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Autore: Mordreed    31/08/2013    5 recensioni
Questa fanfiction è interamente dedicata a Bonnie Bennet. Riprende le vicende dal finale della 4x23. Cosa sarebbe successo se Bonnie avesse solo inscenato la sua morte per fuggire a un destino crudele e ad una città che le aveva dilaniato il cuore e l'anima? Se Bonnie, stanca di essere una marionetta nella mani di creature più potenti di lei, avesse deciso di sparire e ricominciare per riprendere il controllo della sua vita distrutta?
Eccola quindi in una nuova città, la contea di Salem, famosa per aver bruciato sul rogo le streghe nel quindicesimo secolo. Tra strade gotiche e medievali e edifici che profumano di storia antica, Bonnie giunge nella sua nuova città e in una Accademia frequentata da ragazzi con i suoi stessi poteri magici. Nuovi amori, nuove amicizie e nuovi intrighi l'aspettano.
Ma la domanda è solo una: dal passato si può veramente fuggire o siamo destinati ad esserne perseguitati per sempre?
Spero di leggere le vostre recensioni, sia positive ed anche sopratutto le critiche che mi aiutano a migliorare. Spero che la storia sia di vostro gradimento :)
Buona Lettura
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bonnie Bennett, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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"Sorridere è vivere come un'onda o una foglia, accettando la sorte.
È morire a una forma e rinascere a un'altra.
È accettare, accettare, se stesse e il destino"
Cesare Pavese

 

PROLOGO


Osservai il profilo della costa settentrionale dalla mia camera d’albergo.
In lontananza, le luci di una città addormentata, splendevano fioche come stelle morenti.
Sotto il ponte che collegava la città di Boston alla riva opposta, alcune  navi sostavano pigre sotto l’occhio indagatore del grande faro.
“Bonnie”
Mia madre ripeté il mio nome per l’ennesima volta.
“Sei sicura?”
Provai un moto di rabbia e fastidio.
Chi era lei per mettere in dubbio le mie scelte? Era apparsa nella mia vita solo da pochi mesi, dopo anni di totale assenza.
Non sapeva nulla di me, di chi ero e cosa volevo.
Quando se ne era andata ero alta quanto un arbusto e gli unici miei pensieri erano codini e caramelle alla fragola.
Non che fossi diventata poi così alta nel corso degli anni, ma le mie priorità erano cambiate.
Avevo combattuto ibridi la cui ferocità e rabbia non era altro che una maschera per celare la propria solitudine e sofferenza.
Avevo resuscitato morti raccogliendo il potere di mille streghe defunte.
Avevo lottato contro stregoni millenari e deturpato il mio corpo con la magia nera.
La così detta.. espressione.
Detto così sembra quasi che io sia l’eroina uscita dalle pagine di un romanzo di fantascienza.
Mi piacerebbe pensarlo, ma purtroppo non si tratta di un sogno partorito dalla mente di un bizzarro autore.
Questa è la vita vera e io ero letteralmente stata all’inferno per due lunghissimi anni.
Anni in cui avevo scoperto che esseri sovrannaturali come vampiri, fantasmi e licantropi, non popolano solo gli incubi della gente comune.
Ma vivono e camminano con noi sotto lo stesso sole.
Ma chi sono io per giudicare?
D’altronde sono una strega.
“Si mamma. Sono sicura”
Odiavo ammetterlo ma provavo una certa empatia verso di lei adesso.
Quando ero piccola, mi aveva lasciata perché aveva avuto l’opportunità di ricominciare.
Di allontanarsi dalla magia e dal mondo a cui apparteneva.
Adesso io stavo per fare la stessa cosa.
Dopo il diploma, avevo inscenato la mia morte per liberarmi dal clima opprimente e deleterio della città in cui ero nata e che avevo contribuito a difendere per anni.
Mystic Falls non era una calma e pacifica città della Virginia, come i siti turistici su internet la descrivevano.
Sotto la sua patina dorata di tranquilla cittadina di provincia, si annidavano secoli e secoli di storia sovrannaturale. Nel suolo della città, scorrevano vere e proprie linee mistiche del potere.
Perciò quel luogo, era destinato ad essere sempre e per sempre il campo di battaglia tra creature decisamente..non umane.
Dopo tutto quello che avevo affrontato, avevo solo bisogno di fuggire a gambe levate di li.
Quella città e i suoi abitanti mi avevano spinta sul baratro più e più volte.
Se fossi rimasta un solo giorno, ero sicura che sarei morta o peggio ancora.. impazzita.
Avevo bisogno di respirare.
Di riprendere il controllo di me stessa dopo essere stata la burattina nelle mani di stregoni e vampiri.
E per farlo avevo una sola via di fuga: la morte.
Almeno era quello che i miei amici credevano.
C’era voluta una gran quantità di espressione affinché riuscissi a convincere Jeremy, mio ex e fratello della mia migliore amica Elena, che ero morta.
Lui poteva vedere i fantasmi, un effetto collaterale del suo essere tornato in vita dal regno dei morti per ben due volte.
Perciò avevo trasformato il mio corpo affinché risultasse incorporeo come quello di uno spirito.
Vedendo le lacrime sul viso di Jeremy, mi ero sentita così in colpa che stavo per confessargli tutto.
Ma dovevo essere forte per garantire la buona riuscita del mio piano.
Avevo dato a lui il gravoso compito di avvisare i miei amici che ero morta.
Non c’è l’avrei fatta a fingere con tutti loro.
Ero forse egoista o crudele, ma avevo davvero bisogno di andarmene.
Per me. Per la mia vita. Per la mia salute mentale.
Dovevo assolutamente trovare risposta a molte mie domande.
Speravo solo che, dopo un’estate intera, Elena, Caroline e tutti gli altri avessero elaborato il lutto e fossero pronti a voltare pagina.
Sapevo che sarebbero andati tutti via da Mystic Falls.
Elena e Caroline avrebbero cominciato il college e Damon le avrebbe seguite.
Perchè alla fine, la dolce ma volubile Elena aveva fatto la sua scelta.
Era stato il maggiore dei Salvatore a catturare il suo cuore. 
Quei due erano in trappola come mosche in una ragnatela.
Stefan avrebbe lasciato la città alla fine dell’estate.
Ci eravamo liberati di Silas. Di Klaus.
Di tutti quelli che negli ultimi anni del liceo, ci avevano dato del filo da torcere.
L’occasione giusta per ricominciare l’avevamo tutti.
E io avevo scelto la mia.
Forse era un po’ drastica rispetto a quella dei miei amici, ma sentivo che era l’unica strada da seguire.
“Bonnie”
Mi voltai a fissare il viso della donna che avevo ritrovato da poco.
“Io e tuo padre potremmo trovare un’altra soluzione.. non devi fare tutto questo da sola”
Scossi il capo mentre una stupida lacrima cadeva sul mio viso.
“Credevo che proprio tu tra tutti, mi avresti capita. Hai fatto la stessa mia scelta anni fa..”
La sua espressione divenne tesa e cupa.
“Non è la stessa cosa. Loro sono i tuoi amici. Sono stati la tua famiglia per anni”
“Anch’io ero la tua famiglia mamma. Ero tua figlia, sangue del tuo sangue. Ma questo non ti ha impedita di abbandonarmi”
Le mie parole rabbiose la ferirono. Me ne pentii subito dopo, ma mi sentii un po’ meglio dopo aver riversato parte della mia frustrazione su di lei.
“Sai com’è andata a finire poi..”
Riprese mia madre dopo un attimo di silenzio carico di tensione.
“…non è mai un bene voltare le spalle alla magia. È la nostra natura, non possiamo sfuggirle”
Concluse fissando il mio viso con apprensione. Io ricambiai il suo sguardo.
I suoi occhi erano neri come il  manto della notte là fuori.
Ed erano cerchiati da occhiaie scure e profonde.
Dopo aver visto uno ad uno tutti i miei amici trasformarsi in vampiri, sapevo cosa significava.
Abbey era affamata. Non beveva sangue da molto.
“Io non volterò le spalle alla magia. Sai che nel posto dove vado la magia è ovunque. Ma è diversa.. ho bisogno di trovare un contatto con lei che non mi deturpi o mi spaventi. Devo ritrovare la bellezza e l’incanto del dono con cui sono nata. Una magia salutare che non mi distrugga ma che mi aiuti a conviverci senza rischi e pericoli”
Mia madre annuì brusca.
“Molto bene”
Fece sbrigativa incrociando le braccia.
“Vedo che hai deciso. Non c’è più nulla da fare”
Questa volta fui io ad annuire.
Ci fissammo in silenzio per un lungo e interminabile minuto.
Alla fine mia madre annullò la distanza che ci separava e mi raggiunse accanto alla finestra.
Mi abbracciò.
“Buona fortuna, figlia mia”
Ricambiai la stretta dopo un attimo di esitazione.
“Grazie mamma”
Risposi con un filo di voce.
Vidi una lacrima brillare per un secondo nei suoi occhi. Poi lei ci passò una mano sopra con un gesto svelto e meccanico.
Cercava di non piangere.
La verità era che ci provavo anch’io.
Abbey raccolse il suo giubbotto di pelle scuro dal mio letto.
Mi ricordava quello di Damon e per un attimo non potei non sorridere.
Speravo solo che non facesse soffrire Elena. Ne aveva passate tante.
Come me. Come tutti in quella città baciata dal diavolo.
Abbey mi salutò un’ultima volta prima di aprire la porta e sparire.
Io tornai a guardare il paesaggio notturno della costa fuori dalla mia finestra.
Sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto prima di partire.

 
 

CAPITOLO 1
 

L’indomani, la sveglia suonò di primo mattino.
Allungai una mano sul comodino per spegnerla mentre sbuffavo intontita.
Non avevo affatto chiuso occhio quella notte.
Avevo passato le ultime ore, a fissare le luci del porto che coloravano il soffitto anonimo della mia camera d’albergo.
Mi ero appena addormentata quando la sveglia era suonata.
Almeno così mi sembrò.
Mi alzai e mi sciacquai il viso, mentre spalmavo il dentifricio sul mio nuovo spazzolino new yorkese. Mi ero costato dieci dollari, ma ne valeva la pena.
Mi lavai e mi vestii con gesti meccanici mentre la mia mente sonnecchiava e mi malediceva per la notte in bianco appena trascorsa.
Dopo solo mezz’ora ero pronta.
Salutai la mia camera con un ultimo sguardo affettuoso. Era stato il mio covo per settimane.
Scesi nella reception già affollata e pregna dell’odore di Apple Pies e Bagels appena sfornati nella sala ristorante accanto.
“Buongiorno Signorina Bennet. Desidera fare colazione?”
Scossi il capo al tizio delle reception mentre gli consegnavo la chiave, pagavo il conto e andavo via.
L’usciere mi aprì le porte a vetro dell’hotel.
Era un uomo anziano, sulla sessantina, sempre con un sorriso cordiale stampato in viso.
Ma a differenza del tizo perennemente in smoking della reception, il suo sorriso ti scaldava il cuore perché era sincero.
Mi sarebbe mancato quello sguardo affettuoso che mi dava il buongiorno la mattina e mi accoglieva la sera al mio rientro.
Lo salutai con uno sguardo di dolce malinconia, proprio come avevo fatto con la mia camera al cinquantaduesimo piano.
 
Sul ponte della nave l’aria era più fredda e intensa di quella che mi aveva accompagnata per le vie della città.
Il cielo aveva quella tonalità grigio ferro che precede il levar del sole.
Il mare sotto di me era increspato dal vento e rifletteva lo stesso colore metallico del cielo.
Quando in lontananza una lieve striscia verde pallido spuntò all’orizzonte, la nave partì facendo cantare le sirene, mentre una voce urlava dagli alto parlanti le varie misure di sicurezza in caso di pericolo.
Con me avevo solo un piccolo bagaglio a mano, tutto ciò che mi serviva per ricominciare.
La mia destinazione era Salem, Massachusetts.
 
Salem è una piccola isola, situata sulla costa a soli venticinque kilometri a nord di Boston.
La città è anche raggiungibile in auto, treno o bus, grazie al gigantesco ponte che la collega alla terraferma. Ma la nave era il mezzo più veloce.
Solo trenta minuti di viaggio.
Tutto ciò che sapevo di Salem, lo dovevo agli scritti di Nate Hawthorne, il famoso autore de ‘La lettera scarlatta’ nato e vissuto in quella città, e ai vari film horror sui processi alle streghe, che avevamo guardato molto spesso durante i nostri pigiama party da bambine, prima di scoprire che le streghe non sono quelle col naso adunco a cavallo di un manico di scopa.
Caroline ne andava matta. Ad Halloween era quello il suo travestimento preferito.
Adesso però, avrebbe indossato a vita, i panni del vampiro.
Sorrisi scrutando il sole sorgere e macchiare di arancione l’acqua scura dell’oceano.
Non dovevo più pensare a loro.
Era tempo che ricominciassi a vivere.
Quella era la mia rinascita. La mia opportunità.
Caroline ed Elena ne avrebbero avuto migliaia nel corso dei secoli avvenire, ma io ero una mortale.
Mi era concessa solo una vita ed era ora che cominciassi a viverla nel modo giusto.
Strinsi la sciarpa attorno al mio collo, mentre il vento prese a soffiare imperioso, giocando con i miei capelli scuri.
 
Fui una delle prime passeggere a scendere dalla nave.
Attraversai il porto velocemente per non rischiare di perdermi in quel panorama mozzafiato.
La costa era immensa.
La spiaggia era una lunghissima linea sottile di sabbia bianca che abbracciava un pezzo di oceano mozzafiato.
Attorno c’erano interi kilometri di foreste che costeggiavano le varie strade che serpeggiavano fino al centro della città.
Era li che ero diretta.
Presi un bus e per tutto il tragitto osservai la vegetazione del Massachusetts.
Salem insieme alla città di Lawrence, della contea di Essex, ne era il capoluogo.
C’era un’infinità di aceri rossi. Le loro foglie fulve rilucevano nella prima luce del mattino, dando l’impressione di un grosso incendio in corso.
Ma c’erano anche aceri da zucchero, piccoli arbusti di fiori che non conoscevo e alcune querce e pini selvatici.
Il centro della città era collegato direttamente all’Interstate 95 che accoglieva i vari turisti.
Un grosso cartello in legno con ai piedi due enormi zucche di Halloween, recitava:
‘Benvenuti a Salem, città delle Streghe.
Contea: Essex
Stato:  Stati Uniti
Abitanti: 41.361’
Più uno aggiunsi io mentalmente.
Da quel giorno ero a tutti gli effetti una cittadina della contea di Essex.
 
La storia macabra della città si rifletteva in ogni angolo pittoresco di quel luogo.
C’erano pontili con laghetti rocciosi.
Piccoli chioschi che sembravano rubati dalle pagine di un romanza medievale.
E, come testimoniavano le numerose opere architettoniche, Salem aveva raggiunto il massimo splendore, durante l’epoca post-rivoluzionaria.
Le case erano piccole villette a schiera con graziosi giardini ben curati o, verso il lato meridionale della costa dove ero diretta, grandi costruzioni vittoriane con numerose torri e finestroni.
Ero felice nel constatare che nonostante quella città profumasse di storia e di antico, c’erano catene di negozi moderni.
Come Starbucks. Dunkin’ Donuts. International House of Pancakes. Mc Donald’s e persino H&M.
Osservai un cartello sperando mi aiutasse a capire dove fosse il lato meridionale dell'isola.
Sapevo solo che dovevo raggiungere la costa opposta a quella da cui ero sbarcata.
Ma il cartello recitava:
‘National Park Service Visitor Center
Peabody Essex Museum
Salem Wax Museum of Witches’
Bene.
A quanto pareva quella città era ossessionata dalle streghe.
Capii il perché solo quando visitai alcuni negozi di artigianato locale della piazza.
C’erano modellini di streghe ovunque e di qualsiasi materiale.
In legno. In vetro. In peltro.
C’erano calderoni appesi al soffitto. Bacchette magiche, sfere divinatorie e scope con tanto di fiocco sul manico.
Libri di storia locale e di presunti incantesimi. Grimori scritti da chissà quale cialtrone.
Dopo averle bruciate e perseguitate per anni, quella città aveva fatto delle streghe il suo punto di forza.
Il centro di attrazione turistica principale sul quale verteva tutto il merchandising e l’economia dell’intera contea.
Alla fine, uscii sbuffando da quelle botteghe comprando solo una cartina della città con una faccia di una strega e una zucca stampata in copertina.
Dopo tutto lo stress del viaggio decisi di concedermi una piccola colazione.
Entrai da Starbucks e fui sorpresa di trovarlo così affollato sin dal primo mattino.
Nei vari accenti del New England, della gente del luogo e di quelli New Yorkesi, capii che la maggior parte della clientela era composta da turisti.
Attesi il mio turno con impazienza.
Forse era la fame, ma cominciavo a essere più scorbutica del solito.
“Salve. Benvenuta in città!”
Mi salutò una delle commesse con un sorriso mieloso.
Io storsi il naso mal celando la mia irritazione.
Da cosa si capiva che ero straniera? Non avevo nemmeno aperto bocca.
Poi mi accorsi che la ragazza fissava il trolley accanto a me.
Ah. Ecco.
“Che cosa desidera?”
Prima che rispondessi alla sua domanda, lei prese ad elencare il menù come se fossi una bambina di cinque anni non in grado di leggere gli schermi dietro di lei che riportavano immagini e prezzi delle varie pietanze.
“Abbiamo tutto il menù tradizionale Starbucks scontato del 5 %. Ma dato che è nuova qui in città, io le consiglio di provare i nostri prodotti locali. C’è la Magic Potion.. le tira su il morale a soli tre dollari e cinquanta. Abbiamo anche il Witch Drink sempre allo stesso prezzo e il Poison Milk con un solo dollaro in più”
Io aprii bocca per zittire la tipa iperattiva ma lei me lo impedì e continuò imperterrita.
“Naturalmente c’è anche lo Spell Tea e lo Shadow Coffe a soli cinque dollari l’uno. Ma se aggiunse un solo dollaro le diamo lo Wizard Cupcake completamente gratis”
Ma quanti cavolo di Magic Potion e cavolate simili si era scolata quella tizia per essere così ubriaca a prima mattina?!
“Credo che prenderò solo un normale Caffè Nero grazie”
Dissi acida alzando la mia voce in modo tale che la ragazza non si azzardasse a replicare.
Ci provò, ma qualcosa nel mio sguardo la fece esitare.
Si voltò imbronciata mentre preparava il mio caffè.
“Take away”
Le dissi e lei, sempre in silenzio, prese il classico bicchierone bianco con lo stemma Starbucks stampato su e me lo porse leggermente offesa dal mio comportamento brusco.
Pagai cinque dollari e uscì nuovamente nella fredda aria del Massachusetts con l’aroma del caffè che ancora mi solleticava le narici.
Con una mano tenevo aperta la cartina, mentre con l’altra tenevo il mio caffè fumante in attesa che si raffreddasse un po’ prima di berlo.
Alla fine, insieme al bicchiere ormai vuoto, gettai nel cestino anche la cartina.
Non c’era nulla da fare.
Ero a tutti gli effetti una ragazza del ventunesimo secolo non in grado di orientarsi senza la voce di Google Maps.
Così mi arresi e cacciai fuori il mio telefono.
Dovevo assolutamente cambiare l’immagine in Home Screen.
Cinque ragazzi in toga rossa, tra cui io, mi sorridevano abbracciati, stringendo il diploma nella mano destra.
Attivai la connessione ad internet e sfiorai l’app delle mappe.
Sorrisi di fronte al pallino blu familiare, che indicava la mia posizione.
Digitai il luogo in cui ero diretta e l’intero percorso apparve in soli dieci pollici di schermo.
Non era molto distante da dove mi trovavo.
Lo seguii mentre il paesaggio diveniva meno moderno e sempre più antico.
Era come camminare tra le pagine di un libro di storia.
Le case erano vecchie, uscite direttamente dal diciottesimo secolo con i loro finestroni e portici in legno bianco.
La strada era sempre più tortuosa e i negozi, lasciarono il posto agli alberi e piccole panchine con lampioni che illuminavano il sentiero nelle ore più buie.
Dopo aver camminato per dieci minuti finalmente sentii l’odore salmastro dell’oceano che giungeva dalla costa meridionale con la brezza mattutina.
Continuai a camminare sempre con lo sguardo incollato allo schermo del mio telefono, il quale mi informava che avevo appena superato la Salem State University: un imponente edificio in mattoni rosso scuro, circondato da un giardino con panchine e fontane.
Percorsi altri centocinquanta metri, lasciandomi il college alle spalle.
L’unico rumore, a parte quello delle suole dei miei stivali che strisciavano sulla ghiaia del viale, era quello del vento che frusciava tra le rigogliose fronde degli alberi facendo volteggiare le foglie nell’aria fino a condurle sul suolo immobile.
E poi, alla fine, il puntino rosso sulla mappa dello schermo lampeggiò più grosso che mai.
Alzai la testa e guardai di fronte a me.
Con un tuffo al cuore capii che ero arrivata nel posto giusto.
 
Sapevo che a Salem c’erano numerosi castelli sparsi per tutta la contea.
Ma non immaginavo che la mia nuova scuola, la mia nuova casa, sarebbe stata uno di quelli.
La foto nel sito internet, che avevo già visitato a Mystic Falls mentre maturavo la decisione di fuggire via da li, mi aveva mostrato solo una facciata dell’enorme costruzione che mi si parava davanti.
A prima vista, non mi era sembrata tanto diversa da un vecchio college come la Brown o Oxford.
Invece quell’edificio era più vecchio di loro.
La prima cosa che notai fu l’immenso cancello in ferro battuto che sembrava abbracciare l’intero perimetro del campus.
Toccai il freddo metallo che disegnava ghirigori e rose ornamentali che si perdevano a vista d’occhio sparendo nei due angoli principali della strada.
Due enormi sempreverdi indicavano il punto in cui entrare.
Era aperto e subito percorsi lo stesso viale di prima, ma con una notevole differenza: questa volta ero nell’area del campus.
Il viale sorgeva su un vasto giardino che capii circondava, come il mare un’isola, l’intera scuola.
I primi segni dell’Autunno erano evidenti.
C’erano foglie rosse, arancioni e gialle ovunque.
Nascondevano l’erba verde come un tappeto orientale dai colori vivaci.
C’erano panchine e qualche fontana con piccole statue sulla sommità.
Di solito erano putti la cui acqua usciva dalla punta delle loro frecce e cadeva gorgogliando nei vari piani della fontana.
Il campus era silenzioso e ancora addormentato.
Mi godetti la pace e la serenità che quel posto emanava.
La respirai insieme all’aria fredda e all’odore di terra umida. Era un toccasana.
Capii di essere giunta nella piazza principale quando vidi la vecchia costruzione che prima avevo solo scorto in lontananza tra i numerosi alberi che facevano da sipario.
La porta d'ingresso era immensa e sembrava identica a quella di una cattedrale.
Aveva strane incisioni e una maniglia a forma di ferro di cavallo.
Era costeggiata da due piccole torri con finestre strette e minuscole come un manico di scopa.
L’intera costruzione era in pietra forte e le conferiva un aspetto austero e medievale.
Sulla facciata, c’erano mensole in pietra sormontate da archetti a tutto sesto.
Nei vari piani dell’edificio, ne contai almeno cinque, si incastravano grandi finestroni a sesto acuto ornati di un coronamento merlato tipico delle fortezze di fine quattrocento e da una serie di pinnacoli dal gusto squisitamente gotico.
Nonostante la pietra grezza che ricopriva ogni centimetro di quel castello, c’erano decorazioni che ammorbidivano l’effetto severo grazie al loro raffinato gusto bizantino.
Ma quel che più di tutto mi incuteva timore, era l’enorme torre campanaria che si stagliava contro il cielo fumoso in tutta la sua fierezza secolare.
All’estremità della grande torre, sopra il notevole orologio circolare, c’era un ballatoio con piccole finestrelle che lasciavano intendere la presenza di una camera.
Rabbrividii al solo pensiero di trascorrere una notte in quel luogo, a decine e decine di metri da terra.
Mi sedetti su una panchina posta accanto ad un grande masso sulla cui sommità, c’era la statua in bronzo di una donna con un cappello a punta e un lungo vestito scolpito in modo da sembrare ondeggiare nel vento, che mi fissava con sguardo severo.
Dunque era quello il posto in cui avrei abitato per i seguenti tre anni.
Fissai lo striscione in alto sul portone d’entrata, unico elemento moderno in un castello che di moderno non aveva nulla.
‘Accademia Nazionale delle Streghe di Salem’
Ero nel posto giusto.

Per un attimo, mentre gli uccellini cinguettavano salutando il nuovo giorno, realizzai che mi trovavo davvero nel luogo che per mesi avevo fissato sullo schermo di un pc. 
Ero libera.
Libera di ricominciare da capo. Di far nascere la nuova me.
Nuovi amici. Nuovi armadietti. Nuovi insegnanti. Nuove lezioni. Nuove aule.
Il senso di libertà e di euforia pazzesca mi diede le vertigini.
Era filato tutto liscio. Ero a.. casa.
Adesso potevo ricominciare tutto da capo.
Una nuova vita. Una nuova me.
In una scuola dove non dovevo nascondere la mia natura. Avrei studiato accanto a studenti con i miei stessi poteri e che per giunta non conoscevano nemmeno il mio nome.
Potevo essere chiunque e per un attimo mi ritrovai a meditare, con un sorriso ebete stampato in viso, su come sarebbe stata la nuova Bonnie.
Una tipa solare e divertente? Una ragazza timida e introversa? Una matricola silenziosa ma che quando si scatenava diveniva l'animo della festa?
Il mio piccolo momento idilliaco fu interrotto da una ragazza apparsa dal nulla sui gradini principali dell'entrata.
Mi fissò come se fossi un fantasma prima di gridare:
"Oh. Mio. Dio! Ma tu.. tu.. sei Bonnie Bennet!?"
E si precipitò verso di me come una furia mentre la mia piccola bolla di felicità momentanea svaniva insieme all'aspro vento del Massachusetts.

 
 
 
   
 
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