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Autore: painfuleternity    30/08/2013    4 recensioni
Non ero solo morta, ero anche immortale. Pallida, fredda, affascinante, senza emozioni o sentimenti, senza nessuna via di fuga e con un solo scopo: Il sangue. Era la mia unica brama, il mio unico dolore e al tempo stesso il mio unico appagamento. Era come se fosse la vita, quella vera, che non avevo vissuto. Mi era stata tolta e io ogni volta me la riprendevo.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avevo dei capelli neri, lunghi poco dopo il seno, che mettevano in risalto la mia carnagione pallida, quasi bianca, e i miei occhi ghiaccio, di un grigio che sembrava quasi si fosse macchiato con dell'azzurro per sbaglio. Ero alta, e così magra da sembrare fragile, di vetro. A volte avevo la sensazione che la gente non volesse toccarmi per paura di rompermi in mille pezzi, ma dentro ero tutt'altro che di porcellana. Neanche la morte sarebbe riuscita a spezzarmi. Ormai l'avevo vista e rivista, l'avevo causata, l'avevo imposta, e la stavo vivendo. Non ricordavo che sensazione si provasse dopo la morte, o dopo la vita. La rabbia, l'odio, l'amore, non significavano nulla. Non ricordavo neanche cosa si provasse a provare qualcosa. Forse era questo a rendermi così fredda, gelida, sia fuori che dentro. O forse era  l'assenza di calore, i raggi del sole non battevano sulla mia pelle da ormai cinquecento anni.  Non ero solo morta, ero anche immortale. Pallida, fredda, affascinante, senza emozioni o sentimenti, senza nessuna via di fuga e con un solo scopo: Il sangue. Era la mia unica brama, il mio unico dolore e al tempo stesso il mio  unico appagamento. Era come se fosse la vita, quella vera, che non avevo vissuto. Mi era stata tolta e io ogni volta  me la riprendevo. 

Avevo conosciuto un ragazzo a New Orleans, quando ero ancora umana. Umana e ingenua, nonostante avessi quasi diciotto anni. Credevo di essermi innamorata di lui dal primo momento che lo vidi. La sua pelle sembrava così pura, bianca, di un pallido che pareva dargli luce. E i suoi occhi erano l'oceano, azzurri ed intensi, si abbinavano maledettamente bene ai suoi capelli biondi, quasi tendenti al bianco, che portava arruffati. Davano l'idea di essere l'unica cosa in disordine in mezzo alla perfezione di quei lineamenti. Lo avevo trovato in un prato la notte delle nozze di mia sorella. Mi ero allontanata e lo avevo visto a terra. Ero spaventata ma non volevo scappare, il suo viso era quello di un angelo, non mi avrebbe fatto alcun male. Corsi verso di lui cercando di svegliarlo fin che non vidi che si riprendeva.
«Che ci fa qui? Dovrebbe allontanarsi.»
Lui sorrideva e cercava di rispondermi con fatica.
«Sei tu che dovresti allontarti da me.»
«Perché lo dice?»
«Fallo!»
Mi aveva risposto con freddezza e il suo sorriso ero improvvisamente scomparso.
«E' ferito?» Gli chiesi senza ascoltarlo, nonostante il suo tono mi avesse messo timore.
Lui girò la testa quasi disturbato dalle mie domande, io mi inginocchia accanto a lui e lo girai verso di me, affondando la mano destra nei suoi capelli umidi. Era bellissimo. Mi ritrovai a sfiorargli il viso con le dita senza neanche accorgermente, in quel momento lui mi guardò negli occhi e un attimo dopo immerse i canini nel mio polso. Provai una sensazione di dolore e di sollievo allo stesso tempo, sentivo il sangue scivolare tra le vene del mio braccio per poi concentrarsi dove lui mi aveva inciso, in quel punto sentivo un male agghiacciante, come se mi avessero trapassato con un oggetto appuntito. Ero così attenta a quello che stava succedendo dentro di me che non feci quasi caso a quello che stava accadendo davvero. Solo quando lasciò la presa me ne resi conto, la sua bocca semichiusa lasciava intravedere i denti aguzzi, era piena di sangue. Aveva gli occhi circondati da un rossore e le pupille erano così piccole che sembrava quasi non le avesse. Era mostruoso, ma nel suo viso c'era qualcosa di attraente, non avevo mai visto una cosa del genere e non avevo mai provato quello che stavo provando, avevo paura, volevo scappare, ma mi trattenevo lì perché ero affascinata da lui.
«Vattene!» Mi urlò mentre toglieva il mio sangue dalle sue labbra.
Voleva spaventarmi, farmi andare via, ma non voleva uccidermi. 
«Non ho paura. Vieni con me.» Gli porsi la stessa mano che lo aveva sfamato.
Lui mi guardò negli occhi e ci sollevammo da terra. Si stava fidando di me, e allo stesso tempo io mi stavo fidando di lui.

Lo avevo portato nella mia stanza e lo avevo fatto distendere sul letto. Nessuno si accorse di noi, eravamo entrati dalla parte opposta del giardino. La casa apparteneva a me e Jorunn. Io e mia sorella eravamo tutto ciò che rimaneva della dinastia dei Van Der Weiss. La nostra famiglia era vissuta in Europa, ma quando la peste sterminò la popolazione solo i pochi che riuscirono a raggiungere l'America si salvarono. Noi eravamo tra quelli che si erano potuti permettere il viaggio, così io, mia sorella e mio padre ci trasferimmo a New Orleans, ma poco dopo morì anche lui, lasciandoci tutto ciò che aveva. 
«Io sono Dimitri.» Mi disse dopo essersi sistemato il cuscino.
«Rebekah.»
«Mi dispiace per prima, non avrei dovuto spaventarti.»
Ero seduta accanto a lui e continuavo a fissarlo accennando sorrisi, ma dalla mia bocca non usciva nulla di concreto. Lui invece aveva così tanto da dire. Passò la notte a raccontatmi chi era. 
«Per la prima volta» disse «ne parlo con un mortale.»
Ed io ero così affascinata. Passai tutto il tempo a pensare di non aver vissuto niente, senza sapere che quello sarebbe stato l'ultimo mese in cui avrei, invece, vissuto davvero. Solo dopo aver perso la mia umanità vidi quello che mi aveva detto quella notte come il nulla. Aveva viaggiato in Russia, in Europa, in America, ma senza eccitazioni, aveva lottato in battaglie, guerre o piccoli conflitti senza nessuna soddisfazione, e aveva vissuto quattrocento anni senza gioia, senza speranza, senza perdono, solo con la sua eternità, costretto a scappare dai suoi perenni diciottanni.
  
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