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Autore: Myfatherwillearaboutthis    06/09/2013    1 recensioni
In genere non mi sottopongo alla scrittura di one shot, ma, come alcuni di voi capiranno, è impossibile ignorare un impulso quando stai cercando di intraprendere la carriera di scrittore/scrittrice.
Tuttavia, l'idea che mi è balenata in testa era quella di "riprodurre" quel contesto in cui, essendo rimasta praticamente sola, Lily Evans decide - finalmente, aggiungerei - di abbandonarsi nelle mani di James Potter, conferendogli mano a mano sempre più fiducia.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James Potter, Lily Evans | Coppie: James/Lily
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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E’ una tranquilla mattinata primaverile e le nuvole bianche sembrano dipingere il cielo azzurrino assumendo forme diverse: le primule tinteggiano a chiazze il prato verde acido, un debole venticello scuote i ramoscelli degli alberi più vicini e, anche se in lontananza, è possibile cogliere l’odore rincuorante del pane fresco appena sfornato proveniente dal panificio di Cokeworth, un villaggio posto sulla collina antistante alla montagna ‘Jalil’ (‘Pax’ in origine). Questi ultimi - la montagna e la collina - sono separati da un unico e sontuoso boschetto: proprio lì, immersi nella foschia, all’ombra di un pino, due bambini (aventi entrambi non più di nove anni) giocano facendo apparire a turni un fiore diverso nella mano dell’altro. «Adesso prova con un ‘Non-Ti-Scordar-Di-Me’, Severus!» sussurra entusiasta la bambina dai capelli rossi e il viso lentigginoso.
«Oh, di quelli ce ne sono un sacco oltre il ruscello, non serve che io ne faccia ancora. Vuoi vederli?» aggiunge lui in fretta, cercando di non deludere le aspettative della compagna che, sorridente, annuisce alla proposta. Camminano per circa dieci minuti, fino a quando non raggiungono la meta concordata: oltre al rivolo d’acqua gorgogliante, davanti a loro si erge un ampio manto bluastro puntellato da pallini color miele; niente più foglie, niente più cespugli. Solo una vasta distesa sfumata di un viola intenso. Gli occhi spenti del bambino di nome Severus indugiano per qualche secondo su quella sconfinata meraviglia, poi tornano fissi su quelli verdi di lei: «Ti va di coglierne un po’? Dobbiamo solo attraversarlo» chiede mentre con l’indice destro indica il ruscelletto. «Mi piacerebbe ma… Ecco, io non so nuotare» risponde un po’ imbarazzata, la testa china e lo sguardo rivolto alla gonnella.
«Non preoccuparti, qui non ci sarà il bisogno di nuotare. E’ troppo poco profondo»
«Ne sei sicuro?»
«Certo» la rassicura Severus. «Ascolta» nota l’espressione poco convinta sul volto dell’amica e continua. «Ho un’idea: potremmo tenerci per mano, no? Così se uno di noi inciampa l’altro gli impedirà di cadere»
«O cederà a sua volta» sibila lei. Ridono entrambi. Il sole sormonta delicatamente le loro teste e il fruscio della boscaglia fa da sottofondo ai loro respiri. «Dai, Lily» la incita ancora e ancora fino a quando la bambina non gli si aggrappa all’avambraccio. Si sfilano le calzature e insieme si avvicinano ai piedi del getto d’acqua fino a sfiorarla con l’estremità delle loro dita sudate: ma appena Lily vi balza dentro bagnandosi fin su alle caviglie Severus se la scrolla di dosso e, con un movimento brusco e impacciato la spinge via, in balia della corrente; nonostante il letto fosse alto effettivamente poco più di 20cm, mulinelli prendono a vorticarvi trascinandola giù con loro, privandola della capacità di pensare e di respirare; contorcendola e immergendola nella più totale e completa oscurità…
Ed è così che mi ritrovo. Avvolta dalle tenebre, in un unico lenzuolo di cotone bianco e con una sola certezza: oggi, primo Settembre, si torna a Casa. Ora che i miei occhi si sono abituati alla penombra riesco a distinguere le diverse sagome presenti nella stanza: il comodino, l’armadio e la scrivania di legno, il letto di Petunia e… Petunia, ronfante. Le serrande sono state abbassate del tutto la sera prima (ecco spiegato il perché di così poca luce), ma dallo sferragliare di stoviglie proveniente dalla cucina suppongo che la mamma stia già preparando la colazione. Poiché quest’anno io abbia bisogno di una preparazione psicologica, oltre che fisica, decido di alzarmi. Mi trascino fino al bagno strusciando le pantofole sulle piastrelle cobalto, mi appoggio con i gomiti al lavandino e rivolgo la mia attenzione al riflesso sullo specchio: una ragazza pallida, lentigginosa e con due borse violacee sotto agli occhi mi osserva con fare distratto, i capelli arruffati che le ricadono sulle spalle; in questo momento, una doccia non sarebbe affatto male. «Come hai fatto a ridurti in questo stato, Lily?!» sussurro, senza aspettarmi una vera risposta (naturalmente).
Tolto il pigiama di dosso sprofondo nella vasca intrisa di olii e profumi e penso: penso a come due parole sono state capaci di distruggere un’amicizia fiorita ormai da secoli. Penso alla capacità degli esseri umani di creare e distruggere, probabilmente – pur essendo colpevoli – senza rendersene conto. Penso a come dovrò scavare nelle consapevolezze altrui per trarne delle nuove, e impossessarmene. E ancora, penso al ‘come’ affronterò il mio sesto anno ad Hogwarts: di chi potrò fidarmi, adesso? Chi potrò amare, una volta lì? E da chi potrò essere amata? ‘Amore’. Che gran parolone. Che assurdità.
Esco dal bagno lavata, vestita, pettinata e odorante di cannella, la pelle bianca e vellutata come quella del divano, in soggiorno. In silenzio, oltrepasso il tratto che mi separa dalla cucina, nella quale entro sussurrando un lieve «Buongiorno»; subito dopo raggiungo il piano-cottura e aiuto mia madre con i pan-cakes. Da quando la fabbrica locale in cui lavorava mio padre esplose (disgraziatamente, durante uno dei suoi turni), quel che resta della mia famiglia ha cominciato ad arrancare economicamente (stiamo pensando addirittura di abbandonare – o vendere – il gatto, una delle poche “cose” a cui io e mia sorella teniamo da quando eravamo bambine), assecondando mia madre in uno stato di noncurante angoscia (per non dire moribondo). E’ come se si trovasse perennemente in un altro mondo, bigio e tormentato, in cui ha bisogno di noi per non crollare del tutto.
«Mamma, oggi torno ad Hogwarts, lo sai, no?» la domanda mi esce istintivamente di bocca prima che io possa fermarla. Aspetto una parola, un cenno col capo, un mugugno. Niente da fare, non arriva. Nonostante non sia sua la colpa, questa assenza materna mi fa infuriare dentro, mi brucia fino in fondo, mi secca la gola tanto che le parole che sto per sbottare appaiono rauche, secche, ma allo stesso tempo ben scandite: ‹‹’Tunia ha bisogno di te. Non puoi abbandonarti al fato!››.
Ancora nessuna reazione. Con le iridi colme di lacrime acide e discontinue esco di lì e corro a prendere il baule: sono le 09:07 e, considerato che la stazione metropolitana più vicina è a circa venti minuti da qui, che la Jubilee, la linea che dovrei prendere per poter raggiungere King’s Cross Station, ha la partenza prefissata per le 9:30 e che vorrei oltrepassare la barriera per le 10:45, beh, credo proprio che non vi sia tempo di ancorarmi a uno dei muri della casa invocando e respingendo ricordi – talvolta obsoleti – nella speranza di dimenticare quanto appena accaduto. Così m’incammino, sola, il bagaglio colmo di libri acquistati a Diagon Alley. Solo una volta arrivata alla stazione mi accorgo della fitta allo stomaco che raramente mi capita di percepire: è probabile che si sia acuita col fatto che non abbia salutato Petunia, prima di abbandonarmi alla frenetica corsa nel tentativo di giungere il più in fretta possibile nel Mondo a cui appartengo davvero.
Il viaggio in metro sembra non finire mai: bambini urlanti che si agitano sui sedili, amalgamarsi di gente che va e viene tra una fermata e l’altra, svuotando il mezzo della poca aria pura che rimane. Questa è la prima volta – e io direi anche la peggiore – che prendo la metro per giungere a King’s Cross, di solito mi ci accompagnava mio padre…
“Cling, clang. Welcome to King’s Cross Station” suona una voce femminile dall’altoparlante: di botto mi alzo (fortunatamente, durante la sesta delle ventiquattro tappe ferroviarie avevo trovato un posto libero) e con gli averi saldamente incollati alle mani mi avvio cauta verso l’uscita: sotto un cielo stranamente cristallino inglobo tutto l’ossigeno consentito dai miei polmoni, ammiro entusiasta il solito spettacolo tra la barriera del nove e quella del dieci, mi immergo nel tubare dei gufi e nel caos provocato dai Caposcuola nell’intento di raccattare qualche novellino perduto.
D’un tratto mi ricordo che io sono un Prefetto, e che a quest’ora dovrei già essere sul vagone prescritto, non a cincischiare stupita come se si trattasse del mio primo anno! Con una mano sulla fronte in segno di sbadataggine mi spiano la strada e oltrepasso veloce il muretto catapultandomi lì, sulle lisce mattonelle della piattaforma 9 ¾; lì, dove appena a due metri di distanza dal mio carrello una testa nera, ricurva, fa capolino tra la folla di maghi e streghe, riportando la mente e il cuore in quell’incubo, dove la bambina dai capelli rossi soffocava in un vortice d’acqua, mentre il bambino di nome Severus se ne stava impalato, sorridente all’idea di aver praticamente assassinato una sporca Mezzosangue… Rabbrividisco, quando una voce conosciuta si insidia tra me e l’assurdità di quel pensiero: ‹‹Oh, Evans… Esci con me, stasera?››
‹‹Scordatelo, Potter›› rispondo, più acida di quanto volessi sembrare.
‹‹Ah›› sospira James Potter, uno dei miei coetanei che non ha minimamente idea di cosa significhi ‘restare con i piedi per terra’, ‹‹Solo Dio sa  quando ti deciderai a cedere, Evans›› continua lui, passandosi sinuosamente una mano tra i capelli, come fa sempre, ‹‹Comunque, Remus ti stava cercando… Questioni da Prefetti… Puoi dare a me il baule, penso io a caricarlo››. Per una volta decido di fidarmi, quindi gli consegno il baule e sguizzo a bordo, le iridi verde prato alla ricerca di Remus Lupin; un ragazzo sciupato, abbastanza slanciato e… Eccolo là! Con il suo solito quaderno degli appunti rilegato.
‹‹Lupin! Ehi, Lupin!›› il corridoio è troppo, troppo affollato, quindi gli faccio cenno di raggiungermi nel nostro scompartimento (quello riservato ai Prefetti). A forza di spintoni arranco lungo ciò che sembra uno stretto vicolo di città illuminato unicamente dai raggi di sole che penetrano attraverso le finestre, sul quale si estende un interminabile tappeto bordò. Sto giusto aiutando una giovane Tassorosso con le sue valigie quando qualcosa, o meglio, qualcuno, inciampa e si accascia maldestramente sopra ai miei piedi. Faccio per andarmene quando quella stessa figura goffa e pallida mi si para davanti, borbottando scuse, chiedendomi ancora una volta perdono.
‹‹Sparisci, Serpe›› rispondo io con noncuranza, come se fossi da sempre abituata a maltrattare gente della sua cerchia, della cerchia di Severus Piton; come se fossi paragonabile a James Potter. Quest’ultimo dettaglio mi stupisce, mi istiga a riflettere sulla nostra somiglianza… Vrrrr. Sotto di me la locomotiva ha preso a vibrare: ciò significa che devo sbrigarmi, o Remus sarà costretto a subirsi la predica dei Prefetti di Corvonero riguardo al mio ritardo.
Con uno scatto lo raggiungo, ciocche di capelli sudati che m’incorniciano il viso: ‹‹Oh, eccoti. Dove sei stata?›› chiede, gli occhi scuri in attesa di una risposta.
‹‹Da nessuna parte, Remus… Ho solo riportato un po’ d’ordine fra i corridoi›› aggiungo, spostando lo sguardo dalle facce perplesse degli altri supervisori alle mie cose, sistemate con cura nella rastrelliera, come promesso. La Caposcuola di Tassorosso distribuisce i soliti blocchi annuali e mi chiede di occuparmi del penultimo vagone. Io annuisco e m’incammino. Poco dopo vengo sopraggiunta dal mio compagno: ‹‹Ehi, Lily, volevo chiederti se…›› comincia Remus.
‹‹Posso cercare di essere un po’ più gentile con James? Ci proverò›› lo interrompo io, con l’aria di chi sta recitando una preghiera, in chiesa.
Finalmente metto piede nella sezione che mi è stata assegnata, e con grande disappunto – sono certa che non si tratti di una coincidenza – ricambio il saluto di un James Potter in estasi con la peggiore delle smorfie, sforzandomi di contrarla in un sorriso. Contemplando la mia presenza si avvicina, gli occhiali trasparenti che fungono da schermo ai suoi bellissimi occhi color nocciola: le mani sono chiuse in ciò che pare un batuffolo rossastro, il quale, dopo un paio di striduli miagolii, si rivela essere un minuscolo gatto dal pelo corto e morbido, di un arancione striato.
‹‹Ti piace, Evans?››
Ormai ci fissano tutti. ‹‹Ma certo, io adoro i gatti›› rispondo, pensando al mio, Martin, che stava per essere consegnato a qualche estraneo, nella speranza di riuscire a risollevare il budget familiare.
‹‹Bene. Perché voglio che tu lo prenda… Come regalo, insomma›› mormora.
Tutto ciò mi coglie profondamente di sorpresa, ma mi rifiuto di iniziare a balbettare davanti a tutta questa gente, così acquisisco un tono serio, tranquillo, come se avessi appena trangugiato una tazza colma fino all’orlo di camomilla: ‹‹Mi spiace James, davvero, ma a casa siamo in difficoltà e…››
All’improvviso mi zittisce, sfiorandomi le labbra con un dito e sibilando: ‹‹Ehi, non preoccuparti, può stare da me durante l’estate››, si sistema la cravatta da Grifondoro e continua, ‹‹Così sarà come avere un figlio, no?!››. Quest’ultima affermazione non mi reca affatto fastidio, anzi, mi fa sorridere; probabilmente mi sono sbagliata, in questi ultimi cinque anni. Probabilmente ci sarà ancora qualcuno, per me.
Così, quando sussurra: ‹‹Allora? Che ne dici Evans?››, io gli rispondo ‹‹Certo, Potter››.
  
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