Grinderwald
fissava ardentemente il
soffitto, pensando agli eventi degli ultimi due mesi.
-
Ariana, ti devo parlare.
-
Parlami ora, Gellert, prima che sia troppo
tardi per farlo...
Grinderwald
strinse le mani di Ariana,
trasmettendo, in quel contatto, gli amari, ma alo stesso tempo dolci
sentimenti
che il suo cuore conservava gelosamente.
Non
riusciva a controllare il flusso di
quelle emozioni potentissime, quasi quanto la sua amata bacchetta di
Sambuco
Tristezza,
una tristezza gelida, che non
amava far vedere agli altri; si disprezzava esclusivamente per il fatto
di
provarla. Era forse per quello che la nascondeva sotto strati e strati
di
egoismo, orgoglio, sicurezza di sé, ma che doveva ammettere,
nonostante quanto
cercasse di nasconderla o di disprezzarla, quella non se ne andava,
restando
illesa al suo posto.
Dolore
antico, lasciato aspettare fin
troppo per essere represso di nuovo. Il dolore che proveniva dalla
famiglia
tormentata da cui era scappato , che gli anni gloriosi trascorsi a
Durmstrang
non erano riusciti a tappare.
E
infine amore, tormentato amore per
lei, che ora aveva davanti, che aveva voglia di confessare
lì, in seduta
stante. Un amore malato, anormale.
Le
manine delicate, dolci, soffici, di
Ariana, sembravano fatte appositamente per il suo tocco, delicate come
quelle
di nessun'altro. Quelle erano le mani che per sempre avrebbe voluto
rimanere a
toccare. Voleva che fossero sue, voleva possederla, in tutta la sua
bellezza e
la sua innocenza. E ci sarebbe riuscito.
Era
violento persino in quello,
Grinderwald: le questioni di cuore diventavano una caccia e lui era un
lupo in
cerca di selvaggina. Gli piaceva impossessarsi delle donne e renderle
il suo
giocattolo preferito, che consumava piano piano. Gli piaceva farle
diventare
niente e poi buttarle via, senza curarsene. E Ariana sarebbe stata
perfetta,
così pura, così bambina.
L'amore
infondo non c'era, si trattavo
solo ed esclusivamente di attrazione temporanea.
-
Ariana, ecco . . .
Nebbia.
La nebbia offuscava i suoi
ricordi. Lui stesso era l'artefice della sua nebbia, costituita da uno
spesso
strato di paure, di amarezza e di odio, verso sé stesso e
gli altri.
La
nebbia aveva creato un nuovo Gellert
e lui era pronto a tutto, pur di consolidare l'idea che si era fatto di
bene.
E
l'aveva uccisa. Sì, l'aveva uccisa
lui, furioso di non essere riuscito a impossessarsene. L'aveva fatto
risultare
un incidente, in modo da far penetrare sensi di colpa in Silente,
riuscendo
così a dargli un aspetto più umano. Voleva che
non fosse amato da tutti come
già allora, da giovanissimo, era. Voleva distruggerlo
interiormente, dandogli
un carico pendente eterno.
E
poi era fuggito, dimenticandosi che
con lui sarebbero fuggiti tutti i suoi sensi di colpa, le sue paure, le
sue
insicurezze; dimenticandosi che, in fondo, lui era un umano, non una
creatura
priva di vita; dimenticandosi, che si sarebbe presentato quel momento
in cui la
nebbia si sarebbe neutralizzata.