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Autore: Cheche    04/09/2013    3 recensioni
Silver e Blue erano pupazzi rinchiusi in una prigione d’oro, indossavano abiti sfavillanti e infiocchettati di seta. Sui loro volti senza espressione erano stati coniati sorrisi artificiali, tracciati maldestramente con pennarelli indelebili.
Erano bambole prigioniere di una casetta dai muri di plastica, manovrate dalle mani di adulti bambini che andavano d’amore e d’accordo grazie ad un egoismo condiviso. Le coinvolgevano in un gioco che era lo stesso da anni, costringendole nella strettezza di giornate perfette e identiche. Riuscivano ancora adesso a divertirsi quando imponevano i due giocattoli nella routine insensata, fabbricata con valori muffiti ed autentici quanto piombo segnato da approssimative pennellate di vernice dorata.

[ChosenShipping; AU]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blue, Silver
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga
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Premessa: Non è che pensi tanto alla poetica di messaggi non istruttivi ma distruttivi. Qualcuno mi spieghi perché ho pensato ad una frase del genere mentre riflettevo su questo lavoro. Non che c'entri troppo, ma ho scritto questa storia in un periodo in cui sentivo la mia testa piena di parole. Sapete, io me la cavo piuttosto bene a disegnare. Non sono Michelangelo, ovvio, ma ho comunque un'abilità non comune nel rappresentare determinati soggetti. Vi chiederete cosa c'entri. Beh, da una come me ci si aspetterebbe che abbia la testa piena di immagini. Invece no, la mia mente è piena di parole randomiche. Ho scritto la storia in un periodo di vacanza, dove il panorama che potevo ammirare dalla finestra era diverso, dove non faceva così caldo come nella mia città. Ho convogliato un po' di queste parole, ho scritto ascoltando il mio cervello e ragionando al contempo (ma non troppo) su come dar senso a questa roba. Non so se il senso sarà chiaro, ma sono soddisfatta di ciò che ho scritto. Forse qualcuno dirà che la mia Blue è OOC ma, mettendo io sempre l'angst ovunque, non riesco a trattarla né a vederla come una ragazza spensierata come sembra a primo acchito, anche perché nel manga si intuisce che non deve esserlo affatto. Ho un modo strano di vedere i miei personaggi preferiti e di maltrattare la mia OTP, se leggerete questa storia ne avrete l'ennesima conferma. XD Ringrazio la mia amata Akemi_Kaires che mi ha fornito una serie di prompt che collego a questa storia e mi hanno fatto iniziare a scriverla, senza idee in mente ma con tante parole per la testa che spontaneamente, con l'aiuto delle mie dita, hanno formato questa storia. Più tardi, quando avrò sistemato delle cose, aggiungerò uno di quei prompt. Intanto potete iniziare a leggere e - perché no? - farmi sapere cosa ne pensate, se non è di disturbo! Buona lettura! :3




Plastica oro e orpelli nella discarica
 

Il tappeto rosso era liscio, senza pieghe, sarebbe stata dura trovarci un inciampo. Si estendeva di fronte a lei che, in tutto il suo splendore, seguiva il percorso senza tentennamenti.
I tacchi erano alti, le scarpe erano strette e procuravano dolore ai suoi piedi bianchi. Si era esercitata tanto per camminare perfettamente con quelle calzature, poteva solo andare tutto alla perfezione.
Lei era Blue, con i suoi capelli castani e lunghi e quel viso amato e invidiato da tutta l’umanità lì radunata. Ognuno la stava osservando come si ammira un diamante privo di scalfitture. Immaginavano per lei un’infanzia serena ed equilibrata, un presente tranquillo e privo di particolari problemi, un futuro determinato e sicuro, pieno di ricchezze materiali ed affettive. Poteva scegliere per sé il partito migliore e disponeva di molto denaro, grazie agli agi ereditati.
Erano tutti occhi estranei quelli che seguivano la sua figura, avvolta in un vestito di seta blu notte, che sembrava rappresentare un mistero da tutti ignorato.
Nessuno sapeva come le tasche dei suoi genitori si fossero riempite. C’era solo ammirazione cieca, abbagliata dallo scintillio dell’oro.
A testa alta procedeva, mentre la sua mente ripeteva ‘è tutta una bugia’. L’aria bruciava nei suoi polmoni, il mento era ben alzato, ma il fiato aveva smesso di fuoriuscire dalle narici e ogni voce intorno a lei pareva ronzare dicendo ‘tutta una bugia’. Si fermò, la notte negli occhi e le labbra che si muovevano per mimare qualche parola priva di suono; ‘bugia’.
Il terreno si annebbiava e si avvicinava al suo viso. Blue era caduta dove sembrava impossibile capitolare.
In quell’immenso istante tutti la videro ancora come un diamante. Ma era così grezzo, così fioca la sua luminosità, così sfregiate le sue sfaccettature, così annerita dal tempo la sua purezza.
Il suo valore era una bufala, una menzogna. Una pietra sterile simile al carbone.
Una ragazza improvvisamente incapace di reggersi in piedi.
 
Un nuovo lucidalabbra tra le mani era un motivo perfetto per correre. Scapicollarsi nascondendo il volto nella chioma fluente, rischiando di perdere le scarpe e di finire schiacciata sotto quel camion che faceva risuonare il proprio clacson, ferendole le orecchie.
Perché l’aveva fatto? Nella sua pochette le monete sonanti non si contavano. Scandivano i suoi passi affrettati, le ricordavano chi era. Una signorina borghese con un piccolo oggetto rubato fra le mani, la figlia di criminali di cui nessuno conosceva il lavoro, che nascondevano tutto dietro maschere e facce pulite. Il sangue delle sue vene, un’eredità ingombrante e lurida che non riusciva ad ignorare.
Ansimava contro la ringhiera, guardava di sotto. Le montagne e il verde brillante della vegetazione la scrutavano oltre il belvedere, facendosi beffe di lei e della sua debolezza. Rabbiosa, sentì le viscere e i muscoli comprimersi. I denti scricchiolarono, non riuscì più a ridere delle sue malefatte come faceva quand’era bambina.
Alzò la mano, l’oggetto nuovo stretto tra i polpastrelli. Lo lasciò andare, gettandolo verso la strada sottostante, vogliosa di colpire quel panorama che si mostrava in tutta la sua bellezza struggente quando lei invece era così brutta dentro.
Il mondo era così splendido pur popolato da sentimenti autodistruttivi. Era un dannato controsenso. Avrebbe voluto colpirlo perché non mostrava i suoi orrori, ma il suo gesto insulso non produsse effetto, la sua rabbia non fu notata dai presenti.
Nessuno diceva nulla. Il loro mondo era pieno di sporcizia e tutti tacevano, con i loro sorrisi ad illuminarli.
Gente felice e sfavillante, gente che non pensava, in quell’esatto momento, alla vita che finiva a rotoli.
 
Il bambino abbandonato che risiedeva a casa loro era l’unica cosa per cui Blue ringraziava i suoi genitori. Sedeva ai piedi del suo letto, ormai poco meno che adulto, sempre sveglio e con gli occhi sgranati come quelli di un gufo. Silenziosamente vegliava su di lei, che era caduta poco prima, coprendosi di vergogna - che era precipitata per dispetto, non perché avesse perso l’equilibrio.
Alla fine Blue aveva davvero fatto qualcosa. Aveva smesso di meditare su quale errore avrebbe potuto compiere, lo sbaglio con il quale avrebbe potuto infrangere quei falsi vetri di plastica così apparentemente perfetti.
Aveva lanciato la sua richiesta d’aiuto e ora sentiva una strana frenesia coglierla, un subdolo timore di scoprire le conseguenze delle sue azioni sconsiderate. Per un attimo pensò che avrebbe dovuto far finta di dormire finché la morte non l’avesse colta, perché sarebbe stato troppo penoso affrontare la luce del giorno. Talmente penoso da toglierle la voglia di vivere, da mozzarle il fiato.
Fu il proprio respiro a tradirla. Il ragazzo, attento e amorevole nei suoi confronti, si piegò avvicinandosi. I capelli rossi e troppo lunghi sfiorarono la fronte della ragazza, il fiato di lui lambì le sue labbra.
“Blue?” Domandò, incerto, ma abbastanza convinto da spronarla a muovere quei suoi muscoli indolenziti dalla troppa immobilità.
“E’ finito tutto da schifo. Vero, Silver?” Mormorò lei in risposta. Ultimamente la parola ‘schifo’ si trovava troppo spesso tra lingua e denti, sempre pronta a trasformarsi in suono.
“E’ finito tutto.” Spiegò Silver, che aveva sempre avuto il dono della sintesi, riaccoccolandosi sulla propria sedia e riempiendole un bicchiere d’acqua cristallina.
La bocca della ragazza era troppo amara per accettare la premura, dunque respinse il recipiente storcendo la bocca e muovendo la mano destra, rischiando di versare il liquido sulle vesti del giovane.
Sul volto di Silver si mosse un’ombra, una piega di rabbia velata si formò tra le sopracciglia per poi essere scacciata prima che qualcuno potesse notarla. Era un soggetto dai sentimenti incoerenti e tempestosi, era una persona che cercava di scoprire la luce nella propria anima irrimediabilmente ottenebrata e intinta nella pece.
Erano uguali; Blue sorrideva un sospiro di più, senza però saper far scintillare gli occhi. Solo qualche volta la luce li dominava, quando la vista si offuscava di lacrime. La sua luminosità non sapeva rappresentare nulla di positivo, era un eco pallido di quello che avrebbe potuto essere in circostanze opposte.
“Perché l’hai fatto?”
“Non riesco ad essere come te.”
“Non devi essere come me. Sei sempre stata migliore.”
“Bugiardo…”
“Cosa?”
“BUGIARDO!”
Silver si agitò sulla sedia, faticando a mantenere l’equilibrio. Quella voce era un proiettile che perforava il suo costato con precisione certosina. Riuscì a sopravvivere, nonostante il dolore e il sangue che, scorrendo, affievoliva la sua voce.
“Io penso davvero… queste cose…” ‘Ferito’. Se un aggettivo avesse potuto descrivere il tono di Silver in quel momento, di certo ‘ferito’ sarebbe stata la parola più tristemente giusta.
Sembrava un rovesciamento di ruoli.
Il povero ragazzo non voluto dal padre, figlio di malavitosi che vedevano in lui il demonio, una maledizione – erano molto religiosi, per quanto fosse paradossale – e una promessa di dannazione; era sempre stato quello che ribolliva e sfrigolava dentro, quello per cui la stupidità altrui era benzina gettata sul fuoco.
Sembrava adesso così umile, rimpicciolito dalla rabbia dirompente di lei.
Blue, la viziata ragazza a cui avevano detto di non avere mai scrupoli, di non arrendersi, di prendere ciò che desiderava senza farsi frenare da inutili inibizioni. Per quanto grandi fossero tali ostacoli, avrebbe scoperto di poterci passare attraverso rimanendo indenne.
La paura va affrontata perché desiderare è potere. Volere una cosa è possederla e poterla prendere e maneggiare come qualcosa da sempre lì per te. Questo sistema di valori era stato inculcato nella mente della ragazza, un sistema che la faceva assomigliare, intimamente, più ad una vagabonda che ad una raffinata erede di grandi fortune.
Lei era quella che sorrideva, che riempiva la stanza di oggetti come uno scoiattolo che si prepara per il letargo, che custodiva gelosamente i segreti dei suoi astuti genitori, legati ad una tradizione malsana e meschina.
Ora era colei che si arrabbiava, che si ostinava, che guardava Silver con puro odio e con qualcos’altro che si amalgamava con esso, generando indecifrabilità e fascino sottile.
“Mi hai detto che avresti smesso di rubare, ricordi?” Il suo fiato era un sottile filo tremolante e trattenuto: c’era un impaccio, un malessere che gli impediva di snodarsi in tutta la sua fragile lunghezza.
“Perché te l’ho detto?” Non era una domanda rivolta a lei, ma solo un pensiero formulato ad alta voce da Silver, accompagnato da mani che si impigliavano tra i capelli e iniziavano a massaggiarli istericamente.
“Mi hai aperto gli occhi.” Disse lei, sorridendo strana e bellissima. “Mi hai aperto gli occhi.” E sul suo volto c’era una felicità pazzoide, qualcosa che emergeva dalla forma concreta della loro parola preferita: lo ‘schifo’. Poteva davvero essere sano un fiore nato in mezzo alla spazzatura?
“No.” Pareva una risposta alla precedente domanda e sarebbe stata persino quella giusta, ma era solo una negazione, una nullificazione delle parole vuote di Blue che si accartocciavano e prendevano fuoco, consumandosi come carta. Gli occhi di lei erano sgranati, il suo stupore si dipinse rapidamente di delusione. “Non ti ho aperto gli occhi. Ti ho uccisa, è diverso. Si potrebbe dire che te li ho chiusi per sempre.”
Si capiva che si tratteneva, la stretta delle sue labbra fungeva da diga che ostruiva la risalita di un impetuoso fiume di lacrime.
Blue scosse la testa, pianse al posto suo, gli prese una mano e ignorò la refrattarietà del giovane, la vergogna di sfiorare i suoi polpastrelli prevedibilmente sudati.
Quanto poteva sopravvivere, il fiore nato in mezzo alla spazzatura, una volta strappato con un gesto secco e meticoloso?
 
“E’ stata colpa mia.” Esalò Silver in un sospiro coraggioso. “Sono stato io a sabotare il tacco della sua scarpa.”
Non si levò un fiato, i signori smisero di masticare i loro grumi di cibo. La tavola imbandita e troppo grande per quelle tre persone, l’alta sedia sulla quale Blue si posava regalmente, la stanza esageratamente ampia eppure, nonostante i lampadari sfavillanti e gli specchi incastonati nella tappezzeria oro, eccessivamente vuota. Tutto quello sfarzo comunicava abbandono, sembrava sporco e impolverato.
Silver odiava quella stanza, era sicuro che prima o poi avrebbe bruciato tutta quella seta lercia partendo da un misero fiammifero. Bastava solo prendere in mano la scatoletta un giorno in cui si sarebbe sentito particolarmente ingrato.
Sperava che prima o poi i signori l’avrebbero abbandonato, dimenticando di averlo cresciuto per anni lunghissimi. Desiderava trovarsi davanti alla porta chiusa un’altra volta, sotto la pioggia battente. Stavolta però non avrebbe pianto né urlato. Non più, ma sarebbe stato libero. Il suo cuore non poteva più essere lacerato, riteneva, sebbene diverse situazioni avessero dimostrato il contrario. Era cieco a tutte queste, rivestito com’era anche sugli occhi delle proprie granitiche convinzioni.
Anche per questo non voleva più rubare. Per i signori, chi smetteva di prendersi ciò che desiderava era una persona di paglia.
Senza palle’ avrebbe detto Silver, ma non avrebbe mai pronunciato quelle due parole riferendosi a se stesso. Di averne fin troppe era una consapevolezza che faceva parte delle sue convinzioni inossidabili.
“Perché avresti dovuto farlo?” Chiese il signore, con la sua voce profonda e bonaria, venata in quel momento di approvazione e disapprovazione miscelate in un miscuglio informe.
“Volevo mettere fine a tutte quelle pagliacciate.” Azzardò il ragazzo, impertinente e compiaciuto, citando parole che Blue gli aveva confessato e che avevano acceso la sua preoccupazione nei suoi confronti per la prima volta.
“Chi credete di essere? Vi comportate da gran signori mentre tutta questa roba d’oro qui intorno è sporca! Non lo sentite quanto puzzate di merda? Siete dei poveretti, solo dei poveretti, capaci di vergognarvi perché vostra figlia è inciampata. Ma in un fiume di merda come questo, se si cammina si sprofonda, non ve ne accorgete?” Sputò fuori tutto quanto, il suo odio per quelle radici avvelenate e il suo disgusto per se stesso che le aveva recise.
Era il risultato dei suoi sentimenti di apprensione verso Blue nel momento in cui si era accorto di averla distrutta, di averle fatto capire che i suoi valori erano false verità. Così facendo aveva nullificato il suo passato, l’aveva condannata ad una ricerca del buono e del giusto che, priva di basi, non sarebbe mai giunta al termine.
Il destino di Silver era speculare a quello di Blue; lui, sapendolo, non avrebbe mai dovuto permettersi di rovinarle la vita con una semplice frase, come invece aveva fatto.
Smetterò di rubare.’ Tre piccole parole maledette e banali solo all’apparenza, una risoluzione apparentemente ammirevole, un piccolo inizio di una ricerca infelice ed infinita.
Non le avesse mai pronunciate.
 
Il cielo notturno aveva una sua luminosità, ma più discreta e intima di quella prepotente e vanagloriosa del giorno.
Silver aveva amato poche cose nella sua vita: la notte e una ragazza astuta ma ingenua, che sapeva sorridere di cuore per errori che non si accorgevano di essere tali.
Era pura nel suo modo di sbagliare e lui non le aveva ancora detto nulla, non le aveva ancora riferito di essere prigioniera di un sistema destinato solo a recare dolore e solitudine. Avrebbe voluto liberare quell’uccellino dalla sua gabbia d’oro. Non intuiva che un fringuello disabituato al volo sarebbe caduto nell’atto di conquistare la sua libertà, nell’atto di scoprire quello stesso mondo che da sempre gli era stato celato e precluso.
In quella notte luminosa erano insieme su un grande prato umido come le loro giornate movimentate. Silver aveva accanto tutto ciò che amava e sentiva, finalmente, di poter respirare, di riuscire a concedere un sorriso accorato a Blue che gli sedeva a pochi centimetri di distanza.
Nella vaga oscurità della sera stellata, la ragazza era poco più di una sagoma, con pietruzze scintillanti al posto degli occhi grandi.
Lei era più grande d’età, ma ormai Silver era cresciuto abbastanza da superarla in altezza e questo non gli recava compiacimento: lo rendeva solo partecipe del fatto che erano passati troppi anni, anni bui, e Blue era una pianta soffocata da quell’insospettabile oscurità.
“I miei dicono che, se voglio qualcosa, posso prenderlo.” Mormorò la giovane donna, dalla voce matura e allegra.
“Lo so.” Commentò Silver, accorgendosi dell’estinguersi del sorriso rilassato sul proprio volto.
“Mi sono sempre chiesta perché non riuscissi a prendere le stelle, allora. Avrei voluto rubarle dal cielo e appiccicarle in cameretta come tante lucine! Immagini che bellezza sarebbe stato?” Lei si illuminò, sogghignò innocentemente, scoppiò in una risata cristallina. “Da piccina pensavo di non riuscire a prenderle perché ero troppo bassa, quindi pensavo di chiedere a papà.”
“Pensi ancora di poterle prendere?”
“Papà diceva di non esserne capace, ma tu ora sei un po’ più alto di lui! Magari…”
“Ti prego!” Un piccolo scoppio divertito emerse dalla bocca di Silver, violento abbastanza da portarlo ad alzare di scatto le spalle. “Le stelle sono troppo grandi e lontane per essere rubate. Questa è la verità!”
“Stavo scherzando, stupidone!” Silver la vide mostrargli la lingua nell’oscurità. Era così innocente anche nel suo modo di farlo sfigurare che non sarebbe mai riuscito ad offendersi davvero.
“Allora ci rimasi male, quando seppi di non poterle avere. Ma ora mi accontenterò di qualcosa più alla mia portata.”
Il silenzio che calò fu causato dal timore. Era il sentimento agitato di Silver che tentava di scacciare da sé la lecita domanda ‘quale sarà quest’altro desiderio di Blue?’. Quella quiete improvvisa non era dedita alla ricerca affannosa e logorante di una risposta, ma alla cacciata del dubbio dalla sua mente, alla liberazione da quel mostro che lo pietrificava lì, seduto al suo posto, con una normalità apparente che lasciava il suo viso privo di pieghe.
E se Blue avesse desiderato appropriarsi di qualcosa che né le spettava, né avrebbe potuto ottenere?
Con quella domanda priva di risposta, l’olio dei pensieri di Silver tornò alla sua liscia e untuosa normalità, il suo recipiente aveva smesso di agitarlo fino a farlo quasi schiumare. Era pace, l’aria aperta era facile da respirare, un sospiro profondo l’aveva fatto di nuovo sentire vivo come raramente gli capitava.
Il viso di Blue era vicino e ciò, inevitabilmente, fece accendere il sorriso di Silver. Quella sera era la seconda volta che l’evento si verificava. Sarebbe stata una data da annotare.
Oh, sì. Decisamente sarebbe stata una data da annotare.
Silver seppe che non poteva essere altrimenti, dato che poteva avvertire le labbra della ragazza appoggiarsi alle sue con una ferma dolcezza, un’intenzione risoluta di attirarlo a sé e non permettergli di sottrarsi.
Quel bacio di ragazza viziata l’aveva rapito e lui si sentiva avvinto da quella forza maestosa che era il desiderio.
Il desiderio; era dunque lui la cosa che Blue desiderava rendere propria? Così non andava, bisognava insegnarle che le persone non possono essere rubate, che le cose che devono essere lasciate al loro posto non sono per forza quelle troppo grandi e troppo lontane come le stelle del cielo.
Ma Silver non aveva capito che quel gesto, piuttosto che una ruberia, era uno scambio. Perché la voglia era condivisa e lui stava attingendo senza pudore da quelle labbra morbide di ragazza, con scioltezza e privo di indugi.
Non riusciva ad opporsi, a spiegare a Blue che nella vita non si poteva ottenere tutto con tanta facilità. Eppure non poteva, perché gli aveva rubato l’unica cosa che voleva gli fosse sottratta. La verginità della sua bocca e altri suoi segreti, fin dall’inizio, erano stati consacrati a lei. Non si era appropriata indebitamente di nulla, perché erano cose che già le appartenevano. Si era solo resa conto di poterle sfruttare – e di volerle sfruttare, anche.
Voleva conoscere tutti i suoi segreti, poiché ne deteneva il diritto.
“Silver.” Fu una richiesta, quel nome ansimato ad un soffio dalle labbra di lui. Rimasero, fronte contro fronte, a non riuscire più a guardarsi per del tempo, ad abituarsi ai loro contatti che si intensificavano. Blue si era resa conto, quando aveva sentito il cuore bruciarle più del previsto, di aver rubato qualcosa di troppo grande.
Silver intuì, nel proprio nome soffiato, la richiesta: ‘Cosa pensi?’.
“Ti amo.” Rispose, senza mezzi termini. Tenerselo ancora dentro era inutile e neppure si preoccupò del repentino sussulto di quel corpo a stretto contatto col suo. “Per questo ti dirò cosa mi frulla per la testa, Blue.”
Non avresti dovuto dirlo. Non avresti dovuto dirlo. Non avresti dovuto dirlo. Ora te ne penti. Ora te ne penti. Ora te ne penti.
Se l’amavi davvero, avresti dovuto pensare alle conseguenze delle tue parole!
“Smetterò di rubare.”
Stupido.
 
Non si era accorto di essere entrato, quella sera, in un tunnel nero come una notte senza stelle. O forse se n’era reso conto, ma l’aveva scelto comunque, succube di quel meccanismo tipicamente umano che porta a preferire la quiete delle tenebre all’accecamento del Sole.
Quel che sapeva era di essere immerso dentro al punto da non riuscire più a vedersi, ma non comprendeva se ad intrappolarlo fosse una galleria che attraversava un’innocua montagna oppure che si inabissava infinita nelle profondità della terra, conducendo l’ignaro viaggiatore all’Inferno.
Sapeva solo di aver scelto l’oscurità come da propensione umana. Perché l’uomo predilige sempre il buio? Perché si rifugia all’ombra quando il sole lo accarezza? Perché sostiene che tutto si abbini al nero mentre sul bianco non ha la stessa opinione?
Che essere miserabile l’umano: si aggrappa a chimere a forma d’angeli, per poi scoprire l’errore delle proprie decisioni o rimanere nel buio dell’ignoranza.
Silver considerava soltanto la sua presenza nell’orrore di quella stanza d’oro e ipocrisia. Con la scatola di cerini stretta nella mano, si incitava a bruciare le pagine di quel libro lungo una vita, con tutti i suoi capitoli sovrapponibili gli uni agli altri, sempre uguali a loro stessi.
Tutta quella storia era quanto di più falso e macchinoso potesse esistere, con quei ruoli definiti contro la volontà dei suoi personaggi. Avrebbe posto la parola ‘fine’, guardando accartocciarsi nelle fiamme quelle pagine di vita morta.
Non sapeva se uscire a scorrazzare lungo la superficie del mondo senza avere un posto dove andare sarebbe stata la soluzione di tutto, ma sarebbe comunque diventata una nuova storia, un inizio diverso, composto lecitamente dai suoi protagonisti. Sarebbe stato padrone della sua vita, nera o bianca che fosse.
Perché era sicuro che, qualunque fosse la sua casa, non sarebbe mai stata lì con i genitori di Blue. Loro non lo avevano mai voluto, lui era solo il povero bambino abbandonato che era servito a dar loro lustro come famiglia di misericordiosi. Quanto marciume dietro quei visi puliti ad arte.
Dopo tante offese volte a distruggere quel patetico castello di carte, si era sentito rispondere ‘devi essere molto stanco’. Stanco di cosa? Di ricevere abbracci freddi e finte premure per salvare la faccia a due viscidi esseri con la coscienza appestata dal tanfo della merda? Era esausto, in realtà; abbastanza da sentirsi prossimo alla morte.
Ma, per quanto tentasse ostinatamente di farsi scacciare con sdegno, liberarsi di lui sarebbe stata un’onta per quella famiglia di santarellini. Silver sapeva che i suoi tentativi continui sarebbero andati sempre a bucare l’acqua, eppure tentare scioccamente era ormai un’abitudine.
Silver e Blue erano pupazzi rinchiusi in una prigione d’oro, indossavano abiti sfavillanti e infiocchettati di seta. Sui loro volti senza espressione erano stati coniati sorrisi artificiali, tracciati maldestramente con pennarelli indelebili.
Erano bambole prigioniere di una casetta dai muri di plastica, manovrate dalle mani di adulti bambini che andavano d’amore e d’accordo grazie ad un egoismo condiviso. Le coinvolgevano in un gioco che era lo stesso da anni, costringendole nella strettezza di giornate perfette e identiche. Riuscivano ancora adesso a divertirsi quando imponevano i due giocattoli nella routine insensata, fabbricata con valori muffiti ed autentici quanto piombo segnato da approssimative pennellate di vernice dorata.
Ora Silver impugnava il destino in una scatola di zolfanelli: essi avrebbero dato in pasto alle fiamme quel circo di leoni in gabbia e pagliacci noiosi, con la faccia dipinta per accentuare il sorriso dove non sarebbe dovuto esistere.
Pochi gesti e tutto avrebbe iniziato a muoversi. Silver lo avvertiva già dalla scintilla sprigionata dallo sfregamento del fiammifero contro la scatola. La fiammella baluginava nei suoi occhi fissi e frementi di febbrile eccitazione. Gli sembrava che quelle mura tempestate di intarsi kitsch si stessero piegando, presentendo la propria fine.
Fissava la fiammella che consumava la punta sulfurea del cerino; un orologio ticchettava timido e nervoso nelle sue orecchie, scandendo il tempo e facendogli capire che stava indugiando troppo. Anche quel ridicolo oggetto munito di lancette sarebbe scomparso con tutta la stanza, straziato dalle fiamme che non avrebbero lasciato più intuire la forma a disco solare che aveva ora che era integro; il suo color oro sarebbe diventato nero come la notte, carbonizzandosi.
Alzò la mano che sorreggeva il fiammifero, avvertendo il calore del fuoco avvicinarsi ai suoi polpastrelli appiccicosi. Era il momento di trasferire il suo dolore all’esterno. La rabbia non avrebbe più arso il suo petto gonfio d’incendi mai domati.
Ora bastava trasportare quegli ardori fuori dal suo animo.
Già vedeva quella stanza sgretolarsi in preda alle fiamme, insieme al resto della casa. Cosa avrebbe provato?
L’arsura era dentro. L’arsura era dentro e fuori. L’arsura era fuori.
Ora quel calore corrosivo era solo all’esterno e lui non provava più dolore: solo un’immensa e irrefrenabile voglia di ridere.
Sarebbe finalmente riuscito a vivere senza sentirsi consumato e stanco ad ogni passo. Non c’era nulla di male a voler aprire le proprie ali.
Allora perché il fiammifero acceso non si staccava dalla sua mano, raggiungendo quella chiazza d’alcool accuratamente predisposta sulla moquette?
Perché c’era una colla che rendeva pesanti le sue piume bianche, che impiastricciava il legno del cerino unendolo alle dita di Silver.
“Blue.” Non si era quasi più mossa da quel letto che sapeva ormai di sudore. Ricordò il suo pallore, il suo ribadire che sarebbe cambiato tutto, quando per attuare la rivoluzione non impiegava altre energie se non quelle necessarie per muovere pochi muscoli della bocca.
Se anche Silver avesse messo in atto il cambiamento, Blue l’avrebbe accolto sorridendo quietamente e sparendo tra le fiamme. Ne era convinto, perché lui era sempre convinto di qualcosa. E, quando ciò accadeva, non poteva far altro se non abbassare la testa sotto il peso di quelle incudini dense di pensieri inespugnabili.
Soffiò sullo zolfo bruciato del fiammifero, estinguendo la fiamma. Respirò, turbato ma deciso a sentirsi meglio senza il bisogno di un rovesciamento radicale.
Il suo animo non si placò ma si autoconvinse di poter sopportare: anche quella certezza aveva il peso di un’incudine e, come spesso capitava, era un’idea falsa nata da un mondo di cose fatue. Perché Silver aveva trascorso i suoi anni immerso in laghi di plastica d’oro e cascate di finzioni, nella sua testa c’era sia il vuoto del benessere simulato sia la densità della rabbia più truce.
E ora, la sua mente lo accusava di essere uno di quei famosi ‘senza palle’ che Silver delineava e associava più consciamente di ora a persone a lui note che non avevano il suo viso. Non riusciva ad ignorare gli insulti che lui stesso si rivolgeva, si sentiva talmente caldo che aveva la sensazione di sciogliere il terreno ad ogni passo. Eppure doveva lasciare la stanza a testa alta, rimandare la rivoluzione.
Era certo che l’avrebbe conclusa, almeno finché una delle sue incudini mentali non l’avrebbe colpito, smontando e distruggendo quel che aveva pensato.
Alla fine le sue convinzioni erano simili a quelle di tutti gli esseri umani. Alla fine era uno schifoso essere umano e apparteneva alla stessa specie di quegli orrendi adulti che l’avevano allevato come un animaletto. Alla fine lo sradicamento di quel sistema non sarebbe mai avvenuto. Alla fine avrebbe continuato a camminare stancamente fino ad arrivare a strisciare vergognosamente su quel pavimento tirato a lucido, specchiandosi e ripugnandosi del proprio sguardo da inetto. Alla fine Blue non si sarebbe mai alzata da quel letto; l’aveva persa ma lei non aveva perso lui.
Ne era convinto. Lui era sempre convinto. Come tutte le persone che non hanno nessuno accanto disposto ad aprir loro gli occhi.
  
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