I come to
you in pieces, so you can make me whole.
| vengo da te a pezzi, così puoi completarmi |
|| CAPITOLO UNICO ▪ like puzzle pieces in your eye. ―
«I'm here again, a thousand miles away from you | A broken mess, just
scattered pieces of who I am
I tried so hard, thought I could do this on my
own | I've lost so much along the way.»
[ Sono di nuovo qui, a migliaia di chilometri di
distanza da te | Un disordine interrotto, solo frammenti sparsi di chi sono
Ho provato difficilmente, pensavo di poterlo fare
da solo | Ho perso molte cose lungo la strada. ]
Quattro ore.
Quattro ore. E’ questo che si
ripeteva lo stregone mentre guardava fuori la finestra, seduto sullo stipite di
questa con una gamba a penzoloni all’interno dell’appartamento. La schiena
aderiva perfettamente al legno dell’imposta e il freddo lo avvolgeva tutto – ma
non gli importava.
Era stanco, Magnus. Stanco di pensare
che doveva solamente camminare per quattro ore per arrivare a Manhattan; stanco
di sperare che quelle quattro ore le stesse facendo Alec sui propri piedi per
andare da lui. Chiuse piano gli occhi struccati, godendosi la sensazione delle
palpebre abbassate e delle ciglia congelate, le sue non erano abbastanza lunghe
per sfiorarsi le guance, ma quelle di Alec lo facevano. Sospirò e ritornò a
guardare il paesaggio.
Brooklyn era coperta da un sottile
manto di neve che rendeva molto più malinconico il tutto, dall’altra parte
della camera, la televisione mormorava un telegiornale mondano stanco almeno
quanto il Nascosto. Picchiettò sulla sigaretta per far cadere la cenere che si
gettò a capofitto verso l’asfalto del marciapiede, poteva farlo anche lui,
gettarsi dalla finestra.
Ridacchiò amaramente e tornò dentro
la camera, buttando la cicca e chiudendo le imposte, tirando le tende per
coprire la calda luce del sole al tramonto. Schioccò le dita ed il camino si
colorò di fiamme azzurrine che in poco tempo invasero la stanza di un dolce
tepore.
Si sedette sulla poltrona di velluto
viola buttando per terra i cuscini in malo modo e chiudendosi la vestaglia blu
con eleganti ricami di fiori sulla schiena e sulle maniche.
La stanza profumava di sandalo, come
sempre, eppure tutto in quella camera gridava una nome: Alexander. Ricordava le coperte leopardate che il giovane Nephilim gli aveva chiesto di eliminare, alcuni cimeli
provenienti da vari sexy shop erano
stati riposti in uno scatolone in fondo all’armadio perché Alec si sentiva
vagamente in imbarazzo e, paradossalmente, osservato,
nonostante i suddetti oggetti non avessero occhi. Si passò una mano sulla
fronte e sugli occhi che non avevano più lacrime da versare.
Perché Magnus Bane
lo aveva fatto: aveva pianto perché si sentiva vuoto come quando, nel passato,
un suo amante gli moriva tra le braccia, portando con sé i racconti dello
stregone. E lui era perso, sventrato, senza più nulla. Ricordava perché, dopo
la morte della sua prima amante, in Francia, nel 1761 circa, aveva deciso di
smettere di dire qualcosa di sé, del suo passato, e dei suoi ricordi: perché
alla fine di lui non rimaneva più nulla se non un involucro vuoto e alcune
sottigliezze tralasciate durante i discorsi.
Aveva deciso, tempo fa, di non
condividere più il suo dolore con la persona che era entrata nella sua vita.
Sarebbe andata bene comunque, si
ripeteva. Alec non aveva certo bisogno di sapere dove fosse nato o chi fossero
i suoi genitori, quanti amanti avesse avuto e quanti figli avesse visto morire.
Eppure era scivolato tutto via come
sabbia, e Magnus si sentiva come se gli avessero portato via una vita senza che
lui avesse detto nulla di questa.
Era il dolore che non aveva condiviso
che si era moltiplicato e lo aveva investito come un’onda, strappandogli tutto ciò
che poteva ritenere buono per lo stregone, lasciandolo con l’amara
consapevolezza che, alla fine dei conti, il guaio lo aveva combinato lui.
Come poteva pretendere fiducia da
Alec, se il giorno prima gli diceva di avere ottocento anni e il giorno dopo appena
quattrocento?
Disfatto, con la stessa fragilità di
un vaso appena ricomposto, si trascinò verso il letto con le coperte vecchie di
qualche giorno, si stese sul materasso e con un calcio lanciò dall’altro lato
le lenzuola e il copriletto – pochi istanti dopo un Presidente Miao angosciato
quanto il padrone fece capolino nella stanza e, preceduto dal suo campanellino
(anche quello ideato da Alec: «per sapere sempre se arriva!», aveva detto) salì
sul materasso accanto allo stregone, acciambellandosi vicino alla curva del
collo e iniziando a fare lente e dolci fusa di conforto, come una carezza sulla
schiena.
E, ancora una volta, il cuscino si
ritrovò a bere le sue lacrime.
◊◊◊
Le bottiglie avevano appesantito l’aria
con un odore orrendo, e Alec lo sapeva.
Non era mai stato uno che beveva così tanto, si auto convinceva. Gli era
certo capitato di bere, e Magnus Bane in casa aveva
una scorta infinita di alcolici dai colori più vivaci e invitanti, lo stesso
non si poteva dire per il loro sapore che, per quanto particolari, non sempre
erano graditi dal Nephilim. Alexander ricordava le
sere in cui lo stregone si preparava un bicchiere di assenzio che, per quanto
ne sapeva lui, era proibito negli Stati Uniti e si accorgeva frammento di
ricordo dopo frammento di ricordo che gli mancava terribilmente il sapore del
distillato sulle labbra dell’altro o quel dannato cucchiaio in giro per casa
nei posti più improbabili.
Ricordava anche, però, che quando gli
aveva chiesto il motivo per cui gli piacesse bere proprio quel liquore lui non
aveva risposto – o quantomeno non aveva risposto sinceramente.
Alexander era seduto sul letto,
spalle al muro e cuscino sulle ginocchia, la porta era socchiusa e una debole
fascia di luce entrava dalla fessura, le tende erano tirate a coprire il sole
acceso dalle ultime calde ore della giornata, un libro riposava, chiuso,
laddove doveva esserci il guanciale.
Aveva letto tutto il giorno, perché non
poteva fare altro. Girò piano il viso affogando la gote sull’ammasso di lana e
leggendo il titolo dell’opera su cui aveva lanciato tutta la sua depressione,
la copertina di un beige sbiadito e vecchio portava il nome dell’autore in
marrone e poi il titolo, più grande, in azzurro e lingua originale: La Dame aux camélias.
La signora delle camelie, si
ripeteva, e si ricordava un passo del libro, all’inizio, che recitava più o
meno: «Manon era morta nel deserto, è
vero, ma tra le braccia dell’uomo che l’amava con tutto l’impeto dell’animo: e
quest’uomo le scavava una fossa, la bagnava di lacrime e vi seppelliva il
cuore; mentre Margherita, peccatrice come Manon e forse come lei convertita,
era morta in un lusso sontuoso, a giudicar dalle apparenze, nel letto stesso
del suo passato, ma, ohimè, anche lei in un deserto di cuore, ben più arido e
più vasto e più crudele di quello in cui posava Manon.»
Anche
lui come Manon era destinato a morire tra le braccia dell’uomo che lo amava,
aveva sempre immaginato Magnus seduto vicino al suo letto, con la vecchia,
scheletrica, morente e fredda mano di Alec tra le dita ancora affusolate e
dorate che si tratteneva dal piangere – ma non osava andare oltre a quel
pensiero e gli faceva male immaginare lo stregone riporre tutte le loro foto in
una scatola e seppellirla in fondo all’armadio, o in giardino, o addirittura
con il cadavere di Alec – anche se non ci sarebbe stato nessun cadavere da
seppellire.
Lui
era un Cacciatore, dannazione, e come tale non poteva di permettersi di
soffrire così tanto. Era la stessa cosa che aveva letto nei verdi, spietati
occhi del padre: Alec non era forte, Alec aveva il preciso obbligo di esserlo.
Sospirò
pesantemente con le labbra tremanti, strinse le ginocchia e chiuse gli occhi
affondando il viso sul cuscino, liberandosi da quella pressione auto imposta solo
quando l’aria veniva a mancare. Attorno a lui il disastro era evidente e,
proprio come la casa della signora delle camelie, raccontava una storia. Una
storia a cui non voleva rinunciare. Sentiva sotto i piedi i chilometri di
camminata per l’Europa con Magnus, sul palato i dolci e le pietanze di cui non
conosceva l’esistenza, sulla pelle l’odore dello stregone e sul collo il
fruscio dei suoi lunghi capelli che amava specialmente quand’erano puliti e
senza glitter.
Aveva
provato a rimettere assieme tutto, alzarsi sulle sue gambe e camminare, ma gli
cedevano le ginocchia dopo soli due passi e allora ritornava sul letto, a
leggere di Margherita e del suo bouquet di camelie. Di quei fiori
insignificanti – qualcosa di passeggero, superabile, scontato.
Si
rese conto, solo allora, che come la stessa Margherita lui sarebbe morto in un
letto sontuoso, da vero Cacciatore – ma in
un deserto di cuore, ben più arido e più vasto e più crudele.
«Then I'll see your face, I know I'm finally yours | I find everything I
thought I lost before
You
call my name, I come to you in pieces | So you can make me whole.»
[ Quando
vedrò il tuo volto, so che finalmente sono tuo | Ho trovato tutto quello che
pensavo di aver perso prima
Chiami il
mio nome, vengo da te a pezzi | Così puoi completarmi. ]
Quando
tutto era finito, Alec aveva deciso di ritornare da Magnus.
In
realtà non lo aveva deciso, era solo tornato all’Istituto, entrato in camera,
spalancato le finestre e raccolto tutte le bottiglie, i vestiti sporchi e quasi
ammuffiti, fazzoletti e lenzuola sudice, chiuso tutto dentro un grosso sacco
della spazzatura e lasciato fuori la porta, poi era andato a lavarsi e, una
volta che era pulito e profumato, aveva messo quel che rimaneva di utilizzabile
del suo guardaroba dentro una valigia per poi andare dallo stregone. Il suo
Magnus.
Era
andato in metro, per fare il più alla svelta possibile, incappucciato nella sua
giacca nera. Aveva suonato alla porta e sorrideva tra sé e sé pensando che
quella sarebbe stata l’ultima volta, che avrebbe presto riavuto le chiavi e che
stava per ritornare a casa sua. Si
sentiva elettrizzato peggio di un bambino al compleanno, e la cosa lo
imbarazzava e lo eccitava ancora di più allo stesso tempo.
Era
così felice, che non riusciva a
pensare a null’altro.
Fece
gli scalini a due a due, trascinandosi dietro il bagaglio, la serratura della
porta era scattata e poi girata, si spalancò grazie ad una mano invisibile e
sulla soglia apparve Magnus con i pantaloni del pigia lilla e una maglietta a
stampo bianco e verde, i capelli puliti e scompigliati in un meraviglioso
groviglio color fondente, gli occhi felini brillavano dalla luce e dalle
lacrime e le mani erano ferme lungo i fianchi, immobili, eppure Alec sapeva che
ogni nervo del Nascosto tremava tanto quanto i suoi.
Abbandonò
la valigia che ruzzolò verso il basso e alzò le braccia, circondandogli il
collo così prepotentemente che Magnus si dovette reggere allo stipite della
porta per non cadere in avanti con lui.
Non
si erano baciati, non ancora. Il Nephilim si teneva
stretto al suo collo con il viso sulla spalla, Magnus gli appoggiava con
lentezza la mano sulla schiena, mentre l’altra afferrava ancora il legno in una
morsa di dolorosa euforia.
«E’
un piacere vederti, Alec» mormorò piano come si mormora un “buonanotte” ad un
bimbo dopo una favola. La sua voce sembrava musica nelle orecchie del
cacciatore e avrebbe voluto sentirla per tutta la notte e anche quella dopo.
Alexander
non aveva risposto, non sapeva cosa dire e non pensava dovesse per forza farlo.
Aveva imparato con il tempo che le frasi fatte come il silenzio vale più di mille parole sono frasi vere, e lui ne era
la dimostrazione vivente. Si staccò lentamente, posando le mani sul suo petto,
gli occhi blu vividi sotto la luce del sole che li avvolgeva, si era allungato
per baciargli le labbra e lo aveva fatto con una lentezza di cui non sapeva
essere capace, qualcosa che sapeva di “benvenuto a casa”.
Tutti
e due erano vasi rotti, caduti da una mensola troppo alta, caduti assieme con i
cocci mischiati tra loro. Avevano provato a riaggiustarsi da soli, raccogliendo
pezzo dopo pezzo di un puzzle che aveva il colore dei loro occhi, della loro
anima, mischiando i rimasugli di Alec con quelli di Magnus e viceversa. Si
erano ricomposti nel momento in cui si erano ritrovati, la colla che teneva
assieme i frammenti rafforzata e seccata di colpo, e laddove vi era una
mancanza, una scheggia mancata, l’altro ci metteva il dito, coprendola.
E
l’aria non poteva entrare per rubare quello che vi era dentro il vaso, così
come quello che vi era all’interno non poteva fuoriuscirne.
«I've come undone | But you make sense of who I am
Like
puzzle pieces in your eye.»
[ Sono venuto sfatto | Ma hai dato un senso a ciò che sono
Come pezzi di un puzzle nei tuoi occhi. ]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Non so cosa scrivere, il che è
strano, considerando che solitamente mi piace sproloquiare nelle note.
In realtà, vorrei citare Levi, o, per
il popolo di EFP “T e t s u_ c c h i” che mi ha
sopportato brillantemente mentre finivo questa fic,
chiusa nel cassetto circa mezz’ora dopo la sua iniziale stesura e lasciata lì a
morire.
Io sono contro l’angst
Malec perché-i-due-si-sono-lasciati,
per motivi che probabilmente farebbe arrabbiare chi legge, eppure ci sono
finita anche io dentro questa cerchia di peccatori. Perché? Perché mi ha
ispirato la canzone. Non sono affatto pratica di song-fic
(potete benissimo vederlo in He’s my sun,
he makes me shine like diamonds.,
song-fic sulle note di “Young & Beautiful” di una
cover Lana del Rey), ma ci ho voluto riprovare,
ricamando sulle due strofe ripetute della canzone Pieces dei Red (che consiglio nel caso vogliate scrivere angst ._.).
Come avrete notato, la prima parte
della fanfic è la “rottura” del loro rapporto sia da
Magnus che da Alec, evitate di dirmi che potevo scrivere “point of view” perché
mi irritano oltremodo la loro presenza, preferisco far sembrare chiaramente il
punto di vista di un pg il tale piuttosto che
spiattellarci su un “pov”.
Anyway, ci sono alcuni riferimenti alle
Cronache di Bane e una a Woolsey
con l’assenzio che – approposito - non è un liquore, ma un distillato, ho usato
la parola “liquore” come sinonimo giusto perché non trovavo un altro modo che
non “stonasse” in tutta la frase ^^ Ed è illegale in America, ma legale negli UK… e Magnus è uno stregone, eh.
Sono desolata che il paragrafo
dedicato ad Alec sia “tanto sproloquio e pochi fatti”, ma (e sarò sincera),
adoro molto di più scrivere di Magnus che del Nephilim
e quindi le cose sono uscite un po’ fuori dai gangheri, ma spero comunque che
apprezziate l’opera complessivamente (:
Non ho scritto del loro
riconciliamento perché succede in City of Heavenly Fire e preferirei non
toccare tasti dolenti, quindi è tutto un po’ nell’ombra, mi dispiace.
Ovviamente, la citazione de La
signora delle Camelie è vera, la traduzione è di Francesco Pastonchi
dell’edizione sempreverdi della Mondadori.
Non mi pare ci sia altro da dire ♡ se non che, per scrivere questa fanfic ho utilizzato la cover in piano della canzone, e ho
voluto che la struttura della storia seguisse un po’ la scia della musica, in
altre parole vi consiglio di leggerla – o rileggerla – tenendo in sottofondo
una cover (ce ne sono molte su youtube, basta
cercare!), ma qualsiasi cosa va bene.
Ora vi lascio stare, promesso.
radioactive,