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Autore: Francine    05/09/2013    2 recensioni
C'era una volta un bambino.
Occhi furbi, sorriso da monello, mille marachelle nella testa e una gran voglia di correre più veloce del vento, questo bambino amava tanto dondolarsi sull'altalena a folle velocità, sentire l'aria scompigliargli i capelli e la luce del sole avvicinarsi e far diventare tutto bianco.

Prima pubblicazione: 04.06.2007
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ophiuchus Shaina, Pegasus Seiya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Forte Fortissimo

C'era una volta un bambino.

Occhi furbi, sorriso da monello, mille marachelle nella testa e una gran voglia di correre più veloce del vento, questo bambino amava dondolarsi sull'altalena a folle velocità, sentire l'aria scompigliargli i capelli e la luce del sole avvicinarsi e far diventare tutto bianco.

Era il primo a saltar giù dal letto la mattina, e l'ultimo a crollare esausto la sera, dopo che le inservienti dell'orfanotrofio gli avevano raccontato delle storie lunghissime e avventurose, rischiando a loro volta di addormentarsi sul cuscino accanto a lui.

Quel bambino non aveva né la mamma né il papà, ma non era triste. 

Viveva in una grande casa a due piani con giardino, proprio davanti alla spiaggia, insieme ad altri orfani come lui, a due inservienti, Rumiko e Maria, e a padre Ranmaru.

Nelle mattine di primavera arrivava dal mare l'odore frizzante dello iodio, e, se promettevano di fare i bravi e di essere ubbidienti, Rumiko e Maria li accompagnavano a giocare sulla spiaggia. 

Lui era il più discolo di tutti. Si divertiva da pazzi a rincorrere i granchi sulla battigia, oppure a costruire il castello di sabbia più grande del mondo, talmente grande da poterci entrare dentro, e magari viverci assieme a sua sorella. E se per caso il castello non gli veniva bene, oppure qualcun altro ne costruiva uno più grande del suo, non ci metteva molto a prendere un secchio d'acqua e a gettarlo sulla costruzione, tra i pianti del povero architetto, le sue risate dispettose e i rimproveri di Seika.

Accanto a quella che considerava casa sua sorgeva la chiesa, un edificio ad un piano, di pietra bianca, con una grande croce dorata sulla sommità. Lì, ogni domenica mattina, padre Ranmaru raccontava loro le meravigliose storie della Bibbia, e parlava di un Dio Unico, che aveva creato il cielo, la terra, il mare e tutti i pesci, e di suo Figlio, che era sceso tra gli uomini per lavare i loro peccati.

E mentre lui fissava il crocifisso sopra il pulpito e si chiedeva come facesse questo Dio ad essere Unico e ad avere un Figlio anch'egli Dio, la sua testolina gli sussurrava di lasciar stare quei discorsi noiosi e di fermarsi ad osservare i disegni che decoravano le finestre della chiesa. Erano forme geometriche, rettangoli perlopiù, di diversi colori e dimensioni, l'una vicina all'altra, e, quando il sole vi passava attraverso, lui vedeva non solo il pulviscolo danzare libero nell'aria - Figli della Luce li chiamava lui, prendendo in prestito una delle espressioni di padre Ranmaru - ma anche la composizione dei vetri, e immaginava che ad ogni colore corrispondesse un mondo, e che ogni mondo fosse diverso e popolato da fantastiche creature.

Spesso padre Ranmaru lo sorprendeva a fissare le vetrate anche al di fuori dell'orario della messa. Sedeva sul bordo di un banco, il braccio destro sullo schienale di legno, e osservava i vetri e il mondo colorato che vi vedeva attraverso, i palazzi viola, gli alberi gialli, il cielo a tratti blu, a tratti rosa, a tratti oro. Molti bambini usavano la chiesa per giocare a nascondino, riparandosi tra gli inginocchiatoi, o, peggio ancora, nel confessionale o dietro le statue dei santi. Lui no. Lui preferiva i cespugli di fiori gialli accanto alle altalene, perché ogni volta che entrava in chiesa l'odore della cera d'api e le luci soffuse e colorate lo rapivano. Letteralmente. E finiva sempre che lo trovavano, costringendolo a stare sotto.

Un giorno padre Ranmaru gli si era seduto accanto, in una bella mattina di maggio, e insieme erano rimasti a fissare quel mondo variopinto.

«Come mai non sei a giocare con gli altri bambini?», gli aveva domandato perplesso: una così bella giornata invogliava a correre all'aria aperta, non a starsene chiusi in chiesa, e da soli per giunta.

«Perché non vogliono mai andare con me sull'altalena. Vado sempre troppo veloce», aveva replicato con una nota dolente. 

«E perché vai sempre veloce?»

«Perché così posso vedere il sole.»

Padre Ranmaru aveva sospirato: più di una volta gli aveva spiegato che non a tutti piaceva la velocità, e che poteva essere pericoloso andare sull'altalena troppo forte, ma dentro di sé il bambino pensava, e continuava a pensare che, se solo l'avessero lasciato provare, sarebbe riuscito ad andare forte fortissimo come piaceva a lui, con il vento sulla faccia che quasi gli impediva di respirare.

«Ti piace così tanto la luce del sole?», gli aveva poi chiesto l'uomo con la tonaca, e lui aveva risposto annuendo.

«Mi piace sì. È calda», aveva risposto lui scalciando i piedini nell'aria, tutto contento di poter condividere quella sensazione con qualcuno che lo comprendesse. Satoshi e Ichiro, invece, lo guardavano alzando le spalle.

«Che ci troverai di così di bello nella luce colorata…», commentava Satoshi, sempre pieno di graffi e lividi, e lo lasciava davanti alle vetrate per andare a giocare a palla, oppure a tirare le trecce alle bambine, o a catturare gli insetti per spaventare Rumiko e Maria. Oppure giocava ai pirati, usando lo scivolo come coffa e le altalene come le sartie delle vele.

«Avanti, miei prodi! All'arrembaggio!», gridavano gli altri maschietti, e lui si univa a loro saltando sul seggiolino dell'unica altalena funzionante e andando avanti e indietro, mentre immaginava di essere un eroico corsaro che si apprestava ad abbordare una ricca nave olandese carica di cioccolate, caramelle gommose e litri e litri di coca cola.
Poi, un giorno in cui aveva deciso di voler toccare il sole, le catene arrugginite avevano ceduto mentre andava forte fortissimo come diceva lui e si era trovato a sedere per terra, tra le lacrime delle bambine sfrattate che non avrebbero più potuto dondolarsi perché lui aveva distrutto l'altalena.

Era stata la prima cosa che aveva ricomprato con i suoi soldi.

Quando gli avevano dato il suo primo stipendio, aveva guardato quell'assegno, aveva chiesto che fosse cambiato in denaro contante - era troppo giovane per recarsi da solo in banca - e aveva donato all'orfanotrofio un paio d'altalene di ultima generazione, con il seggiolino di plastica azzurra e le catene rinforzate e protette dalla pioggia da un tubo trasparente e morbido da impugnare.

Miho aveva visto gli operai montarle a bocca aperta, chiedendosi chi mai si dovesse ringraziare per quel dono, se la signorina Kido, che puntualmente aiutava l'orfanotrofio pagando le spese più ingenti, oppure qualcun altro dei loro rarissimi benefattori.

Quando lui era passato a trovarla dopo un paio d'ore, curioso di vedere la sua faccia, e le aveva chiesto: «Allora? Ti è piaciuta la sorpresa?», lei gli era saltata al collo dalla contentezza, strozzandolo più forte di quanto Genki avesse fatto giorni prima. E i bambini, gustandosi la scena dalla veranda, li avevano presi in giro, chiamandoli coppiettafidanzatini, piccioncini  ed ottenendo che lei arrossisse e corresse loro dietro per ricacciargli in gola tutte quelle sciocchezze.

Non lo facevano perché erano gelosi di lei, ma perché erano affascinati da lui.

Lui era un orfano come loro, e si ritrovava ad essere una stella della televisione. Era forte, picchiava più di Tiger Mask III, era simpatico, e giocava con loro a pallone e alla lotta. E, cosa più importante, era una figura maschile in cui potersi identificare, più vicina a loro di quanto il povero padre Ranmaru si sforzasse di essere, nonostante i suoi cinquant'anni ben portati.

Era vivo, in carne e ossa, non come gli eroi dei cartoni animati o degli spettacoli di Mighty Man che Miho li portava a vedere sul tetto del Grande Magazzino G.

Quelle tre pesti erano ancora nella fase in cui le ragazze sono solo delle smorfiose incapaci di giocare a pallone, buone solo a dare ordini e a vietare tutte le cose divertenti, come faceva Miho.

Anche lui le vedeva così, fino a pochi anni prima, erano tutte streghe antipatiche tranne sua sorella Seika. La solfa era cambiata quando era stato prelevato dall'orfanotrofio e spedito in Grecia. Marin era stata la prima che gli aveva dimostrato come anche le donne sapessero tirare calci e pugni. E l'aveva costretto a riconoscere che lo sapeva fare dannatamente bene.

E poi, era arrivata lei.

Lei, così acida e distante, così superba, con quell'aria da solo io so come si sta al mondo.

Lei, che immaginava brutta come il demonio e che, nei suoi incubi, si toglieva la maschera e gli mostrava un volto deforme come quello delle streghe della Tessaglia che aveva visto su un libro.

Lei, che adesso rideva e giocava con i bambini, facendoli volare al tappeto e conquistando la loro fiducia con poco.

Loro la adoravano. E anche Miho sembrava averla accettata senza riserve. Non appena arrivavano all'orfanotrofio, era lei - non più lui - che rapivano per costringerla a giocare con loro fin quasi all'ora di cena.

Quando quella sera padre Ranmaru uscì e richiamò i bambini in casa per spedirli dritti filati a farsi la doccia prima di cena, qualcuno protestò pestando i piedi per terra e dicendo: «Io non ho fame! Stasera non mangio!». Lei allora batté le mani, si schiarì la voce con un paio di colpi di tosse e loro corsero svelti svelti a prendere i vestiti di ricambio. Sapevano che prima si fossero lavati, prima avrebbero mangiato, e prima avrebbero potuto riprendere i giochi e le lotte.

Padre Ranmaru la ringraziò come sempre con un cenno della testa e scomparve, lasciandoli soli, cuore a cuore. Lei sorrise, si voltò verso le altalene, le mani dietro la schiena, il vestito giallo tenue che seguiva la sua figura. Si fermò, le fece posto accanto a sé, e lei si sedette, mentre lui le passò un braccio attorno alle spalle ed afferrò saldamente le catene.

«Ci fare con i ragazzini, tu», le disse, mentre la sentì accoccolarsi sulla sua spalla sinistra. Puntò i piedi, si diede lo slancio e l'altalena dal sellino azzurro riprese a dondolare dolcemente.

«Che vuoi? Sono abituata ad avere a che fare con te…»

«Ah sì?», le domandò, tuffandosi nei suoi occhi verdi.

C'era stato un tempo, quand'era un monello pieno di graffi e cerotti, in cui aveva creduto che la gente vedesse il mondo in base al colore delle iridi, e anche se ormai sapeva che non era così, quando sentiva nostalgia di lei prendeva un pezzetto di plastica verde scuro e vi guardava attraverso. Chissà che cosa ci vedrai in me di così speciale, pensò lui facendo andare avanti e indietro l'altalena.

Lei sorrise, si accoccolò meglio contro il suo petto, la testa sulla spalla sinistra, e gli chiese: «Tutto qui quello che sai fare, campione?».

Lui si fermò. «Cos'è, una sfida?»

«A-ah…»

«Bene», replicò prendendo la rincorsa. «Preparati, signorinella, che adesso si vola!», e prese ad andare forte fortissimo, come piaceva a lui.


C'era una volta un bambino.

Occhi furbi, sorriso da monello, mille marachelle nella testa e una gran voglia di correre più veloce del vento, questo bambino amava tanto dondolarsi sull'altalena a folle velocità, e sentire l'aria scompigliargli i capelli e la luce del sole avvicinarsi e far diventare tutto bianco.

Era il primo a saltar giù dal letto la mattina, e l'ultimo a crollare esausto la sera, dopo che le inservienti dell'orfanotrofio gli avevano raccontato delle storie lunghissime e avventurose, rischiando a loro volta di addormentarsi sul cuscino accanto a lui.

Quel bambino non aveva né la mamma né il papà, ma non era triste, perché aveva trovato qualcuno che amava andare sull'altalena forte fortissimo, come piaceva a lui.

 

   
 
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