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Autore: kk549210    08/09/2013    5 recensioni
Un giovane chirurgo di "Medici senza frontiere" a confronto con l'orrore della guerra e con un'eredità familiare che sente sempre più pesante.
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: AJ Roberts, Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Cuore di padre'
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L’ODORE DEL SANGUE
 
Disclaimer: i personaggi e il marchio JAG sono di proprietà di Donald P. Bellisario. Questo testo è stato scritto senza scopo di lucro.
 
 
NdA:  Qualcuno forse arriccerà il naso di fronte a una fanfiction che a prima vista non sembra tale. Ma in questi giorni, mentre da Washington spirano nuovi venti di guerra, mi è venuto da chiedermi se i figli del JAG, divenuti adulti, potranno condividere i valori dei propri genitori. E quindi ho provato a darmi una risposta, che non è detto che sia quella più ovvia o priva di conflitti.  
 



 
Dolore. Grida strazianti di dolore. Paura. Orrore. Gli occhi scuri dei bambini che imploravano aiuto. Vite acerbe dilaniate dalle mortali mine-giocattolo disseminate nei campi. Piccole braccia, gambe minuscole da cui si dovevano estrarre frammenti metallici e amputare. Il bisturi entrava nella carne, tagliava via non solo gli arti di quelle vittime, ma anche la loro stessa vita, le loro speranze, il loro futuro di uomini.  Vite ridotte a monconi in una terra arida, senz’acqua, senza pane e senza grazia. Le madri avvolte nelle loro vesti affascinanti e variopinte, il loro sguardo disperato in fondo al quale si udiva un agghiacciante grido di straziato dolore. I padri massacrati al fronte, con gli occhi che rimanevano digrignati di fronte alla violenza dell’invasore. I neonati che venivano alla luce con le orecchie già assordate dalle raffiche di mitra. I vecchi sepolti dal crollo delle casupole distrutte dall’ennesimo attacco di una squadriglia di cacciabombardieri. Corpi senili accartocciati come sottili fogli di carta velina, il loro respiro fioco che non voleva spegnersi, che resisteva ancora un po’ per invocare pietà e giustizia, per poi spegnersi nella notte.
 
E il sangue. L’odore del sangue che gli passava attraverso i guanti da chirurgo, che gli si insinuava sotto la pelle e bruciava le viscere e il cuore. Quella puzza esiziale che neppure l’odore del disinfettante o dell’etere potevano lavare via dall’ospedale da campo, dalla sua mente, dai suoi sogni. Neppure la notte, la grande notte africana dal magico potere, in cui le stelle sembrano davvero più grandi che altrove, poteva placarlo. L’odore del sangue gli si insinuava anche nei sogni, consumati  senza riposo nella piccola brandina. E le immagini dei feriti, dei morti che aveva visto in quei primi sei mesi di servizio in “Medici senza frontiere” si andavano assiepando nella sua mente anche quando era sveglio. Una folla sempre più fitta di larve insanguinate e urlanti che non lo abbandonavano mai.
 
Danni collaterali, li chiamavano nei telegiornali della ZNN. Così dicevano i Signori della Guerra quando l’ennesima strage di vittime innocenti era irrimediabilmente consumata. E anche in casa ne aveva sentito parlare, fin da piccolo, quando suo padre e il suo padrino discutevano di qualche scottante caso di giustizia militare in zona di guerra.
 
Ora si vergognava di tutto. Del suo paese, che ora ingaggiava l’ennesima guerra in un luogo lontano da casa, in una minuscola casella dello scacchiere geopolitico divenuta strategica e, dicevano a Washington, minacciosa per la sicurezza nazionale. Di suo padre e di sua madre, ufficiali di Marina. Del suo eroe infantile, Harmon Rabb jr, pilota di F-14 che chissà quante volte, volando adrenalinico nell’alto dei cieli, si era schizzato col sangue di uomini donne bambini che mai avrebbe visto nemmeno in faccia. Ora si vergognava persino del proprio nome. L’avevano chiamato AJ in onore dell’ammiraglio che lo aveva fatto nascere. Quelle stesse mani che lo avevano estratto dal ventre caldo e accogliente di sua madre si erano insudiciate nel carnaio fangoso del Vietnam.          
 
 
 
 
Il giovane medico biondo uscì all’aperto per respirare aria fresca e si sedette su una pietra. L’immensa coperta del cielo stellato e la sconfinata savana ferita e bruciata lo accoglievano, come i genitori adottivi che si era scelto. Non aveva ascoltato i consigli di papà e mamma, che lo volevano chirurgo in qualche ospedale di Washington, a estirpare le appendiciti delle adolescenti brufolose con la borsetta di Gucci o a frantumare i calcoli renali di qualche senatore neokennediano. I suoi lo volevano come un pulcino, dentro al nido domestico. Un nido malato in cui si avallava la distruzione di quello altrui.  
Nell’oscurità vide stagliarsi una mano che gli porgeva una tazza di latta.  
-Vuoi un tè, AJ?
-Grazie.
L’uomo si sedette al suo fianco a sorbire anch’egli il suo tè. In silenzio. Era Stefano, il medico italiano che dirigeva l’unità operativa a cui AJ era stato assegnato. Un piccolo quarantenne bruno, abbronzato dalle tante missioni, un chirurgo dai modi gentili e dalle intuizioni cliniche eccezionali. Quell’uomo aveva qualcosa che attraeva e allo stesso tempo sconvolgeva il giovane collega. Sul suo viso coperto dalla barba si accendeva spesso il sorriso, a dispetto delle durissime condizioni di vita e di lavoro. Quando teneva tra le braccia un bambino appena nato o accompagnava un moribondo verso l’ultimo viaggio. Nelle pause dai turni massacranti, quando giocava a carte con i convalescenti o cullava la sua bambina più piccola. Persino quando si avvicinava alla ferita più agghiacciante e incurabile, Stefano conservava un volto sereno. Ma la cosa che più sconcertava AJ era che il suo sorriso gli ricordava tanto quello dello zio Harm. Era lo stesso raggio di luce magnetico che può illuminare il viso di un uomo. Com’era possibile? Nella mente di AJ quei due volti si affrontavano a duello.
 
 
Stefano si era accorto da tempo del turbamento del suo inesperto collaboratore. Ne aveva visti tanti, giovani soprattutto, animati da ideali di giustizia, col desiderio bruciante di cambiare il mondo, che si erano poi inariditi o erano scappati via sconvolti. Rimase in silenzio, vicino a lui, senza turbare la greve intimità dei suoi pensieri.  
 
-Hai mai odiato tuo padre? – gli chiese a un tratto AJ.
Stefano mise i suoi occhi scuri in quelli azzurri del giovane.
-Hai voglia! Quando avevo sedici anni, e lui mi mollava dei sonori ceffoni perché prendevo quattro in greco. Oppure quando non voleva che mi perdessi dietro alla mia prima ragazza, una biondina con delle gambe chilometriche.
-Sul serio, Stefano.
-No, è anche grazie a lui se sono qui. Sai, io sono figlio d’arte. Mio padre ha fatto il medico per quarant’anni, in Italia. Quando finiva di lavorare in ospedale, aveva sempre tempo per qualche parente o amico ammalato. Per dargli cure e conforto. E il suo sorriso, soprattutto. Un farmaco segreto.
“Il suo sorriso…” pensò AJ.
-Io non so più chi sono. Odio tutto e tutti. Mi vergogno di essere americano. È come se li avessi massacrati io, quegli stessi uomini che mi illudo di salvare. Mi vergogno di mio padre e della sua gamba artificiale… è un militare, se l’è cercata, quella mina.
-Non essere così duro…
-E dire che da bambino ero così fiero di lui. Un eroe di guerra. E anche del mio padrino, un Top Gun della Marina. Desert Storm, Bosnia, Kossovo, Afghanistan…
-Non possiamo farci carico del mondo intero. Loro hanno fatto la loro scelta. Tu hai fatto la tua… A volte penso che le mie figlie prima o poi mi odieranno per questa vita che ho scelto per loro. Ma vado avanti lo stesso, perché è giusto così.
-La giustizia… la giustizia, ma c’è  giustizia al mondo?
-No. È proprio per questo che dobbiamo continuare a lottare.
-Una battaglia persa. Una garza minuscola per un mare di sangue…
-… ma è quello che dà senso alla nostra vita.
 
 
AJ si chiuse in un meditativo silenzio. Le parole del medico italiano scendevano goccia a goccia nel suo cuore, lavando un po’ via quell’angoscia che si era accumulata. I suoi genitori gli avevano dato la vita, ora toccava a lui spendersela nel modo migliore. Non poteva salvare il mondo, forse solo poche vite, ma poteva salvare se stesso.
Stefano vide il viso del giovane biondo atteggiarsi più serenamente. Per alleggerire ulteriormente il suo peso, si frugò in tasca e ne estrasse un piccolo pacchettino di carta stagnola.
-Vuoi un po’ di cioccolato fondente? - disse sorridente, mettendogli una mano sulla spalla - La fanno in una piccola fabbrica vicino al mio paese. La conservo nel frigorifero, ma non dirlo in giro…
AJ annuì, rincuorato anche dal dolce intermezzo. Quell’uomo era davvero un mago.   
-Me la manda mio padre, l’uomo più goloso del mondo!
-Non hai mai conosciuto il mio… - sorrise AJ.
  
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