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Autore: ManuFury    01/09/2013    3 recensioni
Ambientare questa storia dopo Gears of War: Judgment.
Garron ha appena concluso il suo periodo di leva presso i COG e sta per abbandonare, non senza qualche rammarico, la squadra Kilo.
(Quarta Classificata al Contest "Preraffaelliti contest" indetto da Carmilla Lilith)
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE!
 
Quest’ One – Shot potrebbe contenere scene coccolosamente sentimentali in grado di far ammalare di diabete lo/a sfortunato/a lettore/lettrice.
Inoltre potrebbe presentare un leggerissimo OOC alla fine.
Io vi ho avvisati, quindi mi esento dal pagare eventuali parcelle mediche. E adesso… buona lettura! u_u
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YOUR HAIR

 
 
Era finita.
Finita!
Pensò Garron con un leggerissimo sorriso a graffiargli il viso sfregiato.
Sì, sì e ancora sì; era finita.
Non la guerra, ovviamente, conosceva troppo gli essere umani per sperare che quel sogno un giorno sarebbe stato una realtà viva e palpabile al risveglio. Non che gli interessasse molto a quel punto, anzi, proprio non gli interessava più niente: ora che Karn era stato sconfitto poteva mandare a quel paese una volta per tutti i maledetti COG.
Che liberazione.
Ciò che era finito era il suo periodo di leva ed era ora. Dopo il casino scoppiato con il missile e del degrado del Tenente Baird, le alte sfere avevano deciso di silurare anche lui, parola adatta, giusto per restare in tema continuò a pensare con quel sorrisetto.
Tempo qualche giorno che le pratiche per la sua dimissione fossero approvate, firmate e controfirmate e sarebbe stato solo più Garron Paduk: un uomo libero e non un dannato militare.
Solo che… sapeva che c’era un ma in arrivo; ma la squadra Kilo gli sarebbe mancata e non poco: il Tenente, o meglio ex Tenente Damon Baird, con il suo cervello fino e le sue battutine pungenti, Augustus Cole, l’enorme colosso campione di Trash Ball, sempre pronto alla lotta e a tirar su il morale della squadra con la sua inesauribile simpatia. E Sofia Hendrick, Cadetto Onyx.
Sofia che aveva il fuoco nei capelli e il mare negli occhi.
Un sospiro sulle labbra tornare nella loro normale posizione neutrale mentre l’ex COG percorreva gli ampi corridoi del Centro di Comando per raggiungere gli spogliatoi e levarsi di dosso la pesante corazza verdina con l’ingranaggio e il teschio, simbolo dei Gears.
Durante il tragitto Garron aveva incontrato qualche altro militare, per meglio dire aveva incontrato le solite teste di cazzo nazionaliste che lo guardavano dall’alto in basso con la sufficienza di ricconi che gettano avanzi a un cane randagio.
Teste di cazzo che avrebbe gradito vedere sul campo di battaglia, per costatare se avevano le palle di attaccare oppure se si nascondevano tremanti in un angolino con la corazza bagnata all’altezza del cavallo dei pantaloni.
Quell’immagine riportò il buon umore e il sorriso sul viso dell’uomo ora intento a premere il grande pulsante verde della porta degli spogliatoi.
Dovevano essere vuoti a quell’ora perché tutti i Gears avevano le esercitazioni serali, invece quando la porta si aprì e lui fece un passo all’interno due occhi così azzurri da parere finiti si alzarono nella sua direzione.
Sofia sedeva sulla fila di panchine metalliche poste al centro della stanza, doveva essersi appena fatta la doccia poiché la pelle era più chiara e lucida del normale, un accappatoio bianco le avvolgeva il corpo snello e quel candore aumentava solo la luminosità del suo viso bello e fresco. I capelli rossi erano sciolti, tirati tutti da una parte con grazia, per essere pettinati lentamente e con una cura da una vecchia spazzola verde. Garron registrò il pensiero che quella era la prima volta che la vedeva senza la coda che le raccoglieva i capelli alla nuca, affinché non fossero un disturbo durante il combattimento. Era anche la prima volta che la vedeva senza corazza e quel suo corpo sembrava ancora più minuto di quanto non lo fosse già di solito.
Sulle prime né l’uno né l’altra si mossero, irrigidendosi nelle loro pose, rimanendo perfettamente fermi come due statue di marmo poste l’una di fronte all’altra, avvolte solo dal silenzio e dal desiderio di contemplarsi per un’eternità che sarebbe stata ben breve.
Un fugace istante e il polso sottile della donna si mosse, portando la spazzola al fondo dei lunghi e lisci capelli, districandoli dai minuscoli nodi che si erano formati tra quelle lingue di fuoco.
“Ancora in circolazione?” Domandò cercando di essere fredda, distogliendo gli occhi dall’altro per portarli alla sua destra, verso il muro dove erano ordinati dei supporti metallici vestiti con le corazze pesanti dei Gears.
“Giusto per qualche giorno. Poi potrò buttare queste dannate piastrine nel cesso e tirare allegramente l’acqua!” Rispose con suo tono profondo e sicuro, restando però sulla porta ad ammirare i gesti della donna mentre si pettinava i capelli. Era un gesto così semplice, eppure sembrava così complesso: pieno di grazia e significati nascosti. Pensieri e ricordi presero a riaffiorare, bussando alla porta della sua mente come fantasmi in cerca di attenzioni.
“Buon per te.” Rispose distaccata.
Garron avvertì chiaramente che voleva aggiungere un “traditore” alla fine della frase, ma non l’aveva fatto. Incredibile come anche il carattere del Cadetto Hendrick fosse mutato in quei mesi di servizio insieme. I primi tempi non esitava prima di vomitargli addosso ingiurie per sfogare la rabbia per la perdita di persone care avvenute a causa di uno come lui. Non si poteva darle torto, Garron era il primo a saperlo, tanto che non raccoglieva mai le sue sfide, non cercava la rissa, non con lei. Questo insieme ad altri erano i motivi per cui voleva allontanarsi il prima possibile dall’esercito che, da nemico, gli aveva bruciato la faccia e portato via l’affetto della famiglia.
A pensarci, lui e lei erano due perfetti opposti: un Cadetto e un Indipendente, entrambi con mille e uno motivi per voler vedere morto e sepolto l’altro e con lui tutto quello che rappresentava solo per soddisfare la propria sete di giustizia, forse erronea, ma pur sempre necessaria.
Quelle considerazioni fecero nascere una domanda in entrambi e nel medesimo attimo con una sincronia che aveva dell’incredibile e del preoccupante.
Erano poi così diversi?
Di nuovo i loro occhi si alzarono in contemporanea, cercandosi quasi con affanno come due potenti calamite. Tempo che i loro sguardi così diversi si sfiorassero e subito arrivò la repulsione, come se quelle calamite si accorgessero solo in quell’istante che i loro poli magnetici erano gli stessi, così… incompatibili.
“Tu che farai, invece?” Chiese Garron per rompere quel silenzio carico d’imbarazzo, muovendosi all’interno del locale dopo aver sostato per un tempo, a detta sua, infinito davanti alla porta.
“Carino a preoccupartene.” Commentò Sofia alzandosi in piedi: aveva finito di spazzolarsi i capelli, ora parevano incredibilmente lisci, piatte lingue di fuoco pronte a esplodere in tutto il loro bruciante furore, un po’ come faceva la donna durante una battaglia.
Considerando l’enorme cazzata che aveva appena detto, ovvero che la carriera del Cadetto era finita nel cesso, Garron valutò quel commento meno freddo di come se l’era aspettato. Gli nacque un nuovo sorrisino sul viso, adesso che le dava le spalle, intento a slacciarsi la corazza per metterla su uno dei supporti metallici vuoti; lì dove, probabilmente, sarebbe rimasta in eterno, dubitava che uno dei maledettissimi patrioti COG avesse il coraggio di indossarla. Forse l’avrebbero addirittura bruciata, poco male, gli avrebbero fatto solo un favore cancellando ogni traccia del suo passaggio.
Impegnato com’era in quell’operazione e sui pensieri che gli vorticavano in testa: per lo più incentrati sulla sua stupida domanda di prima e sulla donna che nemmeno si accorse degli occhi color mare di Sofia si posati su di lui. Doveva ammettere che nemmeno lei l’aveva mai visto senza corazza: le spalle restavano larghe e muscolose, forse un po’ meno imponenti, una maglietta azzurro stinto nascondeva tutti i suoi muscoli perfettamente scolpiti della guerra e la sua pelle bruciata dall’Imulsion, se ne scorgevano solo frammenti sul collo, segni che probabilmente scendevano, correndo lungo tutta una spalla per serpeggiare infine sul braccio robusto.
Chissà com’era ricevere un abbraccio da lui…?
Gli occhi della donna si sgranarono appena a quel pensiero. Si voltò di scatto per nascondere la sua espressione imbarazzata e il leggero colorito delle sue gote.
Che stupidi pensieri che le passavano per la testa. Non erano assolutamente da lei, non lo erano per niente. Come non erano stati quelli di Garron, prima. Era diventato tutto così strano, lo era da quando l’uomo aveva annunciato di lasciare per sempre i Gears. Un brutto colpo per i Kilo, soprattutto per lei.
Un pesante scricchiolio metallico indicò che Garron si era tolto l’armatura e l’aveva riposta con ben poca grazia sul supporto, senza badare alla possibilità che si rovinasse. Sino a qualche giorno prima avrebbe potuto ricevere un richiamo per la poca cura che prestava all’attrezzatura fornita, ma adesso non era più un problema suo, come tante altre cose.
Sospirò, quanto avrebbe voluto che anche Sofia non fosse più un problema suo, sarebbe stato tutto più facile. Abbandonare l’esercito, ora, non sembrava più così piacevole.
Si voltò lentamente verso la donna che ancora gli dava le spalle per nascondere il lieve rossore di poco prima per gli imbarazzanti pensieri che le frullavano in testa.
A Garron andava anche bene così: era da un po’ di tempo che si era reso conto che sarebbe rimasto ore a guardarla fino a stamparsi in testa ogni suo più piccolo dettaglio, ogni sua minuscola imperfezione che avrebbe imparato a riconoscere e ad amare, così come aveva amato dal primo istante i suoi capelli, lisci e fluenti, un mare di fuoco che non bruciava, ma che chiedeva carezze che le sue mani spasimavano di dare.
Sarebbe stato bello, molto, stare con lei, ma non ne era più il tempo e quello sarebbe stato solo un altro capitolo della sua vita chiuso ancora prima di aprirsi. Scosse la testa, basta con i ripensamenti, era il momento di andare.
Dal canto suo Sofia avrebbe voluto dirgli di non farlo, di resta con la squadra Kilo, di restare con… lei; ma non poteva, il suo stupido orgoglio le diceva che era lui, Garron Paduk, a dover fare la prima mossa, come ogni uomo che si rispetti.
Il silenzio c’era di nuovo tra loro due e sapeva essere anche più imbarazzante dei pensieri che vorticavano come uno sciame di vespe impazzite nelle loro menti. La donna riprese a spazzolarsi i capelli, giusto per dimostrare che sapeva fare anche dell’altro oltre che perdersi in ridicole questioni di cuore.
“Sofia…” iniziò Garron senza sapere bene come continuare. Lei si voltò, ruotando in parte il busto e guardandolo fisso mentre ancora la mano alzava e abbassava la spazzola.
“Sì?” Lo incitò a fior di labbra mentre l’uomo aveva tanta di quella voglia di prendere a testate la parete. Non doveva entrare in quel dannatissimo locale dopo averla vista e non avrebbe dovuto parlare con lei. Doveva solamente girare i tacchi e tornare più tardi, per rendere tutto più semplice.
E non avrebbe dovuto… innamorarsi di lei: del suo modo di fare, del suo tentare di mostrarsi dura, della sua personalità così sfaccettata da sembrare un diamante perfetto, del suo grande, grandissimo cuore, delle sue risate, del suo sorriso così bello quando lo rivolgeva a lui e solo a lui dopo una battuta.
Ora guardava la sua bella figura candida, dalla pelle chiara e in testa gli tornavano a galla parole, strofe di una canzone dimenticata.
 
“Mia pallida incantatrice della notte
Alla fine la mia candele si sta spegnendo
La luna invernale sta splendendo triste
Per te, mia incantatrice.”
 
Era una strega, non una semplice donna. No, era una strega, una dolce fattucchiera che gli aveva mandato una maledizione per legarlo a doppio filo a lei, per sempre.
Era una tesi plausibile in fondo, chi se non un’incantatrice avrebbe potuto avere degli occhi così belli e limpidi da saper catturare e ammagliare con un solo sguardo?
E lui, povero e debole mortale, era miseramente caduto nella sua trappola.
Tutti quei pensieri, tristi o allegri che fossero, reali o immaginari furono cancellati nel momento in cui le labbra di Garron si piegarono in un sottile sorriso.
Aveva smosso dei ricordi che credeva cancellati che gli facevano accelerare appena il battito cardiaco, una volta tanto sollecitato da un’emozione. Una vecchia canzone e un’immagine, questo aveva in testa in quel momento; questo voleva condividere con lei.
Si avvicinò alla donna, afferrandola per un polso con una delicatezza che in un uomo della sua stazza non pareva possibile.
“Vieni con me, ti mostrerò una cosa.” Disse raggiante strattonandola piano verso di sé. Sulle prime lei fece forza per non lasciarsi spostare, ma dopo pochi attimi si alzò, lasciandosi condurre.
“Ma devo venire così?!” Domandò facendo notare che indossava solo quell’accappatoio bianco e nient’altro. Dall’altro una sottile risatina.
“Paura che ti possa saltare addosso?” Le sue gote s’imporporarono immediatamente, ma non esitò prima di tirargli un colpetto dietro alla nuca bionda.
“Il solito rozzo Indipendente!” Stridì con disappunto per quelle manifestazioni così barbare.
Garron ridacchiò ancora ma non parlò più, limitandosi a condurre la donna dove voleva lui ovvero verso la sua stanza, ma non per quello che qualunque uomo avrebbe potuto pensare.
I timori di Sofia si dimostrarono infondati visto che non incontrarono nessuno che potesse vederla in quello stato e raggiunsero la stanza dell’uomo senza incidenti di alcun tipo. Era una cabina persino più piccola di quelle che avevano loro in dotazione, il che la diceva ben lunga sulle dimensioni. A differenza di quelle di molti Gears non c’erano fotografie di famiglia alle pareti o oggetti personali a riempire le mensole, tanto che l’ambiente appariva terribilmente spoglio, privo di vita.
Forse quella sobrietà era dovuta al fatto che stava per partire, ipotizzò Sofia, senza esserne del tutto convinta: Garron Paduk era un essere strano, che preferiva nascondere i suoi sentimenti e se stesso dietro alla sua solita figura da burbero Indipendente, quella che avevano sempre dipinto per lui. Anche se lei aveva saputo vedere oltre quella figura, oltre quel carattere scoprendo qualcuno di… nuovo. Una persona che la osservava mentre camminava, che guardava i suoi capelli mossi dalla brezza, che distoglieva lo sguardo appena si rendeva conto che lei lo notava. Questi erano squarci del vero Garron Paduk. Frammenti di un uomo che lei avrebbe voluto scoprire, mostrare a tutti.
Ma non c’era stato né tempo né momenti per farlo: c’era stata la guerra, gli insulti, le divergenze e ancora la guerra, essa aveva scavato attorno a loro una voragine.
Da quando c’era quella così detta “pace” aveva sperato che il vero Garron si facesse avanti, che costruisse un ponte su quel burrone per raggiungerla. Solo che non l’aveva fatto.
Fino a quel momento, almeno.
L’uomo avanzò con sicurezza nella stanzetta non badando alla concentrazione di Sofia mentre rifletteva. Si diresse con passo sicuro verso il letto guadagnandosi così un’occhiataccia di disapprovazione da parte della donna quando tornò a contatto con la realtà. Gesto che gli strappò una mezza risata.
Le lasciò la mano qualche attimo prima di chinarsi davanti al letto, prendendo a trafficarci sotto dove, tra cumuli di polvere grandi quanto un pugno, vi si scorgevano alcune vecchie scatole ammuffite.
“Cos’è che cerchi?” Chiese Sofia osservandolo: le ricordava vagamente un cane alla ricerca di un osso sotterrato.
“Un po’ di pazienza, Cadetto. Ora ti mostro.” Affermò tornando seduto, la sua ricerca aveva avuto esiti positivi a quanto pareva: reggeva tra le mani un grande foglio arrotolato come un vecchio papiro, anzi sembrava quasi una pergamena per il colore ingiallito e trasudava delicatezza. Sicuramente era un foglio molto, molto antico.
Incredibile. Lei non avrebbe mai detto che quel bruto Indipendente avesse simili lati nascosti e quello era uno dei tanti motivi per cui voleva portare alla luce il vero Garron.
La vera sorpresa, però, arrivò quando, tornato in piedi, Garron srotolò il foglio. Quel vecchio papiro si dimostrò la consumata tela di un quadro a dir poco splendido che adesso si apriva in tutta la sua bellezza di fronte agli occhi azzurri e sgranati della donna:
 

 
Sofia rimase quasi a bocca aperta a contemplare quella meraviglia.
Avanzò di un passo per sfiorare con i polpastrelli il dipinto, a costatare che fosse vero e non solo un sogno. Ne ebbe la conferma quando sentì il ruvido del colore sotto alle dita.
“È… è stupendo. -  Affermò dopo un momento. Era un commento banale, ma non aveva trovato di meglio. Alzò gli occhi azzurri verso quelli scuri dell’altro. – L’hai fatto tu?” A quel punto, non si sarebbe più stupita di nulla.
Una risatina sottile.
“No, magari. Mio padre era l’artista in famiglia. Io ero quello buono per la guerra.” Il sorriso che c’era sulle sue labbra era diventato amaro.
“Resta bellissimo.” Cambiò in fretta discorso, non le piaceva vedere l’uomo così giù di morale e quel sorriso spento stonava sul suo viso.
“Mi fa piacere. – Fece una pausa mentre antiche parole gli vorticavano in testa. Versi di una canzone dimenticata che per la seconda volta si affacciavano nella sua mente come fantasmi. – Adesso è tuo.” Decise, senza pensare.
La donna sussultò come se avesse ricevuto una scossa e puntò di nuovo gli occhi chiari nei suoi. Scosse il capo, lentamente.
“No!” Si rifiutò portando entrambe le mani in avanti, sulla tela, a spingerla via, ma con delicatezza così che non si rovinasse. Non poteva accettare un simile dono.
“Sì, invece.” Rispose calmo l’uomo.
“No, no e ancora no. Non posso accettarlo!”
“Ti dico di sì.”
“Perché?!” Chiese scandalizzata da quel gesto e a quelle parole, anche Garron si zittì. Nel silenzio che si era creato dopo quella breve discussione, si potevano udire i loro respiri appena accelerati e i loro cuori che battevano con forza, pompando sangue in tutto il corpo, un po’ più del normale alle gote che andavano di nuovo lentamente ad arrossarsi.
Vero, perché l’aveva fatto?
Quello era l’unico ricordo che aveva di suo padre, l’ultimo quadro che aveva dipinto prima di morire bruciato nell’Imulsion.
Perché aveva agito in modo così avventato?
Non aveva ragionato come di solito faceva il Ricognitore che tutti erano abituati a conoscere. Aveva agito d’istinto, perché?
 
“Mia pallida incantatrice della notte
Alla fine la mia candele si sta spegnendo
La luna invernale sta splendendo triste
Per te, mia incantatrice.”
 
Di nuovo quelle parole.
Ricordava che suo padre cantava sempre quella canzone a sua madre e che lei, a sua volta, la cantava a lui e ai suoi fratelli quando erano piccoli, una dolce ninna nanna che li cullava fino al loro sprofondare nel fantastico mondo dei sogni.
Trovò un significato per ogni verso: l’incantatrice era Sofia, lei l’aveva stregato col suo potere, lei l’aveva legato a sé. La candela che si stava spegnendo era il tempo che avevano ancora a disposizione e che si faceva istante dopo istante sempre più corto. E la luna era il suo cuore, che batteva solo per lei ad un ritmo che gli ricordava gli strumenti musicali che accompagnavano quelle parole, riassunto della sua situazione attuale.
Per non parlare del quadro, che sembrava quasi la sua copia, come se suo padre fosse stato un indovino e avesse deciso di fissare su tela il suo destino.
Queste sarebbero state delle belle parole da dire, ma lui non era mai stato bravo nei dialoghi e si ritrovò con la gola coperta di carta vetrata e la lingua impastata come le mani di sua madre quando faceva il pane.
La guardò, per attimi interminabili, affogando in quegli occhi azzurri come il mare. Voleva un perché? Un perché le avrebbe dato.
Deglutì quasi a fatica a buttar giù quell’impasto che era la sua lingua, sbloccò la gola.
“Così… avrai qualcosa di mio. – Iniziò, porgendole di nuovo la tela. – Per quando me ne andrò. Così mi ricorderai.”
Avvicinò il dipinto così tanto da premerglielo quasi contro l’accappatoio.
Per te, mia incantatrice.
L’espressione di Sofia si fece indecifrabile: stupore, ira, confusione, panico, frustrazione. No, niente di tutto questo, solo rossore sulle guance che le donava un po’ di colore al viso mentre assorbiva quelle parole e cercava di mettere ordine nei mille pensieri che le affollavano la testa come una disordinata unità di stupidi Droni.
“E se… io non volessi che te ne andassi?” Chiese con la voce quasi spezzata, corrotta da una vena forte di tristezza. Una voce così diversa dal suo tono di sempre, non si era mai mostrata così fragile come in quel momento.
E non era mai stata così vicina. Garron aveva avanzato per porgerle la tela, avvicinandosi a sua volta con il corpo, sfiorando quello di lei, bloccando il capolavoro di suo padre tra i loro corpi. Da quella distanza sentiva il profumo dolce dei suoi capelli puliti, il respiro veloce e il battito anormale del cuore.
Quasi senza accorgersene anche lei si fece più vicina, sfiorando sempre con maggior forza il fisico scolpito dell’uomo, assaporandone il profilo dei muscoli, l’odore maschio che arrivava dalla sua pelle.
Garron alzò una mano, a sfiorarle quei capelli così sottili e morbidi, profumati come potrebbero essere quelli di una fata. Ancora meglio… di un’incantatrice. Aveva sognato di poterlo fare da quando l’aveva vista, una carezza, una sola gli sarebbe bastata.
“Devo.” Sussurrò. Doveva andare, ormai non poteva tirarsi indietro, non dopo quello che era successo con il missile usato per uccidere Karn. Non l’avevano perdonato e soprattutto avevano fretta di mandarlo via, per evitare che combinasse altri guai.
Sofia lo guardò con quegli occhi azzurri che sembravano essersi fatti incredibilmente più grandi e più lucidi, come se fosse sul punto di piangere come una bambina. Lui desiderava affogare in quegli occhi, così belli anche in un momento del genere, ma non poteva sopportare di vederla così infelice. Non ci riusciva.
Per questo, dopo aver lasciato cadere in terra la tela con un lieve rumore di carta accartocciata, aprì le braccia, stringendola nel più dolce e caloroso dei suoi abbracci, massaggiandole piano la schiena coperta di brividi per quel gesto così inaspettato.
Un secondo di smarrimento, forse meno, prima che braccia di Sofia risalissero lungo i suoi fianchi, stringendosi all’altezza delle spalle, a ricambiare con affetto quell'abbraccio. Così come aveva sempre voluto e ci aveva visto giusto, era bello farsi stringere da quell’uomo.
Rimasero in quella posizione a lungo, forse ore intere, forse solo qualche minuto, prima che i loro corpi si staccassero abbastanza da consentire alle loro labbra di avvicinarsi. Sarebbe stato un bacio di quelli descritti dei libri d’amore: un bacio agognato, ma dolce come il miele. Di quelli per cui non si deve chiedere il permesso, di quelli che semplicemente si danno a occhi chiusi.
Garron sospirò leggermente, affondando una mano in quel mare di fili rossi che ora poteva accarezzare senza ritegno, attorcigliandoseli alle dita mentre la passione cresceva.
Aveva un pensiero fisso in testa: la candela del loro tempo nell’esercito si stava spegnendo, ma c’era quella della loro nuova vita assieme si accendeva solo adesso e sarebbe stata lunga, infinita come quel bacio tanto desiderato, tanto ricercato.


 
***
 
*Dopo essere certa di non avere il diabete* … oh, HOLA! ^_^
Scusate facevo qualche controllo medico del tutto dovuto… u_u
Che dire?
Nelle storie romantiche io non sono il massimo “e si vede” *coro dai lettori* … no, beh, non esageriamo! ^^’’
Devo dirlo, Sofia mi è stata proprio antipatica durante tutto il gioco mentre Garron, oddio, ma è un orsetto abbracciabile o no? Io lo trovo troppo adorabile con quel suo atteggiamento burbero da duro di turno. Un amorino, per meglio dire! ^^
Va bene… di questa coppia mi sono troppo innamorata (benché lei non la sopporto! -.-‘’ ve l’avevo accennato o sbaglio?) quindi… è possibile che ne nasca ancora qualcosa di molto spupacchiabile! ^^
Allora, allora… che loro li adoro (lei no!) l’ho detto, che ci sarà altro su di loro l’ho detto… mmm… che manca?
Oh sì, dimenticavo: questa storia è stata scritta per il Contest “Preraffaelliti contest” indetto da Carmilla Lilith sul Forum di EFP. Contest a pacchetti di cui ho scelto il numero 8, che mi ha sempre portato bene: conteneva un’immagine e una citazione da usare.
 
---> I pezzi scritti in corsivo appartengono alla canzone “Pale Enchantress” di Tristania.
---> L’immagine (ero troppo pigra per descriverla… u_u) è un quadro: Lady Lilith, Dante G. Rossetti, 1868, olio su tela, 96,5 x 85,1 cm, Wilmington (USA), Delaware Art Museum. 
 
Bene… inoltre, vorrei precisare che l’idea della fissa di Garron per i capelli di Sofia (dimmi te se proprio una stupida rossa mi dovevano piazzare! -.-‘’) è tratta dalla Challenge “La Sfida dei Duecento Prompt” indetta da msp17, con il Prompt 105) Capelli.
 
Ok, con questo è davvero tutto.
Alla prossima storia! ;)
Bacioni & a presto!
ByeBye
 
La vostra ManuFury! ^_^
  
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