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Autore: lilly81    10/09/2013    8 recensioni
[Rocky]
[Dal film "Rocky", con Silvester Stallone, Talia Shire. Anno 1976.]
E' difficile da credere, ma uno dei baci più belli della storia del cinema è quello tra una ragazza timidissima ed un pugile con addosso una logora canottiera. Dimenticate i tramonti romantici all'orizzonte: qui ci sono due guantoni appesi alla porta e un misero appartamento nei sobborghi di Philadelphia.
[...] Io ti voglio baciare. Tu puoi anche non restituire il bacio se vuoi, ma io ti voglio baciare" [...].
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era difficile capire se fossero gli effetti collaterali del pugilato o se fosse nato proprio così

“Knock-out”

di Lilly81

 

Era difficile capire se fossero gli effetti collaterali del pugilato o se fosse nato proprio così.

Aveva un’andatura caracollante e scuoteva le spalle anche quando, sceso dal ring, calpestava l’asfalto sudicio dei sobborghi di Philadelphia e vivacchiava riscuotendo denaro per conto di Mr. Gasco, senza mai trovare il coraggio di spezzare i pollici ai debitori insolventi, perché, pur non essendo di spiccata intelligenza, arrivava a capire da solo che un dito rotto non avrebbe permesso ad uno scaricatore di porto di restituire il debito in tempo.

Che percorresse i ciottoli rossi di N. Garney Street o la strada che dalla palestra del vecchio Mickey conduceva a casa sua, era solito tirare dalla tasca una pallina di gomma e farla rimbalzare a terra, tra le pozze impantanate e i rifiuti a margine di strada.

Sembrava che non fosse in grado di starsene con le mani nelle tasche e che questo fosse un modo come un altro per scaricare la tensione inesauribile dei muscoli.

Un combattimento ogni due settimane al “Cambria Fight Club” aveva trasformato il contorno degli occhi in un perenne alone nerastro e generato un bozzolo pulsante al di sopra della tempia che neppure il ghiaccio riusciva più a sfiammare.

Quaranta dollari e cinquantacinque centesimi per ritrovarsi il corpo massacrato di botte, sempre ammesso che il gong ne decretasse la vittoria: tanto valeva lo Stallone Italiano, al peso di centonovanta libbre, all’epoca dei fatti, nel novembre del 1975.

Più dei bicipiti, se c’era una parte di quel corpo di cui andava fiero, pur non avendo fatto nulla per potenziarlo, era il suo naso: dopo sessantaquattro incontri se ne stava lì diritto, affetto da raffreddore cronico, ma pur sempre diritto.

Una vera rarità per un pugile.

Nessun gancio era riuscito a romperglielo e neppure le umiliazioni, la solitudine, il disadattamento contro cui andava a sbattere ogni giorno glielo avevano storto.

Tirava su col naso e andava avanti, e se qualche volta indugiava, lo faceva soltanto davanti alle vetrine di “J & M Tropical Fish”.

Fischiettava agli animaletti in gabbia e poi entrava con quella sua aria fintamente spavalda, col cappello nero calcato sulla fronte e il bozzolo pulsante nascosto dalla falda.

“Freddo boia, eh? Una notte da polmonite, eh?”, si strofinò le mani pure quella sera.

Dietro la gabbia degli uccelli, la giovane commessa non gli rispose.

Pure lei sembrava prigioniera di qualcosa.

Silenziosa, pallida, timidissima: solo quell’uomo pareva averci trovato qualcosa di interessante.

Forse, era proprio quella semplicità e quel riserbo, il disagio con cui le sue mani piccole e sottili armeggiavano intorno alla gabbiola degli uccellini a lasciarlo disarmato ogni volta che la vedeva.

C’era qualcosa di struggente, di delicato e tenero che si animava dentro di lui, sotto il giaccone di pelle nera, e andava a realizzare un insolito chiaroscuro contro il suo corpo energico e vigoroso.

Due tartarughe ed un pesce rosso da sfamare erano diventate, da un po’ di tempo, la scusa per passare al negozio ogni mattina ed ogni sera.

“Hai bisogno di essere accompagnata a casa? No, eh? Fa freddo…”, tirò su col naso. “Se fossi in te prenderei un taxi. Dammi retta, c’è un sacco di brutta gente in giro…”.

Lei non rispose, continuando con le sue mani sottili e intimidite a pulire la gabbia dei pennuti.

Da dietro le severe lenti a forma di farfalla non provò neppure ad alzare gli occhi; non fece un movimento del capo, né compose un monosillabo nel momento in cui ricevette l’invito ad assistere quella sera stessa ad una partita di basket presso lo Spectrum Stadium.

Prima di battere in ritirata, come tutte le altre volte, l’uomo ebbe bisogno di scrollarsi da dosso la pesante sensazione che ella parlasse un’altra lingua e lo fece attingendo alla sua verve più simpatica e buffona, giusto per rimediare la parvenza di un sorriso.

La verità era che non gli riusciva neppure di farla ridere, non certo con quelle pessime battute risalenti alle scuole elementari che solo lui capiva.

“Allora, io adesso vado a casa, mi invento una barzelletta. Domani ti racconto una barzelletta nuova nuova… fresca, ok? Buonanotte, Adriana”.

“Buonanotte, Rocky”. Persino il pigolio di un canarino sarebbe stato più convincente. 

 

***

 

Paulie era il migliore, se non unico, amico di Rocky ed era stato assai sincero quando nel cesso maleodorante del “Lucky Seven Tavern”, quella sera stessa, tra un’imprecazione e l’altra  contro chi avesse rotto lo specchio sul lavabo, gli aveva detto:

“Puoi avere di meglio. Adriana è un’imbecille, Adriana è un relitto, c’ha quasi trent’anni suonati e se fa così finisce che si ritrova sola come un cane!”.

“No, io non lascio perdere un bel niente!”.

Rocky davvero non riusciva a capire perché lei non gli rivolgesse parola e si limitasse a guardarlo e basta. Era vero che l’ultima volta si era presentato al negozio con un sopracciglio suturato, ma riteneva, tutto sommato, di avere una faccia più che decente.

“Lo ammazzo se trovo chi ha rotto questo specchio!”.

Paulie, che aveva un pessimo carattere e beveva un tantino troppo, non si era ancora scolato la razione della sera quando aveva proposto all’altro di passare la cena del Ringraziamento a casa sua l’indomani, in modo da poter parlare con sua sorella Adriana.

Rocky non se lo era fatto ripetere due volte, non fosse altro che non mangiava un tacchino da almeno due anni, da quando lo aveva trovato in promozione a due dollari da Horn & Hardart’s.

Si era sentito più sicuro di sé quando Mr. Gasco, il giorno dopo, gli aveva messo in mano cinquanta dollari per uscire con Adriana. Non sapeva come, ma la voce di un presunto appuntamento con la sorella di Paulie si era già diffusa nel quartiere.

Persino l’autista di Mr. Gasco, seduto al volante, a debita distanza, non aveva perso l’occasione di deriderlo:

“Dicono che sia ritardata”.

Buddy era un pallone gonfiato che si faceva forte della presenza del boss, ma un giorno o l’altro, pensò Rocky, non ci avrebbe messo molto a spaccargli quel grugno.

“Non è ritardata, è timidezza”. E la timidezza per lui non pareva essere una malattia, né un problema. Anzi, forse gli piaceva proprio per questo e lo eccitava di più il pensiero di scoprire tutto di lei poco alla volta. 

Non c’è sfizio a ricevere un regalo se non c’è l’involucro da scartocciare.

Ma di Paulie non c’era da fidarsi e quando la sera insieme a lui varcò la soglia di casa, Rocky non ebbe nemmeno il tempo di togliersi il cappello per accorgersi che solo la diretta interessata era rimasta all’oscuro di tutto.

Adriana comparve dalla cucina con addosso un grembiule blu e la frangetta raccolta da una forcina, e senza neppure rispondere al suo saluto si dileguò da dove era venuta.

“Perché non me lo hai detto che lo portavi qui? Guarda che faccia, non ero preparata!”.

“E che cambiava se lo eri?”, li sentì confabulare in cucina. “E’ un mio amico e vuole uscire con te”.

“No! Non ci esco!”.

Adriana pensò che entrambi si stessero prendendo gioco di lei. Era già da un po’ di tempo che quel tizio si presentava mattina e sera al negozio e la fissava come mai nessun altro aveva fatto.

Rocky Balboa, che era ritornato a rimettersi il cappello e si era seduto sul divano, non senza un certo imbarazzo, la vide scappare verso la sua stanza, intanto che la televisione borbottava qualcosa circa la decisione di Apollo Creed, imbattuto campione mondiale dei pesi massimi, di dare la possibilità ad un pugile sconosciuto di vincere il titolo il primo gennaio venturo.

“Oh, tu stasera esci e pure al galoppo! Va bene? Mi sono stufato di vederti tappata qui dentro come una talpa! Esci, vivi, goditi la vita!”, se l’andò a riprendere Paulie. “Non fare la stupida! Mi stai diventando una mummia!”.

Ma è il giorno del Ringraziamento, c’è il tacchino nel forno”.

Aveva trascorso un intero pomeriggio a bagnarlo con il succo di limone, a salarlo, a peparlo, ad imbottirlo con i rametti di rosmarino, e fu assai mortificante vederlo letteralmente volare fuori dalla finestra della cucina.

“Vuoi il tacchino? Esci e vattelo a mangiare!”.

Alla povera Adriana non restò altro che andare a nascondere le lacrime dietro la porta della sua stanza per la seconda volta, chiedendosi se non fosse tutto un incubo o… un sogno, tutto sommato, nel quale valeva la pena trattenersi.

Prima di allora mai nessuno le aveva chiesto di uscire. In verità, neppure Rocky lo aveva fatto esplicitamente, ma pareva che ci fosse una sorta di tacito accordo con suo fratello.

Eppure, non aveva fatto nulla per attirare l’attenzione di quel giovane: gli aveva soltanto venduto due tartarughe ed un pesce rosso. Tutto qui. Aveva sempre pensato di essere insignificante, di avere la stessa consistenza di un fantasma, la parvenza di una nullità, come le rinfacciava suo fratello, ed invece arrivava lui, alto, aitante, affascinante, l’esatto contrario di lei, e la guardava come se fosse stata la donna più bella che avesse mai visto in vita sua. Era chiaro che avesse preso troppi pugni in testa e che il pugilato avesse incominciato, piano piano, ad arrecare dei seri disturbi al cervello.

Più di una volta aveva sentito dire che fosse uno sport pericoloso ed estremo.

Teneva ancora la testa poggiata contro l’uscio chiuso, quando avvertì un esitante toc toc proprio dietro le sue spalle singhiozzanti:

“Oh, Adriana, sono io… Rocky. Hai presente? Non so che dire perché non ho mai parlato con una porta…”.

Sentiva le sue dita accarezzare il legno, i suoi passi muoversi avanti ed indietro con indecisione, suo fratello che lo incoraggiava a proseguire mangiando la coscia di tacchino che gli era rimasta tra le mani, e alla fine, quasi fosse stato un atto dovuto, l’accettazione di un sacrificio, slacciò il grembiule, afferrò il cappotto che aveva lasciato sul letto e indossò il berretto di lana senza neppure guardarsi allo specchio.

Non avrebbe mai saputo dire quale forza misteriosa le avesse fatto aprire quella porta, ma lo fece, e quando si apre una porta c’è sempre la possibilità che la propria vita dopo non sia più la stessa.

“Allora è deciso?”, esclamò Rocky, risollevato.

Lei avanzò senza dire nulla, col passo evanescente di una sonnambula; apparentemente fredda e distaccata, andò incontro alla sorte con la schiena diritta e il grembiule ancora tra le mani e, se indugiò un istante davanti allo specchio, fu solo per sistemarsi le terribili lenti.

Adriana Pennino era una di quelle ragazze a cui non piaceva guardarsi allo specchio.

“Guarda che io il tacchino mica lo volevo!”, gli disse Rocky sull’uscio.

Ma è il giorno del Ringraziamento”.

“Che è?”, tirò su col naso.

“Il giorno del Ringraziamento”.

“Per te, forse, per me è soltanto giovedì…”.

 

***

 

Non era certo che sarebbero stati sufficienti i cinquanta dollari ricevuti da Mr. Gasco quel mattino, perché il tizio intento a pulire la pista di pattinaggio desolata aveva preteso dieci dollari per lasciarli pattinare liberi, ma soltanto per dieci minuti perché la struttura era chiusa al pubblico quella sera.

Tuttavia, Rocky sarebbe stato disposto a cacciare pure un capitale per l’occasione e, stando a quanto gli aveva suggerito Paulie sulla soglia di casa, ad Adriana piaceva pattinare.

In verità, la ragazza arrancava sul ghiaccio e strisciava le lame peggio di una principiante, ma a Rocky pareva stesse volteggiando come una libellula e si permise persino di esclamare:

“Come pattini bene!”.

Lui cercava di stare al suo passo senza pattini, poiché, come aveva incominciato a raccontarle, non pattinava da quando aveva quindici anni ed aveva incominciato a dedicarsi al pugilato.

Rocky era assai logorroico, di una gestualità eccitata, ma i suoi ragionamenti ruotavano tutti intorno ai combattimenti, ai muscoli e ai cazzotti. Non avrebbe saputo parlarle di altro, ma lo faceva con passione.

Adriana apprese che era un mancino, più precisamente un sud-ovest, come si diceva in gergo, e che con un mancino quasi nessuno voleva combattere perché si sarebbe trovato fuori misura.

“Nove minuti!”, scandiva il tempo l’addetto alle pulizie con precisione cronometrica.

Accadde che uno strano brivido si infilasse sotto il maglione di lana e gli attraversasse la schiena nel momento in cui la ragazza si aggrappò alla sua spalla per non cadere.

Fu il primo contatto e quella sensazione lo lasciò spiazzato più di qualsiasi altro gancio destro.

“Sette minuti!”.

Quando le raccontò che era stato suo padre ad indirizzarlo al pugilato perché non era particolarmente intelligente, la sentì ridere per la prima volta e gli piacque quel sorriso:

“Mia madre diceva sempre il contrario: tu non hai un gran corpo, cerca di fare un mestiere dove puoi usare il cervello!”.

“Cinque minuti!”.

Era irritante sentire scandire il tempo neanche fosse stato su di un ring. I secondi passavano velocemente e lui aveva la sensazione che non sarebbe bastata una vita intera per conoscerla bene.

Quasi temeva che ella potesse dissolversi da un momento all’altro, come un fiocco di neve, allo scadere dei minuti.

“Ehi, voi! Tempo!”, urlò infine l’inserviente.

“Posso farti una domanda?”, gli chiese Adriana avviandosi all’uscita.

Rocky avrebbe risposto a qualsiasi cosa pur di vederla interessata.

“Perché hai deciso di fare il pugile?”.

“Perché non ballo e non canto”.

L’aria che tornò ad investirli era fredda e l’umidità sapeva di tacchino e di castagne.

Già percorrevano Tusculum Street quando Rocky disse:

“Certe persone sono molto timide per natura. Ed io dico che tu sei molto timida per natura”.

“Può essere”, ammise lei.

“Lo sai?”, continuò a tenere la sigaretta incollata alla bocca. “Certe persone pensano che essere timidi è una malattia, ma a me non mi dà nessun fastidio”.

“Neanche a me”, rispose Adriana, senza essere certa che fosse davvero così. Tuttavia, apprezzava che lui lo avesse detto.

C’era qualcosa di estremamente gentile in lui e camminando al suo fianco, lungo il marciapiede desolato, provò una sensazione di sicurezza che mai le era appartenuta.

Pure l’ombra sbucata d’improvviso dal buio non le fece paura.

Rocky abitava in un piccolo appartamento al numero 1818 di Tusculum Street e lì, sulle scale che conducevano all’ingresso dello stabile a due piani, fermò il suo passo, mentre proseguiva a raccontarle la sua vita da pugile e il dolore che il suo corpo sperimentava al mattino dopo ogni combattimento.

Quando lei pensò che la serata fosse prossima a concludersi, la domanda che non avrebbe mai voluto sentire piombò in mezzo a loro, gelida come il vento che attraversava la stoffa del cappotto, spezzando l’incantesimo e riportandola al punto di partenza.

“Senti, vuoi venire dentro?”.

“No, devo andare”, abbassò il capo.

“Ehi, andiamo, dai! C’ho le bestioline, degli animali rari dentro, sai? Coraggio! E dai!”

“No, devo andare”.

“E devo andare pure io! Devo andare al gabinetto!”, fece rozzamente, un po’ spazientito.

Lei non sapeva più come farglielo capire.

“Senti, guarda che faccia… è una faccia che ci si può fidare, no? Si o no? Questa potrebbero metterla anche su un francobollo! Andiamo, vieni dentro!”.

E alla fine lei salì quei gradini con le mani incrociate dietro la schiena, quasi fosse stata messa in catene e procedesse verso il patibolo. Ancora una volta, una forza misteriosa spinse il suo corpo contro ogni volontà.

Il calore della stanza ebbe lo stesso impatto corroborante di una minestra calda, ma era piccola, in disordine, con i mobili vecchi e il frigorifero pieno di ruggine.

Un vecchio materasso, appeso al centro e arrotolato artigianalmente con delle corde, fungeva da sacco per gli allenamenti.

Rocky non aveva messo in conto di portarla a casa sua: era convinto che dopo aver mangiato il tacchino in compagnia di Paulie, sarebbero usciti insieme e basta.

Ora si ritrovavano persino digiuni:

“Oh, Adriana, hai fame?”.

“No”.

“Devo averci qualcosa… se ti va della coca, dei biscotti o qualcos’altro, no?”.

L’uomo andò ad appendere il cappotto ad un gancio e con un gesto naturale si sfilò  il maglione di lana e l’altra maglia che teneva sotto, svelando una comunissima canottiera bianca:

“Fa un caldo qui dentro!”.

L’indumento aveva un piccolo foro sul fianco destro, ma l’aveva indossato pulito prima di uscire, ritirandolo caldo dal termosifone, dopo una notte intera che era stato a mollo insieme alle mutande e ai calzini.

Quelle spalle nude e scolpite crearono un’intimità alla quale lei non era pronta, e così Adriana continuò a restarsene in piedi imbarazzata, col cappello color cobalto che male si abbinava al resto dei vestiti, saldamente chiusa nel suo cappotto modesto, quasi fosse stato uno scudo.

“Adesso metto un po’ di musica”, tirò su col naso ancora gocciolante.

“Queste sono le tartarughe di cui ti parlavo prima”, si avvicinò ad un tavolino. “Le mie amiche Tarta e Ruga”.

“Te le ho vendute io”.

Lui ricordava benissimo la prima volta in cui si era presentato al negozio e le aveva acquistate insieme alla vasca, al mangime, ai sassolini.

“Ti ricordi la montagna? Quella l’ho dovuta levare perché si rovesciava sempre…”.

E mentre Shirley Bassey, alla radio, incominciava a cantare You take my heart away, Rocky spostò alcuni fogli di giornale, fece un po’ di spazio e si sedette sul divano.

Anche quella mossa la mise in stato di all’erta.

Come un pesce fuori dall’acqua, avrebbe volentieri trovato rifugio nella vasca di Moby Dick, il pesce rosso che sempre lei gli aveva venduto.

“Perché non vieni qui e ti metti seduta, uhm? Non è male come divano…”, e vedendo la sua indecisione, “…c’è il lupo mannaro lì dietro. Stai più sicura qui.”

Lei si sforzò di sorridere e avanzò come sospesa su una corda.

Alcune fotografie vicino ad uno specchio furono l’occasione per allentare la tensione:

“Sei tu?”, prese in mano la foto in banco e nero di un bambino.

“Sì, avevo otto anni. Quello è lo Stallone Italiano quando era un bebè. Ma perché non viene qui e ti metti comoda? Ti rilassi un po’…”.

Ora, è tipico delle ragazze che non sono mai uscite di casa voler telefonare ad un proprio familiare per tranquillizzarlo: è un po’ come ritrovare il cordone ombelicale smarrito e risalire dal fondo del proprio disagio.

Ce l’hai il telefono?”.

Le rispose di no. “Chi volevi chiamare?”.

“Volevo dire a mio fratello dove sono”.

Rocky non ne capiva la necessità: “Perché?”.

“Credo stia in pensiero”.

A quel punto, lui decise di risolvere la questione a modo suo: si alzò, andò ad aprire la finestra e gettò un urlo che rimbombò in tutto il vicinato.

“Ehi, Paulie! Tua sorella sta con me! Ti richiamo più tardi, ciao!”.

Uno spiffero gelido restò intrappolato nella stanza non appena ebbe chiuso la finestra e Rocky allora comprese che lei non si sarebbe mai seduta su quel divano.

“Che c’è? Non ti piace la stanza?”.

“No, è bella…”, fu il commento più sciocco che potesse dire.

Lui spiegò che era una cosa temporanea.

“Non è questo…”, cercò di fargli capire.

Rocky avanzò nella sua direzione, sensuale e bello, con le mani nelle tasche. Era disposto ad essere paziente.

“E allora che c’è?”, alzò le braccia e si agganciò alla sbarra di ferro che stava in alto, proprio sopra di lei. “Non ti piaccio io, oppure le tartarughe… qual è il tuo problema?”.

“E che non mi sento a mio agio”.

Ma no… va bene”.

La ragazza gli diede le spalle e preferì mantenere una certa distanza.

“Non dovrei stare qui”.

“Ma no… va bene. Tu sei mia ospite…”, lasciò la sbarra e ritornò ad avvicinarsi.

A quel punto, nella speranza che lui capisse, non le restò che ammettere candidamente:

“Io non ti conosco abbastanza. Non sono mai stata in casa di un uomo… da sola”.

Rocky non seppe che dire, un po’ spiazzato da quella dichiarazione esplicita di innocenza, che pure gli era piaciuta:

“Ehm… le case sono tutte uguali”, e intanto la distanza tra loro riprese ad accorciarsi.

“E’ che non ti conosco abbastanza”, tornò ad indietreggiare e a ribadire. “Non mi sento a mio agio”.

“Beh… se è per questo, io non è che mi sento a mio agio”.

Le lenti a forma di farfalla incominciarono ad apparirgli troppo severe. Mai nessuno avversario lo aveva intimorito e intontito come stava facendo lei.

In fondo, non sapeva neppure quali vestiti avesse sotto quel cappotto e come fosse la sua pelle più in giù del collo.

“Io devo andare”, si mosse con risoluzione in direzione della porta.

Proprio lì, senza metafora, stavano appesi ad un chiodo due guantoni.

“…Let me love you for a million years or more. I never felt this way before. Before your kiss. You take my heart away, away…”, cantava la radio.

“No, ti prego. Non andare!”.

Con il braccio bloccò l’uscio, mentre con l’altro le sbarrò il passo.

Adriana fu chiusa all’angolo, come un avversario sul ring.

In assoluto, era uno dei combattimenti più difficili che avesse mai disputato. Le avrebbe potuto spezzare le ossa se avesse esercitato un po’ di pressione, ma quel ring era diverso da tutti gli altri che avesse finora calcato.

Le gambe gli tremavano, come non avrebbero dovuto fare.

“Mi fai un favore?”, le domandò gentile.

“Cosa?”.

“Togliti questi”, le sfilò piano gli occhiali.

Lei abbassò il capo, provando la sconosciuta sensazione di essere nuda senza di essi.

“Hai occhi belli, lo sai?”, le sollevò il mento per costringerla a guardarlo. “Fammi un altro favore, togliti quel cappello…”.

Non capiva dove egli volesse arrivare, ma gli permise di sfilare anche quello.

 “Oh… io ti ho sempre trovato bella”, commentò in un sussurro.

Con la frangetta scompigliata sembrava già un’altra ragazza.

“Non sfottermi”. Non era mai esistito alcuno che l’avesse trovata bella.

Eppure la sua voce era calda e sincera: “E chi ti sfotte?”.

“Touch me, take me in your arms, shelter me from harm, let me love you for a million years or more..”, il sottofondo di Shirley Bassey era ormai lontano anni luce da loro.

“Io ti voglio baciare. Tu puoi anche non restituire il bacio se vuoi, ma io ti voglio baciare”.

Adriana, suo malgrado, attese e sussultò quando sentì la mascella ruvida poggiarsi delicatamente contro la guancia.

Ebbe il coraggio persino di guardarlo negli occhi mentre la sua bocca ritornava ad avvicinarsi in cerca delle sue labbra. Non era mai stata baciata e sentì il bisogno di staccarsi da quel primo, debole, contatto ad occhi aperti.

Incassato pure quel colpo, Rocky trovò lo slancio per affrontarla ancora una volta con impeto maggiore.

A lei, allora, non restò altro che piegare il collo e assecondarlo, mescolandosi al suo odore di tabacco, senza immaginare che un giorno non lontano avrebbe baciato quel volto anche    tra lividi e rivoli di sangue, battaglia dopo battaglia, vittoria dopo vittoria.

Eppure Rocky non era persuaso di aver vinto.

Provò una strana debolezza alle gambe e, mentre la stringeva tra le sue braccia, dovette quasi sorreggersi a lei, perché era come se quel ring stesse sprofondando e qualcosa lo spingesse a cadere verso il basso.

Scivolarono insieme lungo il muro, fino a che non si adagiarono sul pavimento, l’uno sull’altra, col respiro sempre più ansimante e le braccia di lei già strette intorno al suo collo.

Al tappeto… dopo un unico round.

 

FINE

 

 

 

 

Chiedo scusa se i dialoghi sono parsi sgrammaticati, ma chi conosce il film sa che Rocky Balboa parlava esattamente in questa maniera.

 

 

   
 
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