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Autore: Taranim    07/09/2013    3 recensioni
Dal testo:
"Queste che mi strappano la carne dalle braccia non sono artigli.
E' Mags che mi toglie le coperte calde all'improvviso, in inverno, quando sono troppo pigro persino per fare colazione.
Queste che mi afferrano la testa non sono zampe.
E' la rete da pesca che mia sorella mi ha gettato addosso per prendermi e portarmi dal medico quando non volevo andarci.
Quel bagliore bianco, che capto con l'occhio ancora buono, appartiene ai denti dell'Ibrido che calano sulla mia gola tesa."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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YOU'LL NEVER BE ALONE, ANNIE




Un odore improvviso mi riscuote.
Non è quello dei liquami umani che appesta la fogna dove mi trovo.
E' l'odore delle alghe lasciate al sole, sbattute sugli scogli.
E' l'odore del mare d'inverno.
Ciò che sento in bocca non è il sapore ferroso del sangue, ma quello del sale marino sulla pelle. La pelle di Annie, morbida e dorata come la sabbia baciata dall'alba.
Non c'è più nulla intorno a me, i sibili che mi circondano non sono più quelli degli Ibridi Lucertola.
Sono i passi leggeri di Annie sul legno chiaro della barca.
Ha i piedi piccoli e silenziosi, ma il legno scricchiola sotto il suo peso. Percorro quelle caviglie sottili con lo sguardo, le gambe lunghe e flessuose scompaiono sotto l'orlo di un vestito bianco come la spuma delle onde. In controluce posso ancora indovinare i contorni delle cosce congiungersi al bacino, ai fianchi che avevo circondato già tante volte con le braccia, affondato il viso per ore nel suo grembo, donandole la mia debolezza oltre che la mia forza.

« Tu hai quattro sorrisi diversi, lo sai, Annie? »

Uno, quando ringrazi le altre persone, è quello che tende le tue labbra solo per qualche minuto. Un altro mette in risalto le tue fossette, quando ti rivolgono un complimento.
Uno per quando Mags fa qualcosa che ti diverte, e poi ne fai uno ancora diverso solo per me.
Un sorriso tutto mio.

E la tua risata. Breve, sottile, e leggermente nasale. Luminosa. Rara.
Il tuo splendore mi ricordava sempre qualcosa che somigliava ad uno specchio. E, se te lo stai chiedendo, no, non è perché sono schifosamente vanitoso: lo sai che quella era una delle mie maschere, una delle tante che mi toglievi dal viso quando tornavo da te.
Forse perché fu quando ti vidi abbigliata per gli Hunger Games che capii di provare qualcosa per te. Non quando sfoggiasti l'abito elegante per le Interviste, ma quando i nostri occhi si incrociarono nello specchio, prima che ti mettessero sull'Overcraft per l'Arena. Lo sguardo che scrutava il mio non chiedeva aiuto, non chiedeva pietà, e non era nemmeno impaurito. Non era una supplica, non era una dichiarazione d'amore.

Era un addio.
Non potevo fare a meno di notare che il tuo riflesso si proiettava anche dentro di me, e si imprimeva curva per curva, nel mio petto.
Io non volevo dirti addio.

Invitare a cena il Primo Stratega non era stata una mossa che Mags avrebbe approvato, anzi: se avesse saputo prima ciò che intendevo fare, avrebbe messo qualcosa nel mio pranzo che mi avrebbe tenuto molto vicino al bagno e molto lontano dai guai.
Diventare l'amante del Primo Stratega era stata la mia prima scelta; da quando avevo vinto gli Hunger Games non ero più io a disporre del mio corpo, bensì il Presidente Snow.
Ero diventato una puttana di Capitol City.
E, in quello squallore di corpi accaldati e parole indecenti pronunciate da bocche finte, ero solo un guscio vuoto. Mi avevano tolto dai giochi solo per diventare un altro tipo di giocattolo, poco importava che fossi poco più di un bambino, e che non avessi mai abbassato lo sguardo sotto la cintura di qualcuno, figuriamoci della mia. Baciare i loro corpi snaturati, lasciarmi toccare dalle loro mani grottesche in punti del mio corpo in cui nemmeno le mie erano arrivate.

Mi disgustava tutto ciò.
Sorridere e fingere che mi piacesse, che amassi ognuno di loro. Più tempo passavo a Capitol City e meno mi sentivo vivo: stavo diventando ciò che volevano che fossi.
Un oggetto.
Non vivevo, arrancavo nella vita. Ciondolavo più spesso nei corridoi degli appartamenti altrui che a casa mia, al Distretto 4, dove l'acqua salata lava via tutto e la sabbia assorbe tutti i peccati, prima di essere portata via dal vento.
Avevo cominciato ad odiare il mio corpo; non riconoscevo più nemmeno il mio riflesso allo specchio.
Avevo cominciato ad odiare la vita; quella vita che mi costringeva ad addestrare dei bambini a morire mentre uscivo da un letto e m'infilavo di un altro, sotto la silente minaccia del Presidente.

Eppure, sedurre il Primo Stratega dei settantesimi Giochi, mi aveva reso felice. Non quella felicità che era pura gioia e calore. Una felicità più fredda, cinica e priva di scrupoli. Quel tipo di felicità quando ci si accorge che si può ribaltare la propria situazione, ma che farlo significa non porre fine alla tortura: significa rimanere sotto ai ferri e prendere in mano uno di essi, usarlo per torturare altri. Perdere uno dei pezzi che rimanevano della mia umanità per salvarti non sembrava un prezzo troppo alto.
Condurre, poi, il Secondo Stratega nel mio letto, mi aveva dato la certezza che saresti sopravvissuta.
Non sono riuscito a salvarti, nonostante tutto.
Quella parte di te che è morta negli Hunger Games non ho potuto barattarla, ma l'avrei fatto.

«Se tu dovessi star male, corri da me. Non perché io voglia approfittare della tua debolezza, ma perché tu possa approfittare della mia.»

Labbra umide di lacrime, le mie lacrime sulle tue labbra, la mia lingua assaporava le tue.
Avrei voluto che mi appartenessero, ma venivano da un mondo che non potevo toccare, ed infestava i tuoi incubi; incubi che non sopraggiungevano solo di notte.

Quando piangevo, tu asciugavi tutte le mie lacrime.
Quando urlavi, io combattevo contro tutte le tue paure.
Eravamo due vite spezzate dalla crudeltà umana, due vite logorate da una vita che non ci aveva mai elargito sorrisi.
Con la tua mano nella mia, e una barca sotto di noi, ti dicevo che non esisteva posto in cui non avremmo potuto andare.
Poco a poco, ti ho donato tutto di me, e tu mi hai dato così tanto di te che potrei dedicare una poesia ad ogni momento che hai condiviso con me, ad ogni tua espressione del viso.

« Annie, tu non sarai sola. »

Se ti sentirai sola, e il bagliore del presente ti renderà difficile da trovarmi, sappi solo che sono sempre dall'altra parte, a guardarti.
Dai semplicemente uno sguardo al passato, mi troverai, e ti spingerò ad andare avanti.
Dovrai essere forte. Dovrai essere come le onde del mare, che non si stancano mai di infrangersi sulle rocce.

Non avrei voluto perderti, non ora, non così.
Proprio adesso che avremmo potuto cominciare a vivere senza paura, proprio adesso che avevo concluso lo spettacolo, quell'opera strabiliante quanto estenuante, che avevo messo in scena agli occhi del mondo.
Eppure, non posso non essere felice di essere riuscito a vederti con indosso un abito da sposa, e che quello che aveva indossato l'abito da sposo fossi stato io.
Non posso che essere sollevato: tu ora sei al sicuro e nessuno ti farà più del male, mai più.
Forse, però, per me è più facile dire queste cose.
Sono io che sto morendo.

 

Queste che mi strappano la carne dalle braccia non sono artigli.
E' Mags che mi toglie le coperte calde all'improvviso, in inverno, quando sono troppo pigro persino per fare colazione.
Queste che mi afferrano la testa non sono zampe.
E' la rete da pesca che mia sorella mi ha gettato addosso per prendermi e portarmi dal medico quando non volevo andarci.
Quel bagliore bianco, che capto con l'occhio ancora buono, appartiene ai denti dell'Ibrido che calano sulla mia gola tesa.

Vedere il tuo viso illuminarsi quando posi gli occhi su di me è tutto ciò che ha sanato le mie ferite fin'ora.
Vedere il tuo viso illuminarsi quando posi gli occhi su di me e sorridi con quell'innocenza che è solo tua, è tutto ciò che voglio vedere ora.
L'espressione impaziente che hai finché i tuoi occhi non mi trovano, e la tua serenità quando finalmente mi getti le braccia al collo, sono i ricordi con cui voglio dire addio, anche se me ne sono già andato.

« Tu non sarai sola. Io non ti lascerò mai sola.»

 

 

 

 

- Inside the Box-

E' la prima volta che scrivo qualcosa riguardo a questa serie, uscendo da un fandom che mi sta tenendo impegnata in una long-fic che sta assumendo le dimensioni letterarie e quantitative dell'Odissea.
E' liberatorio scrivere qualcosa di diverso, ogni tanto, prendersi la pausa dagli intrecci di un fandom e scrivere di un altro, sopratutto se quest'altro è Hunger Games.
L'ho letto in un periodo in cui avevo bisogno di sangue e arti che volano, e tra queste pagine ho trovato molto di più. No, non parlo delle storie d'amore dei personaggi o dei loro legami. Parlo della rivoluzione, della sollevazione di un popolo contro il proprio tiranno... per poi piazzarne un altro.

Suzanne Collins ha catturato esattamente l'essenza degli esseri umani, egoista e cinica, per dare vita ad una trilogia che mi ha tenuta con il fiato sospeso fino alla fine. Ha dato la sua visione oggettiva dell'umanità, una visione da cui non ne esce molto bene, e in cui mi ritrovo al 100%, sia come critica che come oggetto di critica.
La Collins non ha indorato la pillola ai lettori né riguardo alle pratiche di Capitol City, né riguardo ai tratti più spigolosi dei caratteri dei personaggi, partendo dalla sua protagonista.Ciò che mi ha colpito non è stato tanto il contenuto (anche se di per sé innovativo, detto da una che ha letto Battle Royale), bensì il modo in cui è stata raccontata la storia e come l'autrice abbia trattato alcune tematiche delicate, di cui si parla poco o sottovoce. Povertà, fame, corruzione, prostituzione, disagi mentali, tortura. Tutti argomenti che sono stati raccontati esattamente per ciò che sono, ovvero una diretta conseguenza della guerra, e non nella versione edulcolorata che propongono scuola, telegiornale, o altri autori.

Per quanto io sia legata al fandom di Harry Potter, zia Row ha sempre cercato di giustificare le morti dei suoi personaggi, dandone una edificante per ciascuno. In Hunger Games non tutti quelli che muoiono sono quelli che combattono per la causa, o si sacrificano al posto di qualcun altro, salvando la situazione. Suzanne è riuscita a dare un tocco più realistico a tutto questo, ha dato una chiara visione di cosa è una guerra.

Passando alla fiction,

Questa è il mio primo tentativo di scrivere qualcosa di corto. Solitamente uso tante di quelle descrizioni e aggettivi che spingono la mia betareader a rinfacciarmi la mia ossessione di scrivere una fanfic scena per scena, e di dipingerne ogni particolare. Stavolta, ho tentato qualcosa di diverso, e spero vi piaccia. Finnick è stato uno dei personaggi di cui mi sono innamorata istantaneamente, alla prima battuta, insieme a Annie, e mi dispiace che la Collins non gli abbia dedicato almeno un romanzo... mi sarei accontentata anche solo di un tovagliolo da ristorante con i suoi appunti sul suo background çwç

Qui ho cercato di catturare i suoi ultimi istanti di vita, anche se mi piacerebbe entrare molto più in molti dettagli della sua storia che non hanno visto la luce del sole nemmeno nelle fanfiction.
Le frasi tra le virgolette vengono dai ricordi che Finnick evoca man mano che si avvicina la sua fine, anche se non sono mie: salvo la prima, provengono da persone molto speciali che, oltre ad essere schifosamente adorabili, hanno anche la pazienza di accettare ogni cosa di me. E la fanfiction, in fondo, verte proprio su questo.

Sulla capacità non solo di accettare gli altrui difetti, ma di conoscerli a menadito e sostenersi a vicenda.
Una versione molto smelensa dell'amicizia e dell'amore, penserete, ma credo che nulla meglio di un aderente come la smelensità(?) possa tenere unite due persone in un mondo come quello di Panem, dove ogni giorno è incertezza.

   
 
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