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Autore: Black Ice    07/09/2013    2 recensioni
Quando mi resi conto per la prima volta che stava andando tutto nel verso sbagliato era una sera d'autunno. Avevo sedici anni e a quei tempi l'unica cosa che avevo voglia di fare era stare in camera mia a suonare la chitarra, che, se conosceste tutta la storia, potrebbe sembrarvi un controsenso... o forse no.
Genere: Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: la storia scritta non ha fine lucrativo, e la vicenda non corrisponde, ovviamente, a ciò che è successo in realtà. È semplicemente un'interpretazione che ho voluto dare a quella che si dice sia la nascita di Escape.


 
Escape your meaningless

Quando mi resi conto per la prima volta che stava andando tutto nel verso sbagliato era una sera d'autunno. Avevo sedici anni e a quei tempi l'unica cosa che avevo voglia di fare era stare in camera mia a suonare la chitarra, che, se conosceste tutta la storia, potrebbe sembrarvi un controsenso... o forse no.
Ero in quella fase dell'adolescenza che, anche se sembrerà strano, non mi ha più abbbandonato, anche ora che ho vent'anni di più: volevo scappare da tutto e tutti e l'unico posto dove ero sicuro di stare solo era quello nel quale ti portava una canzone. Avevo anche cominciato a scrivere qualche testo e a buttar giù qualche accompagnamento, tanto per dire quanto ci tenevo.
Fatto stava che quella sera segnò l'inizio di tutta quanta la storia, anche se il principio effettivo doveva essere ricercato a molti mesi prima, se non anni. In cuor mio - in un posto che neanche la mia stessa mente riusciva a raggiungere - l'avevo sempre saputo che fra i miei genitori le cose andavano spesso male: li sentivo avere delle discussioni, ma quella volta fu il momento di ammetterlo realmente.
Mia madre diceva spesso che la via per l'inferno è lastricata di buone intenzioni; da ragazzo non avevo la minima idea di cosa volesse dire e neanche la voglia necessaria per scoprirlo, ma ora, con il senno di poi, devo ammettere che è proprio così. È sempre stata - e lo è ancora - una donna che non pretende di esserci sempre, ma che è lì solo quando ne hai bisogno. Viveva la sua vita nell'ombra degli altri, e io l'ho sempre un po' odiata per questo.

Li sentivo gridare dalla cucina. Anzi, sentivo mio padre gridare; mia mamma era intenta a farfugliare qualcosa tra le lacrime che cercava inutilmente di raccogliere in un fazzoletto di stoffa. Quando mi affacciai alla porta della stanza ricordo di aver pensato qualcosa come: "Ecco, niente più pranzi di famiglia o gite a pescare tutti insieme.". Avevo già ammesso, nel modo più infantile possibile, che si era spezzato definitivamente qualcosa tra tutti noi.
Poi mio fratello uscì dalla sua camera e andò spedito a fronteggiare nostro padre, mentre la mamma crollava sulla sedia. E fu quella la cosa che mi spaventò di più, perchè in quel momento realizzai che aveva gettato la spugna, che non dipendeva più da lei, ora, quello che ci avrebbe riservato il futuro.
Accusò mio padre di tutte quelle cose che io stesso, nonostante le avessi davanti agli occhi ogni giorno, mi ero rifiutato di vedere: gli disse che non gli importava più niente della nostra famiglia, che era solo colpa sua se si stava poco a poco sfaldando. Mi indicò con un dito - una sagoma nera che si fondeva con lo stipite della porta - e gli gridò in faccia se aveva la minima idea dei voti che prendevo a scuola.
Avrei tanto voluto fare qualcosa o dire la mia, ma rimasi semplicemente muto: mi sentivo fuori luogo.
Lo guardai, per vedere come avrebbe reagito, ma non mi restituì lo sguardo. Guardò soltanto mio fratello digrignando i denti. In quell'istante ricordo che pensai con terrore che da un momento all'altro gli avrebbe tirato un pugno, e si capiva anche solo osservandolo che effettivamente aveva tanta voglia di farlo.
Ma non si mosse. Ho sempre voluto convincermi che non lo fece perchè non era così meschino da andare a prendere pugni suo figlio, ma la verità è che oramai non gli importava più niente di noi, nemmeno di ristabilire a chi dovevamo portare rispetto nonostante tutto lo schifo che aleggiava intorno alla famiglia.
Si voltò, prese il giubbino e le chiavi della macchina e uscì di casa, sbattendo la porta d'ingresso come cliché. Con quell'uscita di scena finale si chiuse anche un capitolo dell'intera famiglia: fu l'ultima volta che ci riunimmo tutti e quattro insieme nella stessa stanza.
Lasciai mio fratello a consolare mia madre, io non mi avvicinai nemmeno: mi sentivo insignificante. Lui, dall'alto dei suoi ventidue anni, aveva certamente più probabilità di trovare le parole opportune per offrirle un po' di conforto rispetto ad un sedicenne confuso dalla situazione.
Dormii bene quella notte, al contrario di quello che si potrebbe pensare. Furono i giorni, le settimane e i mesi a seguire che furono veramente difficili.
Dopo quel fatto, rividi mio padre qualche volta al mese che con passare del tempo si ridusse a qualche volta all'anno. Non lo davo a vedere, ma ci stavo male. Però non fu questo l'aspetto più difficile, perchè avevo capito da me che, ripensandoci, non è che era stato proprio il padre perfetto.
Ciò che mi tormentava era che a quello che era successo doveva risponderne qualcuno, la causa scatenante. Per i primi tempi non mi porsi neanche il problema, riversando su mio padre tutta la colpa e la frustrazione che nutrivo dentro. Perchè non poteva semplicemente amare mia madre? Cos'era andato sbagliato? Certo, sapevo che la vita non era tutta rose e fiori, ma pensavo che avrebbe certamente trovato qualche ragione per restare a fare il padre e spargere un po' di collante sui cocci di una famiglia distrutta. Tutti insieme, mettendoci d'impegno, avremmo potuto mettere le cose a posto. Invece aveva agito egoisticamente, tagliando fuori la sua famiglia da una decisione che riguardava tutti.
Poi un giorno ritornai a casa da scuola - doveva essere verso primavera, perchè ricordo i primi fiori bianchi nel prato - e trovai mia mamma che passava l'aspirapolvere in salotto.
Canticchiava.
Non l'avevo mai sentita cantare e in quel momento realizzai che era giusto che fosse finita così, che fingere un sentimento che era svanito non avrebbe portato a niente di sano, anche se questo voleva dire avere, all'apparenza, una famiglia integra.
Dal dare la colpa a mio padre passai a darla a mia madre, perchè non si era sforzata abbastanza per farlo restare. Aveva subito mollato, e io non riuscivo a capacitarmene: come fai a farti scivolare via tra le mani l'uomo che ami senza fare nulla? A quel punto mi venne il dubbio se fosse veramente amore, quello che legava i miei genitori, e lì ebbi un po' paura.
Con il tempo capii che mia madre non aveva fatto nulla per impedire tutto quello perchè, semplicemente, la decisione era già stata presa, anche se non da lei. 
Da mia madre passai a incolpare me, perchè non ero una ragione abbastanza valida per restare. Avevo cercato sempre di imitare mio padre e renderlo fiero di me, a cominciare con l'emularlo con la mia chitarra giocattolo quando lui imbracciava la sua professionale. Avevo sempre pensato che, anche se non ubbidivo spesso e non fossi proprio un angelo, c'era qualcosa per cui lo rendessi felice.
Possibile che fossi meno importante del lavoro? Perchè non poteva almeno provarci, a sistemare le cose?
Poi rinunciai a capirci qualcosa, perchè la vita va avanti e la vita cambia, non si può fare niente; il passato era passato e a me non restava altro che adattarmici. Le cose in casa sembravano sistemate, e questo mi andava più che bene.

Ora, con quasi vent'anni in più, una moglie e un figlio in arrivo, mi chiedo se non commetterò lo stesso sbaglio. Mio padre è pur sempre sangue del mio sangue, perchè la storia non dovrebbe ripetersi?
Subito dopo che mio padre se ne andò di casa la mia chitarra restò ad impolverarsi in un angolo della camera, perchè se si dovevano tagliare i ponti con mio padre anche tutto ciò che era legato a lui doveva essere rimosso. Mi diedi subito dello stupido, perchè mi resi conto che era uno dei pensieri più infantili che avessi mai fatto. Suonare la chitarra mi piaceva: mio padre non c'entrava niente, se non per il fatto di avermela introdotta.
Mia madre ha sempre amato i detti e le citazioni filosofiche e spesso se le fabbrica da sè, come se da ogni piccola cosa si potesse trarre un grande insegnamento. Se ne usciva spesso con questi pensieri, e talvolta aggiungeva che avrebbe dovuto annotarli tutti in un quaderno. Chissà poi se l'ha fatto veramente e io non ne sono a conoscenza.
"Se devi fare qualcosa di importante, non è detto che siano necessarie le parole", diceva. Seguendo questo consiglio, non starò qui a promettere che starò accanto alla mia famiglia per sempre, e amerò mio figlio nonostante tutto. 
Semplicemente, lo proverò con i fatti.
  
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