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Autore: gattapelosa    28/08/2013    4 recensioni
— Non lamentarti e mangia.— rispose papà.— Fai la signorina.
— Non voglio fare la signorina.
— Tu sei una signorina.
E odiavo quando me lo ripetevano perché sì, lo sapevo bene, io. Lo sapevo perché tutti, prima di chiamarmi Celeste, si rivolgevano a me come “Signorina Riffler”. Lo sapevo perché nemmeno al collegio dove ero stata rinchiusa nessuno girava in limousine con autista. E lo sapevo perché i sorrisi che i grandi rivolgevano a me, non erano i sorrisi che i grandi rivolgevano a tutti gli altri bambini.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al contest "Viva l'Infanzia!" di Krater95, la cui pagina del forum proverò a mettere qui, anche se sappiamo tutti come andrà a finire (bastardo portatile ritardato...)-------->  http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10650883



Nick forum: Gatta.Pelosa
Nick EFP: gattapelosa
Titolo fic: Controcorrente 
Genere: generale
Raiting: giallo
Pacchetto: Ribelle
Personaggi: Celeste, i Celestini
Fandom: la compagnia del celestini
 
 



Controcorrente

 

 

— Composta.— disse.— Stai seduta composta. Non hai imparato niente al collegio?
Mamma sistemò la postura delle mie braccia, mollemente poggianti sui gomiti, e versò nel piatto una magra porzione di broccoli.
— Non mi piacciono i broccoli.— dissi, mettendo il muso.
— Non lamentarti e mangia.— rispose papà.— Fai la signorina.
— Non voglio fare la signorina.
— Tu sei una signorina.
E odiavo quando me lo ripetevano perché sì, lo sapevo bene, io. Lo sapevo perché tutti, prima di chiamarmi Celeste, si rivolgevano a me come “Signorina Riffler”. Lo sapevo perché nemmeno al collegio dove ero stata rinchiusa nessuno girava in limousine con autista. E lo sapevo perché i sorrisi che i grandi rivolgevano a me, non erano i sorrisi che i grandi rivolgevano a tutti gli altri bambini.
Finii di mangiare quel che dovevo mangiare, ascoltai in silenzio i discorsi dei miei, aspettai paziente che venissero a sparecchiare la tavola. D’altra parte, non avevo di che lamentarmi: presto sarei dovuta tornare al collegio, lontana da loro.
— Dobbiamo muoverci, adesso.— disse papà.— Ci aspetta la cerimonia dell’Istituto Riffler.
Sbuffai, ma me la misi via. Perché la cerimonia dell’Istituto Riffler era l’unica occasione – oltre le feste di Natale e il mio compleanno – in cui potevo tornare a casa. E non certo perché i miei ci tenessero tanto, sia chiaro, era la nonna: tutto in memoria di suo padre, che aveva generosamente finanziato la realizzazione del vecchio complesso. Anche se io sapevo non fosse poi davvero così importante, nonna voleva solo darmi un’occasione per tornare a casa.
Così indossai quel che dovevo indossare, un bel vestito bianco e blu, e saltai sulla limousine dei miei genitori. Fu un viaggio silenzioso, con mamma e papà che parlavano al telefono, ma ormai avevo iniziato a considerare i loro cellulari una sorta di prolungamento del lobo destro. Roba genetica.
Quando arrivammo papà e mamma scesero, senza rivolgersi la parola e ancora incollati al cellulare, dalle due diverse portiere della macchina. Poi se le richiusero alle spalle, con me e nonna ancora dentro, e si allontanarono.
Io e lei ci guardammo. Due secondi di serietà. Un piccolo sorriso. Una risata trattenuta. E poi scoppiamo a ridere come pazze, perché non bisognava prenderli troppo sul serio, quei due. O almeno è così che diceva la nonna.
— Che ne dici, andiamo anche noi?— chiesi. Nonna sorrise, e quel sorriso stava a dire “certo Celeste, fai strada tu”.
Con l’aiuto dell’autista riuscii a scaricare la sedia a rotelle e sistemarvi sopra la nonna. Ero troppo piccola allora per trasportarla bene, ma, nonostante i comandi elettronici, facevo volentieri un piccolo sforzo per provare a spingerla. A nonna piaceva, e a me pure.
Nel vecchio Istituto Riffler andavano rinchiusi orfanelli e figli che a casa non potevano stare, e a regnare su di loro stava la strana signora Biffery. Portai la nonna fin dentro l’atrio, dove bimbi e genitori si salutavano, si abbracciavano, si raccontavano delle loro giornate, con i grandi che sembravano perfino interessati a quel che veniva loro detto. Mentre i miei genitori – manco a dirlo – chiacchieravano con il Sindaco, la Signorina Biffery raggiunse me e la nonna. Era esattamente come me la ricordavo: grigia.
 
— Contessa Riffler! Ma quale piacere rivederla qui.— disse, sorridendo. Poi guardò me, semi nascosta dietro la sedia, e sorrise.
— Ciao anche a te, Celeste.— mi aveva chiamata per nome.— Perché non vai a giocare con gli altri bambini?
Guardai ora la nonna, che sorrideva, ora i miei, lontani. Alla fine feci come il gesto di nonna consigliava: mi allontanai furtivamente verso il giardino.
La maggior parte dei ragazzi era accerchiata da adulti, fatta eccezione per due bambini, ai limiti del giardino. Il primo, un ragazzino occhialuto con tanti capelli, stava palleggiando, mentre il secondo – occhi verdi, capelli scuri e disordinati, maglietta al suo centesimo rattoppamento– lo guardava scocciato.
— Vuoi passare quella palla, Memorino?— gridò. L’occhialuto calciò il pallone fin sopra il davanzale, contro cui rimbalzò una prima volta, poi precipitò su un masso, secondo rimbalzo, e infine giunse ai piedi del secondo bambino, che con una cannonata quasi sfondo il muro dietro Memorino.
— Piano! Ma mi volevi ammazzare?
— Sei tu troppo debole!
Mi ci avvicinai, lentamente, per vedere meglio.
— Riproviamo.
Il secondo tiro rimbalzò tre volte: davanzale, masso e parete; preso alla sprovvista occhi-verdi mancò la mira, calciando il pallone nella mia direzione. Penso sia stata una cosa istintiva gettarmi in avanti e pararne il tiro. Feci un salto, fermai la palla e caddi a terra, sporcandomi il vestito, ma che importava poi se era costato centinaia di euro? Io avevo fermato una cannonata.
— Incredibile!— disse Memorino, venendomi incontro.— Visto, Lucifero? Anche i tuoi tiri possono essere parati.
— È stato solo un colpo di fortuna.— rispose lui.
Mi alzai in piedi, tirandogli la palla.
— Allora riproviamo.— dissi.— E se la paro ancora, non sarà stato solo un colpo di fortuna.
Lucifero fece una smorfia, ma non replicò.
— Molto bene— disse invece.— la porta va dalla parete a quella pianta, se la pari, ammetterò che ci sai fare e potrai continuare a giocare con noi. In caso contrario, torni dalle bambole.
Annuii, mettendomi in posizione. Non avevo mai giocato a calcio, prima: i miei dicevano fosse uno sport barbaro, ma mi ero sentita davvero in gamba dopo aver parato il mio primo pallone, qualcosa in cui ero riuscita per merito mio, per una volta.
Lucifero si pose di fronte a me, palleggiando. Non avevo mai fatto nulla di simile, sentivo crescere la tensione. Alla fine il tiro partì, ma non sapevo più bene cosa fare: dove dovevo gettarmi, destra o sinistra? Fu l’istinto a parlare per me.
Questa volta, l’istinto fallì.
Mi gettai a destra, mentre il pallone volava a sinistra. In un primo momento venni presa dallo sconforto, ma non avevo voglia di arrendermi, mai. Poggiai le mani a terra e piegai le gambe di lato, sfiorando appena il pallone, ma deviandone la traiettoria e spingendolo oltre la pianta.
Memorino alzò i pugni al cielo e rise. — Magistrale!— disse.
Lucifero mi guardò seccato, per poi scrollare le spalle.— Va bene, ci sai fare. Continuiamo a giocare, io e Memorino facciamo dei passaggi e poi tiriamo in porta.
— Aspetta.— disse Memorino.— Non sappiamo nemmeno come si chiama.
— Celeste.— risposi. E poi cominciammo a giocare.
 
— Oh. Mio. Dio.— avevo appena parato un tiro micidiale, gettandomi a terra e rotolando in una pozzanghera. Non ero meno sporca degli altri, ma il bel vestitino bianco e blu lo indossavo io, non i ragazzi.  
— Oh. Mio. Dio.— ripeté mia madre, fissando sconvolta la sua bella e altolocata figlioletta immersa nella terra.
— Stavamo solo giocando.— dissi. Papà mi si avvicinò, cercando di togliere con poche manate il più dello sporco, imprecando pure.
— E serviva proprio sporcarsi così per giocare?— mi gridò dietro.— Guardati, sembri una pezzente! Un vestito così costoso, poi.
— Ne ho tanti altri.— dissi, ma a loro non interessava.
— Andiamo via.— disse mia madre, coprendosi gli occhi. Prima che papà riuscisse a trascinarmi in macchina, però, la Signorina Biffery propose un cambio d’abiti, che sporca com’ero rischiavo di macchiare i sedili bianchi della limousine.
Portandomi nei dormitori femminili dell’istituto, si fece prestare un paio di pantaloncini con maglietta slavata da abbinare. Erano comodi. Non che non avessi mai portato un paio di pantaloncini, sia chiaro, ma con gonne e vestiti sembravo più una bambolina, e agli adulti le bamboline piacciono.
Prima di salire in macchina feci appena in tempo a salutare un’ultima volta Lucifero e Memorino, con i miei che insistevano a partire subito. Nonna mi diede una pacca sulla spalla: “coraggio, sono con te”, stava a dire.
— Non sai quanto ci hai imbarazzato, Celeste.— disse mio padre, una volta in moto.— E davanti al sindaco, poi.
— Io non…
— Prima di tutto, capiamo che tu voglia muoverti e fare sport, ma esistono altre attività che non comprendono rotolarsi per terra. Come il tennis. Potremmo mettere su un campo da tennis, se vuoi.
— In secondo luogo.— proseguì mia madre, senza lasciarmi tempo per ribattere.— Capiamo anche che tu voglia giocare con altri bambini, ma, come posso dire…insomma, non che ci sia qualcosa di male in loro, sia chiaro, ma hai già tanti amici. Non vedi la differenza? Quei poveri bambini non hanno davanti un gran futuro, insomma, abbandonati in un istituto decrepito…per carità, magari un giorno diventeranno medici, o ingegneri o sindaci, ma hanno anche molte possibilità di avvicinarsi alla malavita. Non vorrei questo per te.
— Ma a me piace…
— Siete su due diverse lunghezze d’onda, ecco.— prese parola papà.— Penso che il termine giusta sia “destino”. È destino che tu sia nata in una famiglia come la nostra, di conseguenza è destino che tu segua una certa via. Non un obbligo, certo, è solo così che vanno le cose. Loro sono stati destinati a quella scuola, con un futuro più incerto, e se si avvicineranno alla malavita sarà destino. È chiaro, Celeste? Non puoi farci niente. Questa è la tua vita, quella la loro.
— Non mi piace questo destino.
Mamma e papà scossero il capo, e già sapevo cosa stessero pensando: che non capivo niente, che era solo una pazzia del momento, che stavo facendo i capricci, come una bambina.
— Un giorno cambierai idea.— disse mamma.— E in ogni caso, il destino non è una cosa tua, non puoi cambiarlo.
Il resto del viaggio fu silenzioso, forse, o forse avevano ripreso a parlare, non vi prestai caso. Guardavo fisso l’immagine riflessa nel finestrino. Ero io? Capelli sciolti, occhi grandi, viso dolce, ero io, la bella bambolina dei Riffler, quella che gli adulti amavano spupazzare, dolce e carina. Ma portavo vestiti larghi, il volto sporco di terra, i capelli arruffati, mi piaceva, questa me. Una me libera. Come quei bambini, che giocavano a calcio senza doversi preoccupare di tenere pulito il vestito, che parlavano amabilmente con i loro genitori, che ridevano. Avrei voluto condividere anche io il loro destino.
Giunti a casa, ancora una volta i miei non prestarono caso a me e alla nonna. Coinvolti dall’urgenza del cellulare che squillava, ci abbandonarono così, in macchina.
— Tu sei d’accordo con loro?— chiesi alla nonna.— Pensi che se io sono nata Riffler, dovrò seguire il destino dei Riffler?
Nonna si grattò un po’ il mento, poi sorrise. Fece segno verso la portiera, ma quando scesi, dopo un veloce saluto, ordinò ad Antonio, l’autista, di partire. E così rimasi di nuovo sola. 
Rintanatami in camera, passai mezz’ora a guardare fisso la mia immagine riflessa. Non avevo voluto farmi una doccia o cambiarmi d’abito, cercavo di contemplare una Celeste nuova, qualcosa che avrei voluto essere, ma che, a quanto pare, non sarei potuta diventare.
Stavo accarezzando la guancia sporca della Celeste riflessa, quando sentii la porta aprirsi e mia nonna, in sedia a rotelle, entrare nella stanza.
— Non si bussa? — chiesi. Ma lei sorrideva, e se sorrideva doveva essere successo qualcosa di bello. Infatti, nonna tirò fuori da un sacchetto un pacchetto rotondo.
— Una palla!— gridai.— Nonna, tu mi hai regalato una palla!
Scartai subito il pacchetto, rimirando lo splendido pallone che era andata a prendermi.
— Ma non avevate detto che non potevo?— nonna mise due dita sulla bocca, a indicare il silenzio, e mi strizzò l’occhio. E allora risi, provando a palleggiare come aveva fatto quel bambino, senza troppo successo.
— Migliorerò, vedrai!— dissi, felice.— E se migliorerò, potrò giocare, vero?
Nonna alzò un sopracciglio.
— Sì, insomma…non è che il mio destino me lo impedirà, giusto?
Lei prese a indicare insistentemente il pallone. In un primo momento non capii, ma, rigirandomelo meglio tra le mani, vidi come qualcuno avesse scritto, quasi a farlo apposta, l’incoraggiamento di cui avevo bisogno.Il destino vive in te.
E allora risi anche io, riprendendo subito a palleggiare, fallendo, anche, ma tentando ancora e ancora. Presto avrei dovuto far ritorno al collegio, ma nulla avrebbe potuto proibirmi di portarmi dietro il nuovo pallone.
Palleggiando davanti allo specchio, sporca e sciatta, ma felice e sorridente come non mai, pensai che quella Celeste sapeva entusiasmarmi molto di più. Pensai che avrei fatto di tutto per proteggerla.

 
 
Il tiro giunse a razzo, quasi penetrando la porta incustodita, dopo che quel codardo di Tony aveva deciso di lasciare la partita, con la chiamata al 113 della Verre.
È stato puro istinto gettarmi in avanti e parare il pallone, sporgendo i piedi di lato e deviandone la traiettoria, sotto lo stupore dei più.
— Magistrale!— gridò poi un ragazzo di colore, quello con gli occhiali.
— Magistrale un bel niente.— rispose occhi-verdi.— Che ci fa quella lì? Sarà venuta per spiarci.
Facendo rotolare il pallone mi ci avvicinai. Avevano un che di familiare, quei due, anche se non avrei saputo dire bene cosa.
— Senti, siamo sotto di tre gol, possiamo discuterne dopo, d’accordo?— dissi. Stava per ribattere, lo si capiva, ma uno dei gemelli propose di farmi giocare e quello con gli occhiali diede manforte. Così alla fine se la mise via e, scrollando un po’ le spalle, riprese la partita, con me in porta. Ce la giocammo finché non sentimmo arrivare la polizia, poi, con il punteggio fisso a tre a tre, corremmo verso l’Istituto Riffler. Anche se occhi-verdi – Lucifero, pensavo d’aver capito – sembrava diffidente, sentivo già nascere un forte legame, tra noi. Volevo entrare nella loro squadra, volevo giocare a pallastrada, volevo vivere ancora momenti come quelli. Ecco perché finsi con i miei di essere rimasta a seguire il discorso del Sindaco, proteggendoli dalle accuse dell’agente Baffetti. Ecco perché strinsi la mano di Lucifero, accompagnata da un “ho proprio voglia di sporcarmi un po’ le mani”, dopo le critiche al mio cognome e al mio stato sociale. Perché non me ne è fregato mai niente, del mio cognome e del mio stato sociale.





Bacheca dell'autrice


Parto subito col dire che la storia partecipa al concorso "Viva l'Infanzia!", dove praticamente si poteva scegliere di visualizzare uno dei 12 "pacchetti" messi a disposizione, ispirati ai vari film Disney e non. Ciascuno di essi portava una frase tratta dal cartone animato preso in esame...e io ho scelto Ribello, la cui frase era *rullo di tamburi*....


Alcuni dicono che al destino non si comanda, che il destino non è una cosa nostra. Ma io so che non è così, il nostro destino vive in noi, bisogna soltanto avere il coraggio di vederlo!


Ho scelto di scrivere la mia one-shot sui Celestini perché morivo dalla voglia di farlo, e chi se ne frega se come fandom è deserto e sottovalutato, faccio l'originale, io. 
Dopo una rilettura mi sono perfina resa conto di un paio di errorini lasciati qui e là - esempio: — Contessa Riffler! Ma quale piacere rivederla qui.— disse, sorridendo. Poi guardò me, semi nascosta dietro la sedia, e sorrise.
Sorride sempre, 'sta qua. 
Ma ho deciso di lasciare tutto com'è, per farmi due risate. 

 
 
  
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