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Autore: Bale    30/08/2013    1 recensioni
La mia fic si ispira alla breve cotta di Neela per Kovac
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luka Kovač
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo guardo. Mi sembra bellissimo.

Riporto lo sguardo sulla cartella che sto compilando, proprio mentre lui alza il suo.

Si sta occupando di una giovane paziente e lo sta facendo con la solita delicatezza, quella calma e tranquillità di cui soltanto lui è capace. Credo che Luka Kovac, oltre ad essere un gran bell’uomo, l’oggetto dei miei desideri e il protagonista indiscusso dei miei sogni più proibiti, sia anche il miglior medico con cui abbia mai lavorato, almeno nei rapporti con il paziente. Ha un tatto, un garbo, una sensibilità incredibili, dovuti forse alla sua educazione. Si nota che non è americano di nascita, si nota in tutto quello che fa e in tutto ciò che dice. Lo si nota nei suoi movimenti, negli sguardi, nel linguaggio, nelle sue parole. Se mai dovessi subire un incidente o roba simile, spero proprio di finire sotto le sue mani.

L’ho visto curare estranei, colleghi, uomini, donne, bambini, persone con ogni genere di male. Lo ha sempre fatto con la stessa passione, la stessa professionalità.

So che è stato in Africa e, a volte, provo ad immaginarlo lì, in una landa dispersa e desolata, sporco e sudato, con pochi strumenti, scarse medicine, attorniato da mosche e zanzare, mentre cerca di salvare la vita ad un bambino, a sua madre, alle vittime di quelle guerre ingiuste e stupide che noi non riusciamo proprio a comprendere.

So che ha rischiato la vita laggiù, so che lo avevano dato per morto, ma alla fine è tornato, ce l’ha fatta.

E’ un uomo indistruttibile, perfetto nella sua altezza, dolce nel suo sorriso; un uomo capace di ritornare persino dalla morte.

Alzo lo sguardo per sbirciarlo ancora e, inaspettatamente, i miei occhi incontrano i suoi. Mi sorride leggermente, delicatamente. Mi fa un cenno con la mano per chiedermi se è tutto a posto. Io annuisco.

Torna alla sua cartella ed io torno alla mia, mentre il mio cuore accelera i battiti.

Lo sento chiedere qualcosa a Sam, con la sua voce bassa e profonda, quasi cavernosa; quella voce che di rado rimbomba in questi corridoi.

E’ un tipo silenzioso, calmo, tranquillo. Non si scompone mai, non  alza mai il tono della voce, nemmeno in situazioni di grave crisi. E’ calmo, misurato, riesce a darti speranza, la speranza che tutto si risolverà in un modo o in un altro.

Alzo di nuovo lo sguardo, ma quando vedo Abby venirmi incontro, lo riporto immediatamente sulla cartella. So che sto arrossendo, lo sento. Non posso evitarlo, è inutile nascondersi. Abby sa della mia cotta e, di comune accordo, abbiamo deciso che è meglio lasciarla passare da sola, perché è qualcosa di passeggero, nulla di più. Un giorno riderò di me stessa per questo, ne sono sicura.

-Hai visitato tu la paziente nella Due?-     mi chiede Abby, costringendomi a sollevare il mento per guardarla in faccia.

Nota subito il mio rossore e, guardandosi intorno con circospezione, capisce immediatamente qual è la causa.

Sorride. E’ un sorriso ironico, sarcastico. Lo so, la conosco.

-Quella con la caviglia slogata?-    rispondo, cercando di tenere l’attenzione sulla paziente della Due.

Abby apre la bocca per dire qualcosa, il suo sorriso ancora al suo posto.

Non ne esce alcun suono. Dopo un po’ la vedo rinunciarci, mentre si limita ad annuire per rispondere alla mia domanda.

-Non ancora-    dico, dopo essermi schiarita la voce    -Ci vado adesso-

-Perfetto-

Abby annuisce e fa per andarsene, senza smettere di guardarmi, senza cancellare dal suo viso soddisfatto il suo sorriso saputo.

A volte la odio, a volte mi pento di essermi confidata con lei; poi, però, incrocio nuovamente lo sguardo del dottor Kovac e tutto ritorna alla normalità.

 
   
 
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