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Autore: Rage Ramone    09/09/2013    8 recensioni
Ecco a voi una storiella, un colpo d'ispirazione, più che altro, ma ciò che più importa, è una Bike.
Una reinterpretazione di un sogno, un sogno che mi ha fatta deprimere per un'estate intera.
Una storia, la storia: quella di Mike, un bambino con un cuore mal funzionante ma in grado di dare amore.
La storia di due ragazzi vissuta sulla pelle e con gli occhi di un bambino, dietro i vetri di camera sua.
Non vado molto fiera, di ciò che ho scritto. Come sempre, del resto.
Ma sappiate che le opinioni sono sempre ben accette, e spero davvero che il mortorio in cui è caduto il fandom si, in qualche modo, risvegli.
We are a family, we need you. I need you. (cit)
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A StrychnineTwitch perché sono una stronza che dimentica i compleanni e mi dovevo far perdonare.
Auguri in ritardissimo, Stry, e grazie per tutto quello che hai fatto per il fandom e per me.


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Mike era un abitudinario, ormai. Un piccolo bambino con le sue piccole abitudini.
Ogni mattina, non appena sveglio, apriva la piccola finestra di camera sua e gettava lo sguardo in basso, sul prato del parco giochi sottostante.
Era estate, e, come tutti i bambini della sua età, non era costretto ad andare a scuola: poteva restare a fissare le figure in movimento sotto di se per tutto il giorno, e ne era felice.
Gli piaceva osservare le persone e, dall’alto della sua finestra, ci riusciva senza che questi si sentissero osservati, in tutta la loro naturale e spontanea quotidianità.
Se Mike fosse stato un bambino come tutti gli altri, probabilmente, avrebbe trascorso l’estate a giocare,laggiù, sotto l’ombra delle gigantesche querce che lui tanto odiava: le imponenti chiome gl’impedivano di avere una visuale completa del parco giochi.
Se Mike fosse stato un bambino normale, molto probabilmente, avrebbe trascorso l’intera estate a chiacchierare con l’anziano uomo che portava il cane a fare i suoi bisogni ogni mattina, o con la donna di colore che sedeva sulla panchina,tutti i venerdì pomeriggio dalle tre alle cinque, e che,con occhio fisso, vegliava rigida sui suoi figli, lo sguardo ebano aggrappato ai loro vestini, correva fluido da una parte all’altra del parco.
Mike non era un bambino come tutti gli altri, però. Mike non era un bambino normale.
Gli altri bambini potevano correre, gli altri bambini potevano saltare, gli altri bambini potevano arrampicarsi sugli alberi. Lui no.
E questo non perché gli mancasse una gamba o un braccio, ma semplicemente aria nei polmoni. Il suo cuore non riusciva a sopportare neanche il fiatone da scale: era soggetto spessissimo ad attacchi cardiaci o di panico, e i medici dissero che non vi era più alcuna speranza per lui, povero piccolo pargolo.
Sua madre, apprensiva donna sulla quarantina, gli aveva severamente vietato di giocare con gli altri bambini, e così lui trascorreva intere giornate chiuso nella sua cameraa guardare, fuori dalla finestra, il tornado di vestiti colorati che volteggiava armonioso sul prato, le risate felici e lo scalpore di giovani piedini correre sul prato.
Spesso, Mike, si chiedeva come facessero, bambini più piccoli di lui, a percorrere più di due metri correndo senza fermarsi a riprendere fiato.
Spesso, Mike, sorrideva. Sì, sorrideva. Immaginava  il suo sorriso sdentato tra quelli dei bambini sotto di sé, immaginava le sue gambe, lunghe e rachitiche, correre dietro quel pallone, verso la porta immaginaria delimitata da un lampione e un albero, per poi calciare in rete, le grida idolatrici dei compagni di squadra fargli i complimenti per il magnifico goal.
Immaginava come sarebbe stato bello, essere “un bambino normale” anche solo per un giorno, e di come sarebbe stato meraviglioso avere delle persone con cui giocare, delle persone che  potesse considerare amiche.
A Mike piaceva perdersi in intrepidi viaggi, destinati a finire troppo presto ogni volta, perché, almeno con la fantasia, lui era in grado di correre veloce quanto voleva.
Disegnava, disegnava se stesso su una montagna o al mare, un piccolo cuoricino rosso all’angolo del petto: almeno nei suoi disegni voleva rendere carnale la presenza dell’organo in se stesso.
Mike era un abitudinario. E, com’era solito fare ogni mattina, spalancò la finestra e strabuzzò leggermente gli occhi, infastidito dalla luce del sole che, anche quella mattina, intiepidiva appena la città, ancora striminzita dal freddo notturno, ancora bagnata dalla  tenera rugiada estiva.
L’aria tiepida gli carezzò il viso.
Si accoccolò sul davanzale, mentre nei suoi occhi azzurri si specchiò la figura di un ragazzo, sui diciassette anni, seduto sulla sua solita altalena. Mike sorrise: sperava di trovarlo lì. Anzi, sapeva che lo avrebbe trovato lì: esattamente come ogni mattina.
Lo scrutò: abbastanza basso per la sua età, capelli corvini, arruffati, e giganteschi occhi verdi dei quali ne poteva ammirare lo splendore anche da lontano. Lo conosceva molto bene, ormai, datosi che, tutte le mattine, lui, restava fermo, su quell’altalena ad aspettare il suo ragazzo. Già, avete capito bene: il suo ragazzo. Perché, sì, a quanto pare, quel giovane dagli occhi verdi era gay.
Mike non conosceva il significato della parola “gay”, lui conosceva solo l’ amore, anche se non sulla propria pelle.
Ogni mattina, quel ragazzo, arrivava al parco, dava un’occhiata attorno a se, si sfilava lo zaino dalle spalle e sedeva sull’altalena.
Tirava fuori il suo walkman e ne indossava le cuffie.
Il silenzio nel parco era abissale, nemmeno gli uccelli o le cicale si permettevano di spezzare quell’atmosfera magica, e lui, credendo di essere solo e inosservato, cominciava a cantare.
Canzoni che diventarono le sue preferite, canzoni che Mike, curioso, si ostinava a cercare tra i cd di suo padre, ascoltandone uno per uno, senza mai riuscire a trovarle. La voce di quel ragazzo era meravigliosa e Mike non ricordava di aver mai sentito un suono tanto più meraviglioso. Le note viaggiavano, insieme alla brezza mattutina, danzavano nell’aria tra le fronde umide delle querce e lo raggiungevano, cullavano, in tutta la loro dolcezza.
Si beava di quella musica, finché non vedeva un movimento alle sue spalle e sorrideva, perché sapeva cosa sarebbe avvenuto a breve.
Un ragazzo dai capelli biondi, fisico alto e tonificato, gli si avvicinava di soppiatto. Quasi gli mancava il respiro, sentiva il bisogno di respirare profondamente e di non fare rumore, come se fosse lui stesso colui che stava organizzando l’agguato, la tensione che guizzava sottopelle e il cuore che batteva a mille: era sicuramente la parte che preferiva in assoluto.
Il ragazzo biondo si avvicinava di più, di più, sempre di più e una volta giunto alle spalle del moro si asciugava le mani sui jeans scoloriti e Mike non ne aveva mai capito il motivo. Poi soffocava una risata, realizzato, vedendo il biondo coprire gli occhi del compagno con le sue mani, da dietro. Era una cosa che andava avanti da anni: ogni giorno sempre lo stesso rituale. Ma più passavano i giorni, più Mike si rendeva conto di quanto quella cosa fosse dolce: la più meravigliosa, sul pianeta Terra.
Poteva vederli sorridere contemporaneamente, sentire un brivido attraversare completamente il biondo, scivolare lungo la schiena, proprio come una goccia di rugiada che cade da una foglia dopo aver attraversato ogni sua venatura, quando il moro sfiorava le mani del compagno con le proprie.
Le loro risate, cristalline, echeggiavano lungo tutto il cortile.
Lo lasciava, e il ragazzo dagli occhi verdi voltava il viso verso di lui. Lo vedeva afferrare le catene dell’altalena e imporsi sopra il proprio compagno, sfiorare il suo mento con il naso adunco e le labbra carnose del compagno con le proprie, morbide e sottili.
Colui che sedeva sull’altalena, a questo punto, era solito sfilarsi  il walkman dalle orecchie, incorniciare il volto del fidanzato afferrandone i capelli e lisciandoli delicatamente tra le dita, mentre le mani dell’altro scivolavano piano lungo le catene per cingere i suoi fianchi, pizzicare il collo con la sua lingua.
Poteva sentire i loro gemiti echeggiare, trasportati dal vento come foglie secche in autunno fino alla sua finestra e poi nulla: la pelle d’oca, la felicità impregnante un cuore che, da qualche parte, dentro di lui, scalpitava come un cavallo selvaggio.
Mike ricordò la prima volta che li colse in flagrante: due ragazzi? Due maschi?
Era confuso all’inizio, perfino disgustato, ma più li guardava, più non riusciva a fare a meno di scoprire tutto il sentimento che il loro linguaggio corporale trasudava, tutta la passione con il quale l’uno si occupava dell’altro. I loro sguardi valevano più di mille parole.
Più restava lì, a fissarli, più si rendeva conto che quei due erano meravigliosi, insieme: fatti l’uno per l’altro.
Si completavano, come due parti mancanti di un puzzle: destinati a stare insieme.
Vedeva amore. Quello vero. Non come quello dei suoi genitori, o come quello che sua madre nutriva nei confronti dei numerosi uomini che portava in casa. No.
Più li guardava, più si rendeva conto che l’amore non aveva sesso, colore di pelle o parametri precisi da rispettare, e che l’amore vero si ritrova davvero nei posti più inspiegabili, come ogni cosa bella della vita, del resto.
Che le anime gemelle, spesso e volentieri, sono quelle che si assomigliano di meno.
Più li guardava e più si rendeva conto che quei quotidiani gesti, quei gesti ormai meccanici, abitudinali, erano perfetti, meravigliosi, ogni giorno come se fosse il primo, ogni giorno sempre meglio.
E poi restavano lì, a coccolarsi, spingersi sull’altalena, ridere e baciarsi. Per poi raccogliere i loro zaini, gettati sotto una delle querce che Mike tanto odiava, e allontanarsi verso la stazione dell’autobus. Mano nella mano.
Il bambino li fissava allontanarsi, con la felicità nel cuore: quelle pomiciate facevano letteralmente le sue giornate, e lui non riusciva a capire neanche perché. Lo rendevano inspiegabilmente felice.
Più li guardava, più capiva cos’era realmente l’amore.
E così era tutte le mattine: Mike si svegliava, apriva la finestra e si godeva lo spettacolo. Come da routine.
Solo di domenica, quando entrambi non dovevano andare a scuola, poteva permettersi di dormire fino a tardi: sapeva che la domenica, quei due, non s’incontravano e che, quindi, non si sarebbe perso nulla.
Mike odiava la domenica.




Mike era un abitudinario. Un piccolo bambino con le sue piccole abitudini.
Ogni mattina si alzava e apriva la finestra. Ogni mattina si divertiva nel vedere una coppia di ragazzi che si coccolava nel parco.
Quella mattina non era una domenica.
Quella mattina, Mike, aprì la finestra e  guardò verso l’altalena.
Quella mattina, Mike, scoprì che su quell’altalena non c’era nessuno.
Aspettò per svariati minuti, svariate ore, prima di realizzare che quel ragazzo non sarebbe venuto.
Chiuse la finestra e tornò a letto: poteva capitare, del resto. No? Forse stava male, o forse uno dei due aveva un impegno, pensò.
Lo stesso accadde il giorno dopo, e così anche il giorno dopo ancora.
Mike era triste, ma non si dava per vinto: non avrebbe mai perso la speranza. Era un abitudinario, e le abitudini restavano abitudini.
Il quarto giorno aprì la finestra e, finalmente, lo vide.
Mike era triste ugualmente, però, perché il ragazzo dai capelli corvini, quella mattina, non aveva il suo walkman.
Restava fermo, immobile, senza neanche dondolarsi un pochino, su quell’altalena. Non cantava, e Mike era triste.
Il silenzio era abissale. Una lacrima. Una lacrima talmente grossa che Mike la potette scorgere anche dall’alto della sua finestra.
Una lacrima che, rumorosa, si frantumò sul prato. Il silenzio era talmente straziante che il suo plic giunse fino alle sue orecchie.
Mike era triste, ma era in buona compagnia.
Scrutava un punto indefinito dietro la figura sull’altalena.
“Avanti, andiamo! Vieni fuori, bastardo! Vieni a consolare il tuo compagno.” Sussurrava tra i denti il bambino. Avrebbe pagato per rivedere il sorriso di quei ragazzi, per vederli ancora insieme, allontanarsi mano nella mano, ridenti. Felici.
Mike sapeva, però, che c’erano cose che non si potevano comprare.
Passavano i minuti, e il ragazzo biondo non arrivava. Le lacrime del moro erano come delle grosse lame affilate, e Mike non poteva fare a meno di piangere con lui, silenzioso.
Il silenzio era talmente abissale, che si poteva sentire il lento scricchiolio del suo cuore spezzarsi.
Il silenzio era talmente freddo, che poteva sentire il calore delle sue lacrime sfregiargli il viso.
Il silenzio era talmente disarmante, che quando i suoi singhiozzi rimbombarono tra le fronde, una ventata d’aria gelida colpì in pieno viso Mike, facendogli battere i denti dal freddo.
Il ragazzo biondo non sarebbe venuto, Mike lo sapeva. E probabilmente anche il ragazzo dagli occhi verdi lo sapeva.
Si alzò dalla sua altalena, incamminandosi da solo verso la fermata dell’autobus.
Mike sentì la rabbia montargli dentro, vedendo quelle mani infilate nelle tasche della felpa: non era quello il loro posto, ma intrecciatetra le dita del suo ragazzo.
Così accadde anche il giorno dopo.
Mike cominciò ad odiare il ragazzo biondo. Perché non si presentava all’appuntamento? Perché faceva soffrire così tanto la persona che amava? Perché l’aveva lasciato da solo?
La cosa si ripetette il giorno dopo, e il giorno dopo ancora.
Mike, tutte le mattina, coglieva al volo le lacrime che il vento trasportava fino alla sua finestra, e sussurrava, quasi fosse la brezza.
-Non piangere, piccolo. Non piangere così.-
L’estate continuò in questo modo, e il ragazzo biondo non arrivò. Sia lui che il ragazzo dagli occhi verdi, però, lo avrebbero aspettato all’infinito, e questo lui lo sapeva.
Ormai Mike si considerava il suo angelo custode, vegliava su di lui ogni mattina, e, anche se non si trovava esattamente al suo fianco, lo faceva sfogare sulla sua spalla, avrebbe tanto voluto carezzargli la morbida testa corvina e dirgli che ogni cosa sarebbe andata bene.

Mike quella mattina, non riuscì ad affacciarsi alla sua finestra. Osservava la sua stanza: vi erano scatoloni ovunque.
Infilò il suo astuccio colmo di colori e il block notes in uno di questi, prima di chiudere e sigillarlo con lo scotch: glielo aveva insegnato suo padre, una volta.
La figura snella della madre si materializzò sullo stipite della porta.
-Sei pronto?-
Il bambino si voltò verso di lei, annuendo silenziosamente.
Fuori dall’edificio, ad attenderli, vi erano due grossi camion per i traslochi: uno per loro, l’altro per i nuovi proprietari della casa.
Non avrebbero dovuto cambiare città, fortunatamente: si sarebbero semplicemente traferiti in una casa più grande, non molto lontano da lì.
Si avvicinarono ai nuovi proprietari di quella che ormai non era più la loro casa: sua madre aveva concluso un buon affare, vendendo l’abitazione.
I nuovi proprietari erano una giovane coppia, con un figlio di tre mesi. Molto piccolo.
Sua madre si avvicinò al passeggino.
-Hai visto quant’è carino, Mike? Pensa che questo cucciolo, ora, dormirà nella tua ex cameretta!-  chiocciò, per poi rivolgere un sorriso enorme alla coppia. Mike si avvicinò al fagotto azzurro: due occhioni dello stesso colore lo fissavano incuriositi.
Una lacrima attraversò la guancia lentigginosa del piccolo Mike: come avrebbe fatto, il ragazzo dagli occhi verdi, ora? Nessuno avrebbe vegliato su di lui.
-Devi farmi una promessa.- sussurrò Mike. -Promettimi che avrai cura del ragazzo sull’altalena.-
Il bambino allungò le mani, chiuse a pugno, verso di lui, scalciando leggermente i piedi.
-Promettimi- continuò -che veglierai su di lui come se fossi il suo angelo custode.-
Quei due grandi occhi azzurri continuavano a fissarlo.
-Sai cos’è un angelo custode?-
Non ricevette risposta: lo prese come un “no”.
-Devi essere l’unica persona che si troverà al suo fianco quando non ci sarà nessuno ad aiutarlo, dovrai alzarti tutte le mattine per vederlo piangere, sussurrare al vento parole dolci: lui gliele riferirà. Non dovrai farlo soffrire, devi essere legato a lui empaticamente e soffrirai insieme a lui: non dovrai farlo sentire solo al mondo, perché ha già sofferto troppo.-
Il bambino continuava a fissarlo, mentre le lacrime scorrevano ininterrottamente sulle sue gote.
-Promettimelo!- ordinò poi.
Il bambino sorrise, mostrando la bocca sdentata, la linguetta rossa. Mike ricambiò il sorriso.
-Grazie.-
Diede uno sguardo al vento carezzare le fronde verdi, sentì il sapore dell’alba, sentì il tepore salato delle sue lacrime.
Si voltò verso la propria madre, intenta a chiacchierare con la coppia.
Decise di allontanarsi, fino ad arrivare al muretto che divideva il parco dalla strada.
Aveva deciso.
Fece un grosso respiro, colmando completamente i suoi polmoni, e si aggrappò al muro per scavalcarlo.
Quando fu dall’altra parte si accasciò due minuti al suolo per riprendere fiato, il cuore pulsava insistentemente nel petto.
Si alzò barcollando, incamminandosi lungo un sentiero sterrato, per poi giungere vicino ad una siepe. La riconobbe: era quella da cui spuntava tutte le mattine il ragazzo biondo per cogliere il suo ragazzo di sorpresa e coprirgli gli occhi da dietro. Vide un varco tra le foglie e lo seguì, spostando di tanto in tanto qualche ramo che gl’intralciava la strada.
Scorse tra i rami una figura seduta su un’altalena.
Ridusse gli occhi ad una fessura, per poi spalancarli nuovamente, stupito: non era quella figura. Non era quel ragazzo.
Si avvicinò di più, per poi rimanere immobile. Un singhiozzo tagliò l’aria. Un colpo al cuore.
Un bambino era seduto al posto del ragazzo. Un bambino con dei morbidi ricci castani.
Si dondolava appena, spinto dal vento: i piedi non toccavano terra. Era piccolo, minuto. Gracile.
Lo sentiva piangere. Una profonda fitta al petto. Era così… fragile. Così solo.
Si avvicinò lentamente, lasciando il suo nascondiglio tra le foglie. Si avvicinò piano: era alle sue spalle.
Mike era agitato, sotto pressione. Sentì le mani grondare di sudore e se le asciugò velocemente sui pantaloni: ora capiva perché anche il ragazzo biondo lo faceva ogni volta.
Si avvicinò ancora, fino ad essergli vicinissimo.
Avrebbe potuto allungare la mano per toccarlo. Gli posò le mani sugli occhi e lo sentì sussultare. Un dejavù.
No, non poteva capitare proprio a lui. Non era possibile.
-Chi sei?-
La sua voce. Il suo cuore mancò di un battito, e per un attimo, Mike, fu convinto che un attacco di panico stesse per avere il sopravvento. Uno di quelli cruenti, uno di quelli che ti spiazzano e ti regalano un biglietto di sola andata per l’ospedale più vicino. Sentì come se avesse corso per centinaia di metri senza fermarsi. Mike cominciò ad annaspare.
Lo lasciò, permettendo al bambino di voltarsinella sua direzione: due profondi occhi verdi lo investirono e, sì, erano enormi, lucidi.
Non ricordò di aver mai visto un prato così verde, un verde così verde, messo ancor più in risalto dal rossore del pianto. Sentì le ginocchia diventare gelatina. Mike fu costretto a sedersi sull’altalena accanto.
-Io sono Mike.- riuscì a dire poi.
-Piacere. Io sono Billie Joe.- sorrise, passandosi il dorso della mano sulla guancia, salata dalle lacrime.
-Mi hai spaventato, lo sai?- chiese poi, con quella vocina irresistibile. Mike lo trovò tenero.
-Scusami. I-io… Non volevo. T-tu… stavi piangendo.-
Billie Joe arrossì violentemente.
-Non è vero.- si accigliò, le braccia incrociate al petto.
-Non mentire: hai ancora gli occhi rossi.-
Spalancò la bocca, voltandosi dall’altra parte.
-No, non ti girare! Sono belli.-
-C-cosa?- chiese, gli occhi ricoperti da un velo di lacrime. Lucidi, raggianti. La natura attorno a se veniva sminuita, al confronto del colore innaturalmente verde di quegli occhi. Mike non ricordò di aver mai visto qualcosa di più bello.
-I tuoi occhi.-
Billie arrossì ancora di più. Mike lo trovò, se possibile, ancora più adorabile.

I bambini sono strani, prendono confidenza con tutto e tutti molto velocemente.
Presto il rossore sul viso di Billie svanì, così come quello da pianto nei suoi occhioni verdi.
Si abbandonarono a risate sguainate e infinite chiacchierate. Mike stava bene con lui.
E se i suoi occhi, consumati dal pianto, erano da mozzare il fiato, quando erano colmi di luce propria, sorridenti, erano davvero un qualcosa d’indescrivibile, un qualcosa che le parole sarebbero servite solo a sminuire: Mike fu costretto a deglutire più volte, mentre lo guardava, per cercare di trovare un modo per respirare.
Non si era mai sentito così bene con qualcuno in tutta la sua vita.
Ad un certo punto, Billie, si alzò dalla sua altalena. Puntò i piedi in avanti e si ritrovò a fissarlo dall’alto. Mike deglutì.
Gli tese la mano.
-Andiamo?-
-Dove?- chiese Mike, inarcando un sopracciglio.
-Non lo so. Pensavo di poterlo scoprire insieme a te…-
Mike sorrise. Gli afferrò la mano e un meraviglioso brivido lo attraversò.
Un brivido intenso, una scarica di adrenalina, un fulmine a ciel sereno.
Il cuore smise per un attimo di battere.
Per un attimo, Mike, pensò di poter svenire davanti a quegli smeraldi: ma non accadde.
Mike si commosse.
Mike capì. Capì che, in quel momento, avrebbe potuto percorrere l’intero Universo correndo senza mai fermarsi, spostare una montagna a mani nude, se lui lo avesse tenuto per mano.
E così si allontanarono, mano nella mano. Senza lasciarsi per tutta la via, sostenendosi a vicenda.
Da quel giorno, diventarono come due metà della stessa mela: avevano costantemente bisogno l’uno dell’altro.
Diventarono amici.
Quando si davano appuntamento, ogni giorno, al parco per trascorrere interi pomeriggi insieme.
Scoprirono che avrebbero frequentato la stessa classe, alle scuole medie, e Billie veniva a prendere Mike tutte le mattine. Si raccontavano ogni cosa, e si ritrovarono l’uno nelle braccia dell’altro durante le difficoltà.
Si capivano al volo grazie ad uno sguardo, senza che ci fosse bisogno di proferir parola.
Diventarono fratelli.
Quando Mike ebbe l’ennesimo attacco di panico una settimana prima dell’esame di licenzia media e venne ricoverato in ospedale.
Billie lo venne a trovare e pregò la propria madre di restare accanto a lui, quella notte. Nonostante la donna fu irremovibile, sulla sua decisione, lui disobbedì per restare ugualmente.
Dormirono insieme: Mike fece spazio a Billie su quello scomodissimo letto d’ospedale e trascorsero la notte così, abbracciati, l’uno dormiente nelle braccia dell’altro. L’uno presente nei sogni dell’altro.
La mattina successiva, i medici, informarono la madre di Mike, rivelando un inspiegabile miglioramento e l'esistenza di una possibile cura alla malattia che tutti quanti, ormai, erano convinti avrebbe accompagnato il bambino dalla culla alla tomba.
Quella notte, Billie,  aveva rubato il cuore di Mike. Lo aveva riparato e gliel’aveva restituito: lui era la sua cura, anche se i medici non potevano saperlo.
Diventarono qualcosa di più.
Quando Mike guarì completamente dopo anni e anni passate tra medicine, analisi e operazioni.
Quando vennero a sapere l’esito dell’ultimo esame medico, Mike,  ricordava solo il suo cuore battere forte e il calore della mano del suo Billie stringere forte la propria. Le sue braccia cingergli il collo, le sue labbra morbide e carnose sulle tue.
-Ce l’abbiamo fatta, amore. Insieme.-
Già.
Amore.
Quando tutti i giorni Billie lo aspettava sull’altalena dove si erano conosciuti per poi raggiungere la fermata dell’autobus insieme, mano nella mano. Uniti come se fosse ogni giorno la prima volta.
Quando la madre di Mike era fuori città per lavoro e lui lo invitava a casa.
Quando prendevano la macchina e andavano in campagna, si sedevano sul cofano per guardare le stelle.
Quando restavano ore intere davanti ad un film dell’orrore divorando quantità industriali di nutella spalmata certamente non sul pane.
Quando Mike sentiva cantare il suo compagno sotto la doccia. Restava fermo, incantato dalla sua voce per ore, prima di raggiungerlo sotto il getto d’acqua calda e schizzarlo con la schiuma.
Vero amore.
Quando Billie fece un incidente con la sua auto e venne ricoverato d’urgenza in ospedale.
Quando Mike arrivò e i medici lo informarono che non ce l’avrebbe fatta, se non avessero effettuato, immediatamente, un urgente trapianto al cuore.
Quando decise di donargli ciò che era suo di diritto.
Quando decise di cedere il suo cuore a colui per il quale unicamente batteva.
Quando Mike realizzò il vero utilizzo di quell’inutile affare: donarlo a chi realmente si ama.
Quando Mike lasciò Billie da solo su quell’altalena, piangente e con il cuore che lui stesso gli aveva donato in frantumi, ignaro del fatto che, dall’alto di una finestra, un bambino dagli occhi azzurri come il cielo vegliava su di lui, rispettando la promessa che aveva fatto al piccolo Mike una decina di anni prima.
Quando le parole dolci di quel bambino giungevano al suo orecchio, trasportate dal vento.

Mike era nel vento, spazzava dal viso le sue lacrime, le trasportava lontano. Carezzava i morbidi capelli corvini, sussurrando al suo orecchio che ogni cosa sarebbe andata bene. Lui era lì, scalpitava nel suo petto e non l’avrebbe mai lasciato andare.
Lo avrebbe accompagnato lungo le strade della vita come aveva sempre fatto, mano nella mano.
 
 
Perché una parte di quel ragazzo, sarebbe rimasta con lui per sempre, fino alla fine della via. La parte più delicata e vissuta di se stesso, la parte più carica d’amore e dell’essenza del piccolo Mike.
Perché forse, il cuore di Mike, funzionava meglio di quello di tutti quanti noi.

***
 
 
 
Note: complimenti per lo stomaco forte.
Se avete pianto vi presterò il lembo della mia maglietta per soffiarvici il naso.
Se avete vomitato vi porgerò impassibile la bacinella di plastica, come se non fosse colpa mia. Spero di non ritrovarmi con la maglia unta di moccolo altrui, ma lasciarmi una recensione sarebbe più che soddisfacente, thanks.
Ringrazio tanto G Shadow che ha letto prima la fiction e mi ha dato il suo parere.
Non pubblico da un po’, ma spero che questa qualsiasi-cosa-sia vi sia piaciuta.
Tanto amore.

Rage Ramone.

 
   
 
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