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Autore: nitidi sogni    09/09/2013    0 recensioni
Una malattia, che solo alla fine, si scopre legata ad un dramma.
La morte che arriva, senza dare troppo preavviso.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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'Un senso a tutto questo.'


La casa sembra rimpicciolirsi ad ogni respiro.
Come se stessi divorando l’aria, in assenza di qualcosa di più solido e concreto. In assenza di cibo.
Sento il sangue scorrermi nelle vene, in modo più veloce, meno preciso. Come piccole scariche elettriche, che mi schiacciano prepotenti al suolo.
Inizio a tremare impotente al volere del mio corpo, stanco, afflitto, senza forze.
L’ho devastato. L’ho distrutto. L’ho portato al limite.
Cerco di allungare il braccio per afferrare il cellulare poggiato sul comodino, ma mentre sto per arrivarci, il mio braccio cede.
Il mio cervello continua a dirmi che il mio corpo mi sta punendo, che sono stata una stupida, che merito il dolore che mi provocano le ossa sul pavimento.
Questa stanza è sempre più calda, e il cuore batte sempre di meno, sta rallentando. Sto morendo.
Riesco impercettibilmente a voltare la testa a sinistra. Il mio sguardo si posa su due fotografie appese alla parete bianca, un po’ vuota.
L’ho svuotata col passare del tempo, mentre la malattia mi divorava, mi sembrava giusto, coerente, buttare tutto il resto. Cestinare il mio corpo, insieme ai miei ricordi.
Prima quella parete era di un colore acceso. Il mio preferito. Era fucsia, come le mie vans. Come il vestitino del mio quattordicesimo compleanno, quello che non posso più indossare, perché non ‘valorizza’ le mie curve, come aveva detto la commessa del negozio.
Prima questa parete, era piena di fotografie dei miei viaggi, dei miei amici, era piena di me. Era piena come me.
Solo che quando sono caduta in questo baratro, a me non piaceva il pieno, per me ero troppo, paradossalmente preferivo essere poco. Quel poco che a volte basta. Non quel troppo che a volte, ma anche troppo spesso stanca.
Le due fotografie ritraggono me prima del buco nero, e dopo. Come volessi ricordare a me stessa giorno per giorno la differenza che sono riuscita a fare. Come se dovessi ricordare a me stessa il senso di quello che stessi provando a fare, e solo adesso, quando ormai il mio cuore sta per cedere, capisco che un senso tutto questo non ce l’ha mai avuto.
Nella seconda fotografia manca qualcosa. Manca qualcuno.
E me ne accorgo solo ora.
I miei occhi appannati dalle lacrime, dalla paura, dalla morte che si avvicina, cercando di non fare troppo rumore, riescono a scorgere quella sottile differenza tra le due foto.
Manca mio padre.
Nella prima foto mi tiene stretta per i fianchi, evidenziandoli un po’ troppo. Normalmente quella foto, non mi sarebbe piaciuta. Ma una volta tornati da Parigi, l’ho istintivamente stampata e attaccata al muro dei ricordi, che ora come ora sembra solo il muro della paura.
Nella seconda foto sono sola, e guardo qualcosa. Guardo il cielo.
E forse ora solo capisco, il perché quelle due foto siano ancora lì.
Sono legate da lui.
Mi spunta un piccolo sorriso, all’angolo delle labbra.


Sento mia madre spalancare la porta, e chiedere disperatamente aiuto, gridando come non l’avevo sentita fare mai. Neanche con papà.
Arrivano i soccorsi, e le mie orecchie, riescono solo a sentire un suono di una sirena, e la voce dolce e chiara di un paramedico.
Ma io sto già andando.
Loro, non lo sanno, ma io tra la speranza e la paura, sto già volando via.
Finalmente trovo un senso piccolo e nascosto, a tutto questo.
  
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