Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Grotesque    29/08/2013    1 recensioni
|Levi/Eren|What if?|AU|
La fic tecnicamente è AU, anche se si fanno riferimenti all'universo originale.
E' il momento di tornare a scuola, per Eren.
Eren non credeva nel destino. Lo irritava il pensiero che qualcun altro avesse deciso per lui ciò che avrebbe dovuto fare, ciò che sarebbe dovuto accadere nella sua vita. Homo faber fotuna suae.
L'uomo fa la sua fortuna. Sarebbe stato lui a tessere il proprio percorso.
Eppure, quel giorno, per la prima volta, si sentì come se la scelta del suo posto sull'autobus non potesse essere nata da un semplice caso.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren, Jaeger
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ad un passo dalla fermata del bus.


Il momento più buio della giornata arriva subito, immediatamente, come prima cosa. E' l'inizio di tutto. Si passa lentamente da uno stato di tepore ed intorpidimento alla luce, in
modo soffice e graduale. Il buio mantiene intatti i nostri sogni, preservandoli dallo sgretolamento all'oblio più che può, finché una linea di mondo non farà capolinea fra le due palpebre, interferendo con la realtà dei sogni. La luce, la vita e la coscienza tornano lentamente a far parte di noi e di ciò che ci circonda. Non si è più un semplice spirito, un'essenza, che vaga pigramente nel nulla; torniamo ad essere. Sentiamo il sangue scorrerci nelle vene, il battito del cuore, i muscoli rilassati e distesi su una superficie morbida. Poi ci si strofina gli occhi, finalmente accolti in un'inavvertita bruschezza da memoria e consapevolezza di esistere. Proprio questo stava provando Eren Jaeger, senza rendersi conto di quanto complessi fossero gli istanti che erano appena trascorsi, portandosi una mano al viso per strofinarsi gli occhi, con un'espressione ancora assonnata. Colpì con una certa violenza la sveglia, che, con il suo fastidioso rumore perpetuo e squillante, non riusciva a dare pace alla sua mente -ancora in fase di riattivazione , dopo il riposo notturno. Dopo aver identificato in lei l'artefice del suo risveglio, si alzò svogliatamente dal letto, realizzando anche il motivo del suo ridestarsi così mattiniero. Ebbene, era ormai arrivato il momento di ritornare a soffrire di crisi da esame -sia quelle che venivano prima di svolgerlo, sia quelle che attaccavano quando i voti lo raggiungevano come fortissimi schiaffi. Era tornato il momento di impegnare i suoi pomeriggi, fin'ora dedicati completamente alle spensierate ore trascorse con i suoi amici, allo studio. Si massaggiò innervosito la fronte corrugata. Come ogni anno il primo giorno di scuola era arrivato inaspettato, troppo velocemente perché lui si preparasse psicologicamente, o si rendesse perlomeno conto che il fatidico giorno si avvicinava. E si ritrovava, come ogni mattina che scandiva il ricominciare del normale ritmo scolastico, scocciato e quasi stupito dal suo improvviso cambio di orari e condizione -da libero a intrappolato, dal suo punto di vista. Scese le scale per raggiungere la cucina e fare colazione. Mangiò, si fece una doccia, si vestì e salutò la madre, inaugurando la routine scolastica. Inutile dire che il suo entusiasmo non era proprio alle stelle nel compiere le piccole azioni che caratterizzavano il rinnovato inizio della scuola. Neanche aspettare il bus era qualcosa di particolarmente gradevole, specialmente il primo giorno. L'attesa era snervante. Si passò una mano fra gli spettinati capelli castani, prima di lasciar andare un lungo sospiro, e riaprire gli occhi sulla strada. Non era mai stato una persona a cui piace aspettare; era un ragazzo impaziente. E poi, in fin dei conti, rivedere i soliti volti sull'autobus avrebbe senza dubbio reso più dolce quella mattinata nuvolosa. Il pensiero gli strappò il primo sorriso della giornata. In effetti era da un po' che non vedeva Jean, per esempio. Aveva incontrato Mikasa e Armin durante le vacanze estive, e, in un modo nell'altro, aveva anche visto molti altri, anche se per caso. E pensare che ora li avrebbe visti tutti i giorni, faceva uno strano effetto, ma era, in qualche modo, piacevole. Era piacevole pensare di far parte di un gruppo. Erano uniti, amici. Ed era piacevole sapere che, qualsiasi cosa sarebbe successa, avrebbe sempre avuto qualcuno a supportarlo, qualcuno che lo rassicurasse, che lo aiutasse. Era bello sapere di avere sempre qualcuno da cui tornare, come se fossero una famiglia. In qualche modo, quando la classe si era formata, lentamente, si erano tutti misteriosamente legati gli uni agli altri, chi più, chi meno. Come se un'invisibile forza li avesse spinti gli uni contro gli altri a riscoprire qualcosa che avevano già; la solidarietà che si era creata fra loro era incredibile anche per lui, che la sperimentava in prima persona. Come calamite, come pezzi dello stesso puzzle, come dettagli e colori di una stessa, grande figura. Riuscivano a capirsi e a starsi vicini, soprattutto dopo sei anni di convivenza nella stessa classe -che, in fin dei conti, non era sempre stata semplicissima. Ma, alla fine, in un modo o nell'altro, riuscivano sempre a risolvere tutto, insieme. Nonostante il fatto che Jean continuasse a ripetere che lo odiava. Nonostante tutto.

 

Finalmente l'autobus arrivò, mentre lui si beava nei suoi pensieri. All'aprirsi della porta, vi scattò dentro con un energico balzo, improvvisamente animato da una nuova determinazione. Per quanto l'anno si potesse dimostrare difficile, avrebbe condiviso tutto con i suoi amici; e, sia che pensasse sadicamente al fatto che anche il suo miglior nemico avrebbe sofferto le sue stesse pene, sia che pensasse al fatto che Armin lo avrebbe aiutato con lo studio, la prospettiva era decisamente meno disgustosa di quanto non risultasse al risveglio. Doveva aspettare solo un altro poco; una mera fermata. E la sua vita avrebbe ripreso il corso che aveva per la maggior parte dell'anno. A una fermata di distanza sarebbero saliti Reinar e Berthold. Chissà come avevano passato l'Estate? Prese posto a sedere, scegliendo un sedile a caso. Si dice, spesso, che il caso non esiste. Si parla di destino, un filo rosso che collega tutte le nostre anime in un enorme disegno divino -o, meno poeticamente, in un enorme gomitolo di lana. Eren non credeva nel destino. Lo irritava il pensiero che qualcun altro avesse deciso per lui ciò che avrebbe dovuto fare, ciò che sarebbe dovuto accadere nella sua vita. Homo faber fotuna suae. L'uomo fa la sua fortuna. Sarebbe stato lui a tessere il proprio percorso.Eppure, quel giorno, per la prima volta, si sentì come se la scelta del suo posto sull'autobus non potesse essere nata da un semplice caso. Si sentì come se, realmente, qualcuno avesse deciso di fargli notare proprio quel posto, di attirare il percorso delle sue iridi in quella direzione. Quando si sedette, notò un uomo in piedi, proprio vicino al sedile che aveva scelto. Un uomo? Era intuibile solo dal fatto che indossava un completo e si portava appresso una ventiquattrore; era un impiegato. Eppure l'altezza suggeriva tutt'altro. Era almeno dieci centimetri più basso di lui. Ma qualcosa, mentre lo guardava, andò storto. Non riusciva a distogliere lo sguardo da lui, da quando l'aveva posato sul suo volto. Il suo cuore aveva preso un battito, e poi si era fermato per un istante, stringendosi. Aveva avvertito una forte fitta al petto.
Dolore.
Questa era la prima reazione che la vista di quel volto, dalle linee morbide e bianco come porcellana gli aveva scaturito. Un'improvvisa e forte sensazione di angoscia; si sentiva come se, la sola vista di quell'uomo, avesse fatto muovere, cambiare qualcosa dentro di lui. Era scattato un ingranaggio, che aveva causato una curiosa ed inaspettata reazione a catena. E dopo pochi, lunghi instanti di sofferenza, all'improvviso tutto venne sostituito dal vuoto. Si sentiva come se le labbra sottili gli avessero rapito l'anima, in un fugace sussurro. Di nuovo pochi, eterni, istanti lo trattennero in uno stato di congelamento. Tutto era fermo. Il bus, le nuvole che iniziavano a diventare plumbee, la gente. Tutto era immerso in un irreale e soffocante silenzio. Per poco, esistette solo quell'uomo bruno. La sua esistenza schiacciava anche quella di Eren, che non si considerava. C'erano solo i suoi capelli corvini, la sua pelle bianca e il suo sguardo duro. C'era solo la sua mano, artigliata con forza alla sbarra di metallica sopra di lui, per non cadere. E c'erano i suoi occhi. Assottigliati severamente, eppure così belli. Eren non capisce perchè, ma gli infondevano disagio. Non riusciva a mantenere lo sguardo che ora anche l'uomo gli stava rivolgendo. Non riusciva a capire cosa stava pensando anche lui, con quel volto accigliato. E soprattutto, non riusciva ad intuire cosa avevano visto quegli occhi, due laghi scuri e profondi. Più che a laghi, sembravano pozze di vischioso petrolio; lo trascinavano al loro interno, sempre più a fondo, perpetuando il disagio e l'infondata irrequietezza che si stava insinuando nel suo animo. Senza pietà, ricoprivano ogni suo poro, lo affogavano in emozioni pure. Tutto era nero, come un attimo dopo essersi addormentati e un attimo prima di risvegliarsi. Tutto era scuro. Eren sentiva continuo dolore, immerso in ciò che gli sembravano emozioni negative allo stato più puro, grezzo, senza alcun pensiero o ricordo ad esso collegate. Eren percepì le grida di qualcuno, ma non capì di chi si trattava. Di nuovo, dentro ai suoi occhi, si sentì riempito d'angoscia, si sentì annegare. Eppure, dopo forti crampi causati dal connubio di orrore che aveva appena trovato, sentì un'immotivata ed improvvisa sicurezza pervadergli le membra, ancora contratte, che lentamente si rilassavano, lasciandosi avvolgere dall'oscurità. Quella che fino a poco prima era sembrata un'ingrata morte nel petrolio, si trasformò in un letargo. Si sentì protetto da una mano amica. Si sentì fiducioso. E veniva avvolto dal tepore, sempre più intorpidito e stordito. Ebbe l'istinto di muovere la mano verso il nulla, incontrandone invece un'altra, calda, che la strinse amorevolmente. Le dita erano sottili e affusolate, e lui capì, senza bisogno di spiegazioni o motivi, che era stata quella la mano che lo aveva protetto e lo aveva salvato dall'agonia. Dalle fiamme, dalle urla, dal sangue. Eppure, quelli che sembravano ricordi, non avevano nulla a che fare con lui, né gli sembravano vividi o reali. Eppure erano così familiari, che sentiva gli appartenessero. Solo per poco, gli era parso di vedersi riflesso, di spalle, accanto a quell'uomo, fra le fiamme, le grida, la disperazione, prima che venisse soccorso dalla mano che ora saldamente stringeva la sua, in una morsa possessiva e autoritaria, eppure così piacevole, per lui. Sentì un tocco, lieve, breve, sulle labbra. Queste si infuocarono al venir sfiorate dalle altre, sottili e rosee, piegate in un'espressione infelice. E, dopo aver avvertito le labbra infiammate -in modo così diverso da quello della visione- Eren si rese finalmente conto che il bus aveva appena frenato violentamente, ridestandolo.

 

Gli occhi dell'uomo erano incatenati saldamente ai suoi, e non accennavano a smuoversi, finché le porte dell'autobus non si aprirono, facendo salire un ragazzo alto e biondo, insieme ad un altro studente, anche lui alto, ma moro. Reinar e Bethold. Lo sconosciuto sembrò riprendere atto delle sue azioni, scattando repentinamente verso la porta dell'autobus e scendendo velocemente sul marciapiede. Non aveva avuto il coraggio di parlargli, il castano, eppure non era riuscito a smettere di guardarlo, intensamente, coi suoi occhi chiari. Dopo tutto quello che era successo, non potevano separarsi così. Eppure basto un secondo perché il piede dell'autista scivolasse sul pedale per far ripartire il mezzo, spezzando bruscamente il loro contatto visivo. Quando il moro scomparve dal suo campo visivo, Eren si sentì nello stesso modo di quando lo aveva visto per la prima volta, pochi minuti prima. Il suo cuore prese un battito, per poi fermarsi un istante. E quando riprese a battere, la prima sensazione che Eren avvertì, fu quella di vuoto e desolazione che aveva lasciato lo sconosciuto appena incontrato. Che forse non avrebbe visto mai più. Gli occhi gli si inumidirono impercettibilmente, finché una lacrima non scese solitaria sul suo volto.

 

-...ren. Eren!-

Il momento del risveglio è forse il più buio della giornata. Un secondo prima di destarsi si è nel mondo dei sogni, quel luogo lontano che l'essere umano mai riuscirà ad esplorare, la sfera più misteriosa della nostra vita. Per qualche fugace istante, il buio difende il sogno, le informazioni immagazzinate, dalla loro distruzione e caduta nell'oblio. Ma, quando la luce si insinua fra le palpebre, tutto ciò che abbiamo sognato scompare, come uno spettro la cui esistenza non è necessaria, come un demone del passato che va dimenticato. Quando la luce invade il nostro campo visivo, rendendo gli oggetti sfocati man mano più vividi, reali, concreti, distrugge un intero mondo, relegandolo dove noi non lo troveremo mai. Lentamente, mentre mettiamo a fuoco l'ambiente circostante, riprendiamo coscienza della nostra identità, ci riappropriamo delle nostre preziose memorie e della consapevolezza di esistere e di vivere in questo mondo imperfetto. Questo era ciò che Eren Jaeger si era appena trovato ad affrontare.

-Si può sapere come hai fatto ad addormentarti in cinque minuti?- chiese scherzosamente Reinar, concedendogli una fraterna gomitata fra le costole -che si sarebbe anche potuto risparmiare- e una risata.
-Più che altro...- iniziò Berthold, con un espressione perplessa dipinta sul volto. -...perchè piangi?-
Eren sembrò confuso dalla domanda dell'amico e si passò una mano sugli occhi, umidi.
Stava piangendo. E non ricordava neanche che cosa avesse sognato.
-...Non lo so.- ripose Eren, con la fronte corrugata.
-Bah, non importa! L'importante è che ti asciughi le lacrime prima che arrivi Jean, o ti prenderà in giro per il resto della tua vita.-
Rispose Reinar facendo le spallucce, senza perdere il suo sorriso.

Il castano si asciugò gli occhi ancora abbastanza confuso. Gli sembrava di aver fatto un sogno molto strano.
Eppure, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarlo.

 

Eren Jaeger non credeva nel destino. Non credeva nel fatto che le anime potessero effettivamente essere legate da un qualcosa di superiore a loro. E, in parte, aveva ragione. Le anime, le persone, stabiliscono legami profondi ed indissolubili quando affidano le proprie vite nella mani di qualcun altro, quando offrono la loro completa fiducia, quando decidono di proteggere qualcuno, o quando decidono di combattere insieme. Il sangue, le lacrime e la sofferenza sigillano patti che un sottile filo rosso non sarà mai in grado di creare; e da essi nascono legami che lo stesso filo non sarà mai in grado di separare.

 

 

 

 

 

 

 

.Note
Non li shippo per niente, eppure questa fic mi è venuta dal cuoricino, per colpa di una fanart.
Comunque, veniamo alle cose importanti.
Nonostante l'ambientazione sia non meglio specificata, ho scelto di usare il sistema scolastico tedesco.
A nove anni si sceglie un indirizzo(Hauptschule, Realschule o Gymnasium). In qualsiasi dei tre casi, l'indirizzo va scelto a nove anni e, dato che ho scelto che l'età di tutti i personaggi fosse di quindici anni(cioè quella di Eren)-tranne quella di Levi- sono passati sei anni dall'inizio della scuola insieme.
E' possibile dato che, per un caso o per l'altro, tutte e tre le scuole possono arrivare fino a sei anni. 
Nei primi due casi sarebbe l'ultimo anno, nel caso del Gymnasium invece ne mancherebbero altri tre di dura convivenza. :'D
Come ho già detto la storia mi è stata ispirata da un fanart, dalla lettura di Poe, e dalla mia mente malaticcia.
Perdono.(?)
Comunque, sono abbastanza soddisfatta del risultato.
Forse nascerà un seguito a questa cosa, sì; ma credo che si focalizzerà su personaggi diversi.
Ora che ho preso questa strada mi sono resa conto di quanto potrebbe essere interessante ideare qualcosa per
Reinar, Berthold e Annie. E ci sono un sacco di idee che mi nascono anche per gli altri personaggi. >w<
Tenetevi pronti all'angst. Credo che ce ne sarà tanto.
Uh, forse ho una nuova serie! :'D
Torno nel mio antro oscuro a riflettere!
A presto,
Grot.

  
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