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Autore: Efestiandro_    31/08/2013    1 recensioni
Vorrei liberarmi di questo fardello che porto sul cuore, di questo dolce fardello che costituisce il mio sorriso e il mio dolore, che da' voce al mio respiro e agli incubi la notte. E se sei disposto ad ascoltare, la mia musa saprà narrarti le vicende che riposano sul fondo del mio animo.
«[...] Quel ragazzo che portava il mio nome.
Quel ragazzo che ero io, e non c'era altro modo per descriverlo.
Avrei potuto essere un fantasma per loro, e in effetti mi trattavano come se fossi qualcosa di sovrannaturale.
Ero un bel ragazzo, questo lo sapevo, la dea Venere mi aveva modellato con le sue stesse mani, con la passione e la lussuria con cui due amanti fanno l'amore.
Non era questo, però, a stupire chiunque e spingerlo a guardarmi con curiosità crescente ad ogni movimento. »
{Tratto dal capitolo 1.}
Genere: Horror, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Jared Leto, Shannon Leto
Note: Cross-over, Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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{Ciaao a tutti! Niente, vorrei solo augurare buona lettura a tutti e scusarmi per eventuali orrori. 
Ringrazio in anticipo chi si prenderà la briga di leggere il mio sfacelo mentale progredire sempre più. Sono sempre qui, contattatemi come volete, anche per riempirmi d'insulti.
Non ho mai capito perché bisogna scriverlo ma lo faccio ugualmente: Jared, Mikey, Perrie, Gerard, Shannon, non mi appartengono come personaggi, sono persone REALI (maddai...). } 


 

1). Salvo un principe dall'orco cattivo. 

 
 

Come un mattone dopo un mattone forma una cattedrale e un respiro dopo un respiro forma una vita, un passo dopo l'altro mi avvicinava alla mia scuola.

Un nuovo anno stava iniziando, così come le foglie stavano iniziando a cadere dagli alberi, altre ancora tenacemente attaccate al proprio ramo come eroi di guerra, formando un morbido tappeto che scricchiolava sotto i miei piedi, rilassando la mia anima fin troppo tormentata. Presi il mio pacchetto di sigarette dalla tasca della tracolla, e con pochi gesti fluidi ne portai una alle labbra, stringendola saldamente tra esse prima di accenderla con l'aria di chi la sa lunga sulla faccenda. 

Le nuvole nere si stavano addensando nel cielo, come a voler dare il benvenuto agli studenti e al nuovo anno di liceo che si stava affacciando timidamente, poi sempre con maggior prepotenza, alla loro porta. Una goccia mi cadde sul naso, facendomi alzare gli occhi cerulei al cielo plumbeo. Un'altra goccia mi bagnò il labbro superiore e un'altra la fronte. Sorrisi, prendendo delicatamente la sigaretta tra due dita e inspirando il fumo. Chiusi gli occhi, rilassandomi, mentre le gambe mi portavano sulla loro strada, che pretendevano diventasse la mia.
La pioggia mi cadde sulle palpebre e sulle guance, leggermente all'indentro per tenere il fumo in bocca. 
Una folata di vento mi penetrò sin dentro le ossa, attraversando gli strati della mia pelle come un fendente, facendosi prima strada attraverso il mio cardigan di lana, fino ad arrivare alle corde del mio cuore, provocandomi un brivido che nacque alla base della mia spina dorsale. Aprii gli occhi ed espirai lentamente il fumo, sentendo il muscoli di tutto il mio essere fremere, felici di accogliere l'autunno alla vecchia maniera. 
Attraversai il cortile della scuola, i musi lunghi e i sorrisi intimiditi di chi aveva messo l'apparecchio quell'estate, gli zaini colorati come coriandoli a carnevale e le ragazze infreddolite, le racconti che parlavano di un'estate finita troppo presto e sospiri di coloro che stavano aspettando di vedere il viso che tanto attendevano, con il volto assonnato che bramava un'altra goccia di caffè. 
Attraversai il muro di studenti che si erano radunati lì, senza l'effettiva voglia di entrare, come il respiro di un bambino addormentato, che esce idilliaco dalle sue labbra rosee, mentre i genitori non si capacitano ancora di quel miracolo. 
Brusii si alzavano al cielo, occhiate rivolte a quel ragazzo tanto strano, con gli occhi pieni di cielo e una predilezione per i colori scuri, i capelli che gli sfioravano la base del collo con le loro punte rosse, neri come fili di notte, tanto che c'era da chiedersi se la luna non li avesse tessuti direttamente dalla volta celeste da cui era circondata, e il passo di qualcuno che non ha nessun affare in sospeso col mondo, il passo di colui che può permettersi di non camminare, bensì di fluttuare ad un passo da terra. 
Quel ragazzo che portava il mio nome.
Quel ragazzo che ero io, e non c'era altro modo per descriverlo. 
Avrei potuto essere un fantasma per loro, e in effetti mi trattavano come se fossi qualcosa di sovrannaturale. 
Ero un bel ragazzo, questo lo sapevo, la dea Venere mi aveva modellato con le sue stesse mani, con la passione e la lussuria con cui due amanti fanno l'amore. 
Non era questo, però, a stupire chiunque e spingerlo a guardarmi con curiosità crescente ad ogni movimento. 
C'era che, oramai da quattro anni, avevo rifiutato la compagnia di ogni ordine sociale si formava in quell'universo a sé stante che era il liceo. Chi addirittura nella mia stessa classe, passava per quei corridoi non avendo idea di che suono avesse la mia voce, il timbro, l'intonazione. 
Del resto, io mettevo del mio. 
Avete tutti presente la gerarchia sociale a cui ho accennato prima? 
Il gruppo di amebe tutti muscoli, qual'erano i maniaci di sport, imbottiti  di anabolizzanti, anche il mio cane li avrebbe battuti a scacchi. E io non posseggo un cane. 
Rifiutai educatamente l'invito di pranzare al loro tavolo.
Poi c'erano coloro che indossavano il nero per moda, perché snellisce, pezzi di metallo inutili infilati a forza nella loro pelle, pronti a proclamare quanto la vita facesse schifo e dipingersi come martiri, che soffrivano ogni tipo di pena per cui avevano una lametta infilata in tasca, a mo'di coltellino svizzero. 
Rifiutai educatamente l'invito di pranzare al loro tavolo.
La setta satanica di ragazze sulla bocca di tutti, atteggiate a barbie di grandezza naturale, s'incastravano perfettamente agli sportivi, con i loro capelli tinti, le ciglia finte e i sorrisi falsi di chi pretende il tuo amor proprio, la tua dignità e, perché no, anche la tua anima, su un piatto d'argento, dove la bellezza esteriore conta come legge non scritta.
Rifiutai educatamente l'invito di pranzare al loro tavolo e di uscire.
Ognuno di loro e nessuno mi voleva, bramava conoscere cosa il mio sguardo assente nascondesse, cosa le mie labbra sussurravano e di squarciare l'alone di mistero che mi circondava, come un'ombra, un mantello silenzioso nella notte senza luna. 
Già al primo passo sulla soffice moquette grigiastra della hall della scuola il calore mi accolse nel suo protettivo abbraccio e per un piccolissimo attimo, riempendomi i polmoni d'aria, mi sentii a casa. 
Feci un tiro della sigaretta che giaceva calda tra le mie dita, incerta se scivolare via verso un nuovo futuro o rimanere saldamente nella mia morsa, per la solita routine quotidiana. La posai delicatamente tra gli spiragli del mio armadietto, per poter inserire liberamente il codice del lucchetto con rapidi movimenti del polso e aprirlo. I miei poster, le mie foto, i miei post-it,  ancora attaccati all'interno, sopravvissuti per miracolo all'estate e alla solitudine della scuola chiusa, se non per i brevi controlli di tanto in tanto da parte degli addetti. Svuotai con calma la tracolla, riponendo ogni libro nell'apposito ripiano dell'armadietto, per poi  in quell'angusto spazio in basso a lei riservato, con numerosi e fastidiosi rumori metallici che fecero gridare pietà alle mie orecchie. Non mi ero accorto che durante tutto quel tempo una figura mi stava osservando appoggiata a braccia incrociate agli armadietti dietro di me, con  gli occhi di un azzurro tendente al blu, completamente diverso dal mio se non per qualche sfumatura, i suoi capelli biondi terminavano con ciocche di un rosa acceso. Ricordai con un sorriso del giorno in cui andammo insieme a farle, io rosse e lei rosa, io sfumato, in modo che si amalgamasse bene col nero, lei le fa risaltare come uno schiaffo in pieno viso. 
Quel giorno indossava dei guanti di pizzo senza dita, dall'aspetto molto punk con un vestito abbinato al rosa dei capelli e una cintura nera in vita, il tutto terminava con degli anfibi neri. 
Anfibi neri molto familiari. 
Quelli erano i MIEI anfibi neri. 
Quando i miei occhi scivolarono in basso realizzando questo particolare, scossi la testa divertito e rassegnato allo stesso tempo. Si passò una mano tra i capelli, Perrie, e mi si avvicinò, le labbra curvate in un sorriso abbellito dal lucidalabbra.  
Avrebbero benissimo potuto scambiarci per fratello e sorella. La stella pelle diafana, come quella di una bambola di porcellana che si teme di rompere, quell'affinità tipica di chi si conosce da molti, troppi, anni, quella che ti porta a conoscere l'altro quasi meglio di sé stessi, gli stessi occhi chiari e lo stile punk-rock, la predilezione per il nero. Posso giurare di non aver mai visto Perrie con uno di quei vestiti dai colori pastello, pieno di fiori, nastrini colorati, che tutte le ragazze si ostinavano a sfoggiare con finta e tirata classe. Lei era unica, in principio dal nome, e durante i mesi invernali viveva quasi più a casa mia che dai suoi. Sarà stato perché il mio appartamento era mio e mio soltanto, arredato con lo stile che mi caratterizzava, o forse perché studiare insieme era parecchio più piacevole che portarsi dietro quel fardello da soli, nonostante lei fosse di un paio d'anni più piccola di me, fatto sta che piombava da me nelle ore più impensabili, con qualche schifezza da mangiare e una faccia da cucciolo completamente inutile, perché la farei entrare anche se la CIA fosse alle sue calcagna. Se devo essere sincero, al contrario di quello che molti penseranno, non ci ha mai sfiorato l'idea di essere una coppia intesa come fidanzatini mielosi. Ci piace stare così, in questo equilibrio che abbiamo creato con sudore e parole vane, dove anche un insulto può risultare il più dolce dei complimenti. Semplicemente, siamo fratelli non di sangue, ma di spirito. E pensare che ci siamo incontrati per caso, su un autobus. Un autobus che stavamo per perdere entrambi, e uno scalino su cui abbiamo poggiato il piede entrambi, rischiando di perdere l'equilibrio. E mi sembrava strano, quasi irreale, che lei fosse ancora lì a sorridermi con quel filo di trucco, dopo tutti questi anni.
Chiusi l'armadietto mentre lei si appropriava della mia mezza sigaretta e l'accompagnai verso la sua aula. Come tutti, quel giorno, anche lei sentiva il bisogno di parlare del caldo e dei mesi estivi passati. 
Come faceva ad abbronzarsi così tanto ogni anno? Se il segreto era davvero mangiare carote, ne avrei fatto subito scorta. Ogni anno, a settembre, ero pallido come al solito, nonostante le scottature nascoste sotto giacche e maglioni. 
Mi raccontò di essere stata a Nizza, con "mia zia, Jared, quella che viene dall'Australia, te la ricordi, Jay? Quella che si porta sempre gli yogurt in valigia!" Scoppiai a ridere pensando ad un borsone rosa pieno di yogurt. Un'altra cosa da ammettere era la sua stravagante famiglia. Prozii, cugini e zii sparsi per il mondo. 
"Ho scritto i nostri nomi, Jared, li ho lasciati lì in Europa e noi andremo a ripassarli. Me lo prometti?" Mi chiese con gli occhi grandi da bambina, posando la schiena allo stipite della porta, una volta giunti alla sua classe. Le posai un leggero bacio sulla guancia.
"Te lo prometto". Ci salutammo così, con dei sorrisi, poi le sparì nella sua aula ed io continuai per la mia strada, diretto al piano di sopra. Di norma avrei continuato a guardare dritto difronte a me, o magari avrei tenuto leggermente gli occhi bassi, fingendo di osservare gli zaini variopinti della massa di adolescenti accanto a me. Ma non in quel momento. Un singolo rumore mi fece voltare, con un piede poggiato lievemente sul primo scalino della rampa di scale e i muscoli tesi, la testa leggermente inclinata, come un cervo che ascolta il vento. Mi ci vedevo bene in un cervo. 
Di nuovo quel rumore, come di vetri infranti, mi diressi a passo di marcia verso il corridoio secondario, quello adiacente alla palestra... E alla piscina. Sudori freddi mi percorsero la schiena per qualche attimo, mentre i neroni riprendevano le normali funzioni e la vicina dentro la mia testa mi ricordava del perché ero lì. 
Poi li vidi. Un gruppo di ragazzi, ad occhio e croce della mia età, racchiusi attorno a qualcosa.
'O a qualcuno' suggerì la stessa vicina di prima, mentre con tutto me stesso speravo che non fosse così. Speranze vane, accertai non appena mi fossi avvicinato abbastanza, quasi automaticamente. Un ragazzo con lo sguardo basso e gli occhi spenti, quasi avesse perso la gioia di vivere, uno degli altri aveva il suo zaino.Gli occhiali gli erano scivolati sul naso mentre lo spintonavano con risate di scherno. Il sangue iniziò a ribollirmi nelle vene per quello sconosciuto, strinsi i denti e mi fiondai sul braccio del più grande, affermandogli il polso prima che potesse spingerlo nuovamente. 
Le ginocchia mi tremavano per quella rabbia mai provata prima, nata chissà da dove. 
"Ora basta". Posai gli occhi in quelli del bullo di cui stringevo convulsamente il polso, mentre con l'altro braccio stringevo i miei libri come se fossero stati un salvagente e io in alto mare, uno sguardo di fuoco, che non ammetteva repliche. 
Stavo disperatamente tentando di costruire attorno a me un muro di sicurezza, di costruirmi un'effige degna degli eroi epici medioevali, che con l'armatura scintillante e la spada in pugno erano pronti a salvare la povera principessa in balìa del drago cattivo. Solo che questa volta la principessa... Era un lui e il cavaliere non era nemmeno stato capace di salvare sé stesso. Mi strinsi mentalmente nelle spalle, cercando di impersonificarmi in Robin Hood. Ma forse nemmeno lui sarebbe stata una buona metafora. 
Raddrizzai la schiena, alzai il mento, recitando così bene di una calma che non avevo, che stavo quasi per convincere anche me stesso. Immaginai un palco, le quinte e gli spettatori col fiato sospeso, il copione che affermava categoricamente che avrei vinto, perché il bene vince sempre sul male. Ma la' fuori le guerre infuriavano, innocenti venivano uccisi e qui non eravamo ad una recita delle scuole medie. 
Troppe sensazioni insieme: già assaporavo il crollo emotivo che ne sarebbe seguito. E il mal di testa. E il mal di stomaco. E le mie pillole molli, che oramai erano entrate nel quotidiano. Avrei anche potuto dar loro un nome. E la stanchezza per questo ciclo che poi sarebbe riniziato. 
Mi ridestai dalla mia rete di pensieri che era durata poco più di una manciata di secondi, il battito d'ali di una farfalla, e ripresi lo zaino dalle mani del bullo, lasciando il polso del ragazzo. Era robusto, le spalle larghe e se fossi stato anche io un ragazzo di prima, probabilmente mi sarei fatto sotto. 
"Ci rivediamo presto, Leto." Allungò una delle sue enormi mani come per darmi uno schiaffo, che atterró sui miei libri, facendoli sparpagliare ai miei piedi. Mi chinai più stanco che irritato a raccoglierli, mentre i bulli si diradavano. Non m'importava come quello lì sapesse il mio nome, non m'importava della velata minaccia, nemmeno di arrivare tardi in classe. Ero solo... Stanco di essere stanco della mia vita. Ed era solo il primo giorno di scuola. 
"Io sono Mikey" disse il ragazzo. Sollevai lo sguardo dal libro che avevo appena raccolto: ora i suoi capelli erano più ordinati e un sorriso ornava il suo viso, mentre gli occhiali erano tornati al proprio posto, lo zaino era scivolato silenziosamente dalle mie mani alle sue e mi stava porgendo il mio quaderno, al posto di offrirmi una banale stretta di mano. 
Ricambiai il suo sorriso e nel momento in cui le mie dita sfiorarono le sue per riprendere il quaderno, la stanchezza sparì dalle mie spalle come la polvere soffiata via da un libro. "Quanti anni hai?" Lasciai scivolare dalle mie labbra. 
"Sono al primo anno." Rispose continuando a sorridere. Strano, io al suo posto mi sarei dato un pugno nell'occhio. Ma forse mi era troppo riconoscente per l'atto di eroismo appena avvenuto. Un classico, prendersela col nuovo arrivato.
Mi rialzai, una volta in possesso di tutti i miei libri, ma comunque con la vaga sensazione di aver dimenticato qualcosa. Feci per tornare sui miei passi, il tempo di allontanarmi di qualche metro, che la sua voce mi richiamò all'attenzione. 
"Hey, aspetta!" Mi voltai, camminando con il petto rivolto verso di lui. "Non mi hai detto il tuo nome..." Il suo tono mi ricordò quello di un cucciolo smarrito. 
"Jared." Risposi sentendo il bisogno di rovinarmi la salute con una sigaretta.
 
Arrancai cercando di seguire le lezioni fino all'ora di pranzo. Sapendo che il mio preziosissimo astuccio era in mano ad uno sconosciuto non facilitava le cose. Ecco a cosa era dovuto il presentimento di aver dimenticato qualcosa, scoprii con orrore appena arrivato in classe. Resistetti sul momento all'impulso di sbattere ripetutamente la testa sul banco recitando la Divina Commedia, promettendo a me stesso di ritrovare il ragazzo. A meno che non mi avesse trovato prima lui. 
Siccome raramente il mio sesto senso sbagliava, mi sedetti ad un tavolo vuoto della mensa con la sensazione che sarebbe sputato fuori all'ultimo minuto. Fissai con velato disgusto il mio hamburger e le patatine. Almeno la pizza e il succo di frutta avevano un aspetto migliore, così decisi di iniziare da loro. 
Perrie si sedette difronte a me, senza far rumore, spuntata chissà da dove. Aveva raccolto i capelli in uno chignon striato di rosa, senza una ciocca fuori posto, nonostante facesse abbastanza freddo, troppo per i termosifoni ancora intorpiditi, dopo mesi d'inutilità. Passammo la prima manciata di minuti così, io con le mie schifezze poco sane e lei sempre attenta alla linea. 
Come un flashback, mi passò l'immagine di lei, alcuni mesi prima, quando a pranzo si sedeva solo con un'insalata e dell'acqua e ogni essere che respirasse lanciò il codice rosso "pericolo anoressia", mentre io indicavo il panino che era costretta a prendere quando uscivamo anche con gli altri, "lo finisci?" Chiedevo sapendo già la risposta. Scuoteva la testa, pallida, e io mi stringevo nelle spalle mentre tutti mi guardavano con orrore. 
Avremmo anche potuto infilarle il cibo nello stomaco con la forza, ma la vita era sua e avrebbe trovato il modo per fotterci tutti. 
Qualcuno disse che le menti più perverse si nascondono dietro ai visi più angelici. Questa è Perrie, un viso d'angelo che ti accoltellerebbe la madre. 
Inizò a parlarmi del gruppo delle cheerleader, dell'indecisione di entrare a farne parte, quando Frank si sedette al nostro tavolo e con un rispettoso silenzio si limitò a salutarti con un cenno della testa, per non interrompere l'angelo dai capelli rosa.
Eravamo una strana coppia, noi tre. Decisamente conoscevo Frank da molto meno di Perrie, ma i suoi occhi nocciola mi avevano fatto venir voglia di andare a sfasciare auto con lui, convinto che la polizia si sarebbe sciolta difronte alla sua disarmante innocenza. 
Se al primo colpo d'occhio sembrava un cucciolo, bastava voltargli le spalle per farlo trasformare nel dannato casinista che era in realtà e la sua abilità consisteva nell'essere un bravo attore agli occhi indiscreti, gli stessi occhi a cui avresti affidato tuo figlio per una, due, serate, anche tutto l'anno. Non lo faceva apposta, semplicemente non era a suo agio nel mostrare il suo vero io davanti agli estranei, e questo lo apprezzavo davvero. Apprezzavo anche le sue chiamate alle tre di notte, quando il suo cervello nuotava nella birra e non riusciva a trovare l'uscita del parco, quando con la voce disperata mi chiedeva di aiutarlo, e il mio cuore si riempiva di tenerezza. Così schizzavo fuori dal letto per correre in suo soccorso, per poi trovarlo a ronfare steso sull'erba umida di rugiada del primo mattino, con i capelli corvini a formare un'aureola alternativa. 
Sarà stata l'abitudine nel salvare Frank dalle grinfie del parco che mi aveva impedito di pensarci due volte quando avevo visto Michael in difficoltà. A giocare contro di me era stato il fatto che avevano a occhio e croce la stessa età. E lo stesso sguardo smarrito.  
Ero talmente preso nei miei pensieri che quando vidi il braccio del moro non tinto come me allungarsi per rubare le mie patatine, non lo vidi davvero e non provai nemmeno a fermarlo. Ero abituato anche a questo. Con un sorriso trionfante divise la refurtiva con la bionda e mi accorsi che la conversazione si era spostata su Cher Becker e il suo improbabile taglio di capelli. Delle volte Perrie ci trascinava in conversazioni talmente poco etero che mi chiedevo come mai io e Frank non andavamo ancora in giro con magliette rosa e phard sulle guance. 
"... Seriamente, Frank, guarda come Cher guarda Jay. Dio solo sa cosa gli farebbe" . 
Il mio nome e la risata di Frankie mi giunsero come un eco lontano ma mi costrinsi a girarmi. 
"Secondo me preferirebbe un nanetto moro di mia conoscenza" una voce ruvida, che stentai a riconoscere come la mia. 
"A chi hai dato del nanetto?!" Sbraitò il più piccolo e Perper non riuscì più a controllare le risate. 
So per certo che se avessi visto la scena da lontano avrei provato il bruciante desiderio di parteciparvi, perché posso assicurarvi che Perrie e Frank erano i migliori amici che potessi avere, nonostante i bulli, nonostante l'unica cosa che incornicerebbe bene la vita di un adolescente del liceo sia un volo nella tazza del cesso, nonostante le cheerleader, il cibo della mensa e i ladri di astucci. 

  
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