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Autore: radioactive    03/09/2013    1 recensioni
Anche lui come Manon era destinato a morire tra le braccia dell’uomo che lo amava, aveva sempre immaginato Magnus seduto vicino al suo letto, con la vecchia, scheletrica, morente e fredda mano di Alec tra le dita ancora affusolate e dorate che si tratteneva dal piangere – ma non osava andare oltre a quel pensiero e gli faceva male immaginare lo stregone riporre tutte le loro foto in una scatola e seppellirla in fondo all’armadio, o in giardino, o addirittura con il cadavere di Alec – anche se non ci sarebbe stato nessun cadavere da seppellire.
Lui era un Cacciatore, dannazione, e come tale non poteva di permettersi di soffrire così tanto. Era la stessa cosa che aveva letto nei verdi, spietati occhi del padre: Alec non era forte, Alec aveva il preciso obbligo di esserlo.

| ante-CoHF/post-CoHF ● Malec ● 2.123 parole circa ● Red: Pieces |
→ trad. titolo: vengo da te a pezzi, così puoi completarmi.
Song-fic basata su due momenti diversi, i giorni durante la separazione di Alec e Magnus e la loro ipotetica riconciliata.
E' tutta colpa di T e t s u_ c c h i, non aggiungo altro. ♡
Genere: Angst, Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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I come to you in pieces, so you can make me whole.

| vengo da te a pezzi, così puoi completarmi |

 

 

 

|| CAPITOLO UNICO like puzzle pieces in your eye.

 

 

«I'm here again, a thousand miles away from you | A broken mess, just scattered pieces of who I am

I tried so hard, thought I could do this on my own | I've lost so much along the way.»

[ Sono di nuovo qui, a migliaia di chilometri di distanza da te | Un disordine interrotto, solo frammenti sparsi di chi sono

Ho provato difficilmente, pensavo di poterlo fare da solo | Ho perso molte cose lungo la strada. ]

 

 

 

Quattro ore.

Quattro ore. E’ questo che si ripeteva lo stregone mentre guardava fuori la finestra, seduto sullo stipite di questa con una gamba a penzoloni all’interno dell’appartamento. La schiena aderiva perfettamente al legno dell’imposta e il freddo lo avvolgeva tutto – ma non gli  importava.

Era stanco, Magnus. Stanco di pensare che doveva solamente camminare per quattro ore per arrivare a Manhattan; stanco di sperare che quelle quattro ore le stesse facendo Alec sui propri piedi per andare da lui. Chiuse piano gli occhi struccati, godendosi la sensazione delle palpebre abbassate e delle ciglia congelate, le sue non erano abbastanza lunghe per sfiorarsi le guance, ma quelle di Alec lo facevano. Sospirò e ritornò a guardare il paesaggio.

Brooklyn era coperta da un sottile manto di neve che rendeva molto più malinconico il tutto, dall’altra parte della camera, la televisione mormorava un telegiornale mondano stanco almeno quanto il Nascosto. Picchiettò sulla sigaretta per far cadere la cenere che si gettò a capofitto verso l’asfalto del marciapiede, poteva farlo anche lui, gettarsi dalla finestra.

Ridacchiò amaramente e tornò dentro la camera, buttando la cicca e chiudendo le imposte, tirando le tende per coprire la calda luce del sole al tramonto. Schioccò le dita ed il camino si colorò di fiamme azzurrine che in poco tempo invasero la stanza di un dolce tepore.

Si sedette sulla poltrona di velluto viola buttando per terra i cuscini in malo modo e chiudendosi la vestaglia blu con eleganti ricami di fiori sulla schiena e sulle maniche.

La stanza profumava di sandalo, come sempre, eppure tutto in quella camera gridava una nome: Alexander. Ricordava le coperte leopardate che il giovane Nephilim gli aveva chiesto di eliminare, alcuni cimeli provenienti da vari sexy shop erano stati riposti in uno scatolone in fondo all’armadio perché Alec si sentiva vagamente in imbarazzo e, paradossalmente, osservato, nonostante i suddetti oggetti non avessero occhi. Si passò una mano sulla fronte e sugli occhi che non avevano più lacrime da versare.

Perché Magnus Bane lo aveva fatto: aveva pianto perché si sentiva vuoto come quando, nel passato, un suo amante gli moriva tra le braccia, portando con sé i racconti dello stregone. E lui era perso, sventrato, senza più nulla. Ricordava perché, dopo la morte della sua prima amante, in Francia, nel 1761 circa, aveva deciso di smettere di dire qualcosa di sé, del suo passato, e dei suoi ricordi: perché alla fine di lui non rimaneva più nulla se non un involucro vuoto e alcune sottigliezze tralasciate durante i discorsi.

Aveva deciso, tempo fa, di non condividere più il suo dolore con la persona che era entrata nella sua vita.

Sarebbe andata bene comunque, si ripeteva. Alec non aveva certo bisogno di sapere dove fosse nato o chi fossero i suoi genitori, quanti amanti avesse avuto e quanti figli avesse visto morire.

Eppure era scivolato tutto via come sabbia, e Magnus si sentiva come se gli avessero portato via una vita senza che lui avesse detto nulla di questa.

Era il dolore che non aveva condiviso che si era moltiplicato e lo aveva investito come un’onda, strappandogli tutto ciò che poteva ritenere buono per lo stregone, lasciandolo con l’amara consapevolezza che, alla fine dei conti, il guaio lo aveva combinato lui.

Come poteva pretendere fiducia da Alec, se il giorno prima gli diceva di avere ottocento anni e il giorno dopo appena quattrocento?

Disfatto, con la stessa fragilità di un vaso appena ricomposto, si trascinò verso il letto con le coperte vecchie di qualche giorno, si stese sul materasso e con un calcio lanciò dall’altro lato le lenzuola e il copriletto – pochi istanti dopo un Presidente Miao angosciato quanto il padrone fece capolino nella stanza e, preceduto dal suo campanellino (anche quello ideato da Alec: «per sapere sempre se arriva!», aveva detto) salì sul materasso accanto allo stregone, acciambellandosi vicino alla curva del collo e iniziando a fare lente e dolci fusa di conforto, come una carezza sulla schiena.

E, ancora una volta, il cuscino si ritrovò a bere le sue lacrime.

 

                                             ◊◊◊

 

Le bottiglie avevano appesantito l’aria con un odore orrendo, e Alec lo sapeva.

Non era mai stato uno che beveva così tanto, si auto convinceva. Gli era certo capitato di bere, e Magnus Bane in casa aveva una scorta infinita di alcolici dai colori più vivaci e invitanti, lo stesso non si poteva dire per il loro sapore che, per quanto particolari, non sempre erano graditi dal Nephilim. Alexander ricordava le sere in cui lo stregone si preparava un bicchiere di assenzio che, per quanto ne sapeva lui, era proibito negli Stati Uniti e si accorgeva frammento di ricordo dopo frammento di ricordo che gli mancava terribilmente il sapore del distillato sulle labbra dell’altro o quel dannato cucchiaio in giro per casa nei posti più improbabili.

Ricordava anche, però, che quando gli aveva chiesto il motivo per cui gli piacesse bere proprio quel liquore lui non aveva risposto – o quantomeno non aveva risposto sinceramente.

Alexander era seduto sul letto, spalle al muro e cuscino sulle ginocchia, la porta era socchiusa e una debole fascia di luce entrava dalla fessura, le tende erano tirate a coprire il sole acceso dalle ultime calde ore della giornata, un libro riposava, chiuso, laddove doveva esserci il guanciale.

Aveva letto tutto il giorno, perché non poteva fare altro. Girò piano il viso affogando la gote sull’ammasso di lana e leggendo il titolo dell’opera su cui aveva lanciato tutta la sua depressione, la copertina di un beige sbiadito e vecchio portava il nome dell’autore in marrone e poi il titolo, più grande, in azzurro e lingua originale: La Dame aux camélias.

La signora delle camelie, si ripeteva, e si ricordava un passo del libro, all’inizio, che recitava più o meno: «Manon era morta nel deserto, è vero, ma tra le braccia dell’uomo che l’amava con tutto l’impeto dell’animo: e quest’uomo le scavava una fossa, la bagnava di lacrime e vi seppelliva il cuore; mentre Margherita, peccatrice come Manon e forse come lei convertita, era morta in un lusso sontuoso, a giudicar dalle apparenze, nel letto stesso del suo passato, ma, ohimè, anche lei in un deserto di cuore, ben più arido e più vasto e più crudele di quello in cui posava Manon.»

Anche lui come Manon era destinato a morire tra le braccia dell’uomo che lo amava, aveva sempre immaginato Magnus seduto vicino al suo letto, con la vecchia, scheletrica, morente e fredda mano di Alec tra le dita ancora affusolate e dorate che si tratteneva dal piangere – ma non osava andare oltre a quel pensiero e gli faceva male immaginare lo stregone riporre tutte le loro foto in una scatola e seppellirla in fondo all’armadio, o in giardino, o addirittura con il cadavere di Alec – anche se non ci sarebbe stato nessun cadavere da seppellire.

Lui era un Cacciatore, dannazione, e come tale non poteva di permettersi di soffrire così tanto. Era la stessa cosa che aveva letto nei verdi, spietati occhi del padre: Alec non era forte, Alec aveva il preciso obbligo di esserlo.

Sospirò pesantemente con le labbra tremanti, strinse le ginocchia e chiuse gli occhi affondando il viso sul cuscino, liberandosi da quella pressione auto imposta solo quando l’aria veniva a mancare. Attorno a lui il disastro era evidente e, proprio come la casa della signora delle camelie, raccontava una storia. Una storia a cui non voleva rinunciare. Sentiva sotto i piedi i chilometri di camminata per l’Europa con Magnus, sul palato i dolci e le pietanze di cui non conosceva l’esistenza, sulla pelle l’odore dello stregone e sul collo il fruscio dei suoi lunghi capelli che amava specialmente quand’erano puliti e senza glitter.

Aveva provato a rimettere assieme tutto, alzarsi sulle sue gambe e camminare, ma gli cedevano le ginocchia dopo soli due passi e allora ritornava sul letto, a leggere di Margherita e del suo bouquet di camelie. Di quei fiori insignificanti – qualcosa di passeggero, superabile, scontato.

Si rese conto, solo allora, che come la stessa Margherita lui sarebbe morto in un letto sontuoso, da vero Cacciatore – ma in un deserto di cuore, ben più arido e più vasto e più crudele.

 

 

«Then I'll see your face, I know I'm finally yours | I find everything I thought I lost before

You call my name, I come to you in pieces | So you can make me whole.»

[ Quando vedrò il tuo volto, so che finalmente sono tuo | Ho trovato tutto quello che pensavo di aver perso prima

Chiami il mio nome, vengo da te a pezzi | Così puoi completarmi. ]

 

 

 

Quando tutto era finito, Alec aveva deciso di ritornare da Magnus.

In realtà non lo aveva deciso, era solo tornato all’Istituto, entrato in camera, spalancato le finestre e raccolto tutte le bottiglie, i vestiti sporchi e quasi ammuffiti, fazzoletti e lenzuola sudice, chiuso tutto dentro un grosso sacco della spazzatura e lasciato fuori la porta, poi era andato a lavarsi e, una volta che era pulito e profumato, aveva messo quel che rimaneva di utilizzabile del suo guardaroba dentro una valigia per poi andare dallo stregone. Il suo Magnus.

Era andato in metro, per fare il più alla svelta possibile, incappucciato nella sua giacca nera. Aveva suonato alla porta e sorrideva tra sé e sé pensando che quella sarebbe stata l’ultima volta, che avrebbe presto riavuto le chiavi e che stava per ritornare a casa sua. Si sentiva elettrizzato peggio di un bambino al compleanno, e la cosa lo imbarazzava e lo eccitava ancora di più allo stesso tempo.

Era così felice, che non riusciva a pensare a null’altro.

Fece gli scalini a due a due, trascinandosi dietro il bagaglio, la serratura della porta era scattata e poi girata, si spalancò grazie ad una mano invisibile e sulla soglia apparve Magnus con i pantaloni del pigia lilla e una maglietta a stampo bianco e verde, i capelli puliti e scompigliati in un meraviglioso groviglio color fondente, gli occhi felini brillavano dalla luce e dalle lacrime e le mani erano ferme lungo i fianchi, immobili, eppure Alec sapeva che ogni nervo del Nascosto tremava tanto quanto i suoi.

Abbandonò la valigia che ruzzolò verso il basso e alzò le braccia, circondandogli il collo così prepotentemente che Magnus si dovette reggere allo stipite della porta per non cadere in avanti con lui.

Non si erano baciati, non ancora. Il Nephilim si teneva stretto al suo collo con il viso sulla spalla, Magnus gli appoggiava con lentezza la mano sulla schiena, mentre l’altra afferrava ancora il legno in una morsa di dolorosa euforia.

«E’ un piacere vederti, Alec» mormorò piano come si mormora un “buonanotte” ad un bimbo dopo una favola. La sua voce sembrava musica nelle orecchie del cacciatore e avrebbe voluto sentirla per tutta la notte e anche quella dopo.

Alexander non aveva risposto, non sapeva cosa dire e non pensava dovesse per forza farlo. Aveva imparato con il tempo che le frasi fatte come il silenzio vale più di mille parole sono frasi vere, e lui ne era la dimostrazione vivente. Si staccò lentamente, posando le mani sul suo petto, gli occhi blu vividi sotto la luce del sole che li avvolgeva, si era allungato per baciargli le labbra e lo aveva fatto con una lentezza di cui non sapeva essere capace, qualcosa che sapeva di “benvenuto a casa”.

Tutti e due erano vasi rotti, caduti da una mensola troppo alta, caduti assieme con i cocci mischiati tra loro. Avevano provato a riaggiustarsi da soli, raccogliendo pezzo dopo pezzo di un puzzle che aveva il colore dei loro occhi, della loro anima, mischiando i rimasugli di Alec con quelli di Magnus e viceversa. Si erano ricomposti nel momento in cui si erano ritrovati, la colla che teneva assieme i frammenti rafforzata e seccata di colpo, e laddove vi era una mancanza, una scheggia mancata, l’altro ci metteva il dito, coprendola.

E l’aria non poteva entrare per rubare quello che vi era dentro il vaso, così come quello che vi era all’interno non poteva fuoriuscirne.

 

 

«I've come undone | But you make sense of who I am

Like puzzle pieces in your eye.»

[ Sono venuto sfatto | Ma hai dato un senso a ciò che sono

Come pezzi di un puzzle nei tuoi occhi. ]

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Non so cosa scrivere, il che è strano, considerando che solitamente mi piace sproloquiare nelle note.

In realtà, vorrei citare Levi, o, per il popolo di EFP “T e t s u_ c c h i” che mi ha sopportato brillantemente mentre finivo questa fic, chiusa nel cassetto circa mezz’ora dopo la sua iniziale stesura e lasciata lì a morire.

Io sono contro l’angst Malec perché-i-due-si-sono-lasciati, per motivi che probabilmente farebbe arrabbiare chi legge, eppure ci sono finita anche io dentro questa cerchia di peccatori. Perché? Perché mi ha ispirato la canzone. Non sono affatto pratica di song-fic (potete benissimo vederlo in He’s my sun, he makes me shine like diamonds., song-fic sulle note di “Young & Beautiful” di una cover Lana del Rey), ma ci ho voluto riprovare, ricamando sulle due strofe ripetute della canzone Pieces dei Red (che consiglio nel caso vogliate scrivere angst ._.).

Come avrete notato, la prima parte della fanfic è la “rottura” del loro rapporto sia da Magnus che da Alec, evitate di dirmi che potevo scrivere “point of view” perché mi irritano oltremodo la loro presenza, preferisco far sembrare chiaramente il punto di vista di un pg il tale piuttosto che spiattellarci su un “pov”.

Anyway, ci sono alcuni riferimenti alle Cronache di Bane e una a Woolsey con l’assenzio che – approposito -  non è un liquore, ma un distillato, ho usato la parola “liquore” come sinonimo giusto perché non trovavo un altro modo che non “stonasse” in tutta la frase ^^ Ed è illegale in America, ma legale negli UK… e Magnus è uno stregone, eh.

Sono desolata che il paragrafo dedicato ad Alec sia “tanto sproloquio e pochi fatti”, ma (e sarò sincera), adoro molto di più scrivere di Magnus che del Nephilim e quindi le cose sono uscite un po’ fuori dai gangheri, ma spero comunque che apprezziate l’opera complessivamente (:

Non ho scritto del loro riconciliamento perché succede in City of Heavenly Fire e preferirei non toccare tasti dolenti, quindi è tutto un po’ nell’ombra, mi dispiace.

Ovviamente, la citazione de La signora delle Camelie è vera, la traduzione è di Francesco Pastonchi dell’edizione sempreverdi della Mondadori.

Non mi pare ci sia altro da dire se non che, per scrivere questa fanfic ho utilizzato la cover in piano della canzone, e ho voluto che la struttura della storia seguisse un po’ la scia della musica, in altre parole vi consiglio di leggerla – o rileggerla – tenendo in sottofondo una cover (ce ne sono molte su youtube, basta cercare!), ma qualsiasi cosa va bene.

Ora vi lascio stare, promesso.

 

radioactive,

 

   
 
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