita tra i capelli e sul petto, di alcool che scioglie i cuori, di scoperte e di baci tutti nuovi.
«Dormiamo ancora un po’, ‘key?» Abbiamo ancora tempo prima che il Mister venga a svegliarci, teniamolo solo per noi. Siamo andati così lontano da dover riposare. «E… Yuzo?»
«Mh?»
«Non pensare di muoverti.»
Ti sento sorridere, adesso.
«Non mi muoverò.»

 

Fine

 

   
 
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