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Autore: allanon9    02/09/2013    1 recensioni
Callen torna nella casa dei Rostoff dopo aver ricevuto la foto di lui ed Alina.
Un tuffo nel passato, piacevoli ricordi.
Leggermente angst.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: G Callen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Allanon9

 Spoilers: Post 1x07 Pushback

Rating: Angst, per tutti 

Pairing: Nessuno

Disclaimer: I personaggi citati in questa fan fiction non mi appartengono, ho

solo preso liberamente spunto dalla serie "NCIS Los Angeles" di proprietà della CBS

 

Home

 

Callen ricordava come se fosse stato ieri il giorno in cui, Tessa Martin, l’assistente sociale che si occupava di lui,

l’aveva accompagnato a casa Rostoff.

 

Erano rimasti almeno dieci minuti in macchina perché lei gli aveva dato le ultime raccomandazioni.

“Stavolta comportati bene G., hai quattordici anni e sta diventando sempre più difficile trovarti una casa.” Gli aveva detto triste.

Lui l’aveva guardata con quei suoi incredibili occhi azzurri, intensi e pieni di rabbia.

“Come se fosse sempre colpa mia.” Aveva mormorato lui abbassando lo sguardo sulle sue mani strette a pugno.

“Lasciamo stare ok? Dai scendi.” E l’accompagnò fin sulla porta.

Aprì il signor Rostoff, un uomo alto e biondo sulla quarantina, gli occhi scuri e profondi.

“Buonasera.” Li salutò facendoli accomodare nel salottino.

“Buonasera signore, questo è G. Callen.” L’aveva presentato la giovane spingendolo verso l’uomo.

“Ciao G.” Aveva risposto quello allungando la mano amichevole.

G. aveva guardato quella mano con diffidenza ma memore della ramanzina di Tessa l’aveva stretta.

“Buonasera signore.” Disse semplicemente.

L’uomo gli sorrise.

“Ti presento Alina mia figlia e Kara mia moglie.”

La donna e la bambina, una frugoletta di forse quattro anni, erano anche loro bionde

Ma avevano gli occhi di un azzurro chiarissimo, più chiaro di quello dei suoi stessi occhi. E entrambe gli sorridevano.

“Ciao G.” disse Kara porgendogli anche lei la mano.

“Buonasera signora.” Rispose lui timidamente stringendogliela.

Kara aveva un sorriso aperto, dolce e la sua mano era calda ma asciutta.

“Io sono tua sorella.” Esordì la piccola abbracciandogli le gambe.

G. barcollò leggermente colto di sorpresa poi si abbassò leggermente e le sorrise.

“Oh, ok… ciao sorellina.”

La bimba rise dicendo:” мой старший брат, vuol dire il mio fratellone e io sono моя младшая сестра la tua sorellina.”

G ripeté:” моя младшая сестра , mi piace.”

Sollevata Tessa lasciò i documenti a Rostoff e dopo aver dato un veloce abbraccio a Callen era andata via.

Kara gli aveva preparato una stanza con una finestra che dava sul giardino, c’erano un letto a una piazza e mezzo e un piccolo armadio a muro.

G. aveva fatto un cenno d’assenso con la testa quando la donna gli aveva detto:   

“ Adesso questa è la tua casa G. e noi speriamo che tu ci voglia considerare la tua famiglia.”, perché aveva la gola troppo stretta per parlare.

Aveva sentito istintivamente che lì si sarebbe potuto ambientare facilmente e questo lo spaventava perché, nelle rare volte che

era successo, inevitabilmente lo spostavano subito.

Aveva messo la sua sacca, unico bagaglio che possedeva, nell’armadio ed era tornato da loro.

 

Contrariamente a tutte le sue paure passavano le settimane e nessuno veniva a riprenderlo.

La scuola stava quasi per finire e lui e Alina non facevano altro che giocare in giardino o, mentre lei gli saltellava sulle gambe, parlare in russo.

La bambina gli aveva insegnato i rudimenti della sua lingua natia e poi il padre, Karl, gli aveva regalato un dizionario che lui, nelle notti

in cui non riusciva a dormire, divorava.

G. si sentiva bene tra le mura di quella casa, andava meglio a scuola, aveva qualche amico, aveva preso anche qualche chilo e,

cosa più importante di tutte, si sentiva finalmente protetto e al sicuro.

Kara era una brava donna, amava sua figlia e voleva bene anche a lui senza però pretendere, com’era successo con altre

madri adottive, che lui manifestasse affetto per lei con abbracci o baci o nel farsi chiamare mamma, anzi fin dal primo momento

gli aveva detto “Chiamami Kara se vuoi, signora mi fa sentire vecchia.”

E aveva riso.

Lei capiva che la sua apparente freddezza era solo una difesa e mai lo forzava a fare niente, una sola volta gli aveva

chiesto il significato di quella G., ma avendo visto lo smarrimento che gli si era stampato in faccia, aveva fatto spallucce aveva detto:

“Non importa. Mi piace G.”

Karl, che lui si ostinava a chiamare signore per rispetto, lo coinvolgeva spesso in lunghe partite a scacchi o in chiacchierate tra uomini.

Era Alina però la persona alla quale si era più legato, aveva imparato ad amarla quasi come se fosse stata veramente sua sorella e

lei lo ricambiava.

 

Improvvisamente, quando lui credeva che niente di brutto potesse più succedere, tre mesi dopo il suo arrivo in quella casa,

serena e accogliente, Tessa lo venne a riprendere.

“Mi dispiace G.” gli aveva detto contrita.

Lui l’aveva guardata con gli occhi pieni di lacrime e aveva scosso la testa sconfitto.

“Non ho fatto niente!” aveva detto con la voce rauca e la sacca stretta tra le braccia.

“Oh G. lo so non è colpa tua. Il giudice…” Aveva detto lei cercando di accarezzarlo, lui si era scostato senza lasciarla finire di parlare.

Aveva squadrato le spalle e stretto le labbra in una linea sottile e si era avviato verso i Rostoff che aspettavano davanti alla porta dispiaciuti.

Aveva abbracciato mestamente Alina, che piangeva disperata, Kara che gli aveva sussurrato all’orecchio “Хороший сын удачи

(buona fortuna figliolo) ” e stretto la mano del suo padre adottivo che l’aveva attirato rudemente a sé in un breve abbraccio.

Quindi era salito sull’auto dell’assistente sociale ed era rimasto con la testa voltata verso l’unica casa e l’unica famiglia in cui si

era veramente ambientato finché non erano scomparse dalla sua vista.

“G.” L’aveva chiamato Tessa voltandosi verso di lui.

Ma G. rimase immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, mentre un’unica lacrima silenziosa gli correva giù per la guancia.

 

Seduto su quello stesso letto dove tanti anni prima aveva dormito, Callen aprì la porta dell’armadio.

Inciso nel legno si leggeva il suo nome e una data : “G. Callen ‘83”

Gli passò sopra il dito e un sorriso triste affiorò sulle sue labbra mentre sentiva le lacrime pungergli gli occhi.

Erano tutti morti Kara, il signor Rostoff e adesso anche Alina, ma stranamente lui li sentiva ancora lì, come il primo giorno che lo

avevano accolto in casa loro.

 

Spero che questa storia vi piaccia, io mi sono emozionata nello scriverla.

Sono gradite le vostre recensioni.

 

  
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