[Scritta per
il contest “Call my name” di Harriet, su cui potete informarvi
qui. Il tema sono i primi quattro versi della citazione della canzone di
Vienna Teng che trovate qui sotto.
Ah, il titolo
è inteso in maniera abbastanza particolare… cioè, come un punto intorno a cui si
svolta, per cui magari si allunga un po’ la strada, ma infine si arriva a una
nuova direzione…]
-Oh, call
my name
You know my name
And in that sound
Everything will change
Tell me it won't always be this hard
I am nothing without you
But I don't know who you are…-
Vienna Teng, “Nothing without you”
“What’s
in a name? That which we call a rose
by any
other name would smell as sweet.”
W.Shakespeare, “Romeo and Juliet” (atto II, scena 2)
Lui stava di
nuovo sognando, lo stesso sogno già fatto una volta. Solo che non lo sapeva, che
fosse lo stesso. Anzi, no, forse in qualche modo un presentimento lo aveva,
perché non provava lo stesso cieco terrore di quel primo sogno, non più quello
smarrimento: c’era qualcosa, sul fondo delle sue sensazioni, che lo rassicurava,
che confusamente sapeva che sarebbe andata bene, e lui si sarebbe svegliato. Ma
era solo come un ricordo perso dietro veli di fumo, una consapevolezza non del
tutto colta.
Sì, lo
stesso sogno. Ancora una volta, uno schianto di vetri, e poi precipitare nel
buio, un buio senza dimensioni o concretezza, fatto solamente della caduta, e
del nero. Giù fino ad una superficie, un pavimento di quel buio, giù, assieme
alle schegge e al sangue, il dolore che gridava ovunque dentro e fuori di lui.
Un’altra
volta. Come il luogo della mente dove era finito cadendo da quella finestra, a
sua volta identico ad un altro schianto, altri vetri e altro buio, un identico
dolore, il ricordo spezzato di un bambino in lacrime.
“Mamma…
papà! Mi fa male… tanto male… dove siete? Mamma! Papà!”
E adesso, il
buio aveva due braccia, una mano affusolata, l’altra grande e forte. Braccia che
si tendevano verso di lui, lo sfioravano: in un gesto solo, tutto l’amore di una
vita.
Era già
successo, lo aveva già sognato.
Quelle
braccia lo avevano salvato.
“Mamma…
papà.” sospirò, rassicurato, in un sorriso.
C’erano,
erano lì. Mamma e papà.
La mano
calda di suo padre, come quando stringeva la sua, e camminavano, e
all’improvviso era un volo, e in un turbinio di foglie d’autunno lui lo tirava
su, ridendo se lo metteva in spalla. Le braccia della mamma, dolci negli
abbracci, le dita fresche sulla fronte nella confusione e nell’arsura della
febbre. Loro due erano lì, con lui, in tutti quei momenti. Anche dopo che non
c’erano stati più, le loro voci, i loro sorrisi erano dentro di lui, più
sbiaditi, certo, più vaghi, figure in controluce in un pomeriggio di sole, ma
lui sapeva che c’erano, che erano esistiti, avevano quel carattere che
ricordava, quel modo di arrabbiarsi, di ridere, di guardarlo.
Lui era
rimasto, la prova della loro esistenza.
Ed era
orgoglioso di essere figlio loro.
Figlio di…
…di?
Un momento.
Non poteva essere.
Ed era di
nuovo su quel pavimento nero di disperazione, le braccia insanguinate non
riuscivano a raggiungerlo.
Mamma… papà…
sì, ma chi erano loro?
Chi?
Perché alla
mente, per quanto potesse affannarsi, gli venivano soltanto quelle parole,
mamma, papà?
Non
ricordava più i nomi dei suoi genitori.
Non li
sapeva più.
No, aspetta,
però dovevano esserci in casa, da qualche parte… e tutto diventava una corsa fra
le stanze, rovesciare cassetti, una confusione di fogli tutti vuoti, finestre
spalancate che li facevano volare via, in alto, contro il cielo, dove non poteva
afferrarli.
Il cimitero…
il cimitero, sì, sulla lapide c’erano per forza i loro nomi…
…ma non
esisteva più il cancello, né il vialetto da dove era solito passare. E le tombe
erano tutte uguali, tutte bianche, un cimitero di guerra per caduti senza nome,
i migliaia di quotidiani morti sulle strade in incidenti tutti simili, dove alla
fine era sempre lo stesso l’orrore dei corpi in mezzo a identiche lamiere.
I nomi dei
suoi genitori… erano scomparsi, cancellati dalla faccia della terra, e dalla sua
mente.
Eppure
sentiva, dentro di sé, cercare di affacciarsi qualcosa d’importante… sentiva che
se se li fosse ricordati, maledizione, se gli fossero venuti in mente, come
ricordava quelli dei più insignificanti compagni di classe, delle maestre delle
elementari… se li avesse chiamati per nome, oh, sì, forse quel giorno sua madre
si sarebbe voltata, avrebbe stretto il braccio del marito, e suo padre avrebbe
schiacciato il pedale del freno in tempo, appena in tempo…
…e tutto
sarebbe cambiato.
Non ci
sarebbe stato più bisogno di lapidi, né di tutte quelle carte nei cassetti di
una casa troppo grande per un ragazzino solo.
Se li avesse
chiamati per nome, allora, forse adesso…
Il suo sogno
si sarebbe dissolto in una mattina di luce, con il profumo della colazione che
lo aspettava, il caldo di coperte rimboccate da qualcun altro. E ci sarebbe
stato da salutare, le parole ancora impastate di sonno, e magari da aspettare il
suo turno per il bagno. Chiacchiere, il fumo del tè, mani che gli rimettevano a
posto i capelli. E chissà, avrebbe dovuto perfino far piano per non svegliare un
fratellino che ancora dormiva, infilargli nello zainetto qualche cosa che la
sera si era dimenticato.
Il sogno
sprofondò in un oceano di dolcezza, di struggimento, il tepore di un mondo che
sarebbe semplicemente potuto esistere, così facile da immaginare, che già tante
volte di notte gli aveva spalancato davanti i suoi colori.
Sarebbe
potuto rimanere per sempre a guardare dalla finestra, immobile, i palmi contro
il vetro, la vita che avrebbe potuto avere.
Così facile…
se solo, quel giorno, forse…
Forse…
…già, ma
forse, chissà…
non avrebbe
imparato a cucinare così bene, perché ci sarebbe stato sempre suo padre a farlo.
Suo padre che che alla mattina avrebbe preparato il bento, uno solo, solo per
suo figlio, com’era logico, naturale.
E lui non
avrebbe avuto niente da offrire per attaccare discorso con quella ragazza che
gli piaceva tanto. Nessuna ricetta nuova per le richieste di un ingrato che non
ringraziava mai ma a cui lui sentiva, in qualche modo, di dover dire tacitamente
qualcosa.
Non sarebbe
stato così benvoluto dai compagni, dai professori, niente sorrisi ammirati degli
estranei quando vedevano la sua bravura nelle faccende di casa, come se la
cavava bene a vivere da solo. Non sarebbe stato quello che oggi era.
No, quei
nomi, per quanto potesse sforzarsi, proprio non li ricordava.
Aveva il
sospetto, già, il vago sospetto che dovesse entrarci qualcosa Yuuko, come per
tutte le cose strane.
Ma forse, se
quel giorno non fosse andata così, forse… anzi, di certo, lui Yuuko non
l’avrebbe conosciuta mai. Nessun genitore avrebbe mai fatto passare al figlio le
giornate in casa di una così, in un posto che magari ai loro occhi neppure
esisteva.
Certo, se
avesse potuto tornare indietro, avere una scelta… no, inutile girarci intorno,
non avrebbe scelto questa vita.
Avrebbe
rivoluto i suoi genitori con sé. Lo sentiva, chiarissimo, nel fiotto di lacrime
che gli salivano agli occhi, nella mano che ancora tendeva nel buio.
Ma la scelta
non c’era.
Per
qualsiasi motivo fosse, quei nomi non li ricordava più.
E indietro
non si poteva tornare.
Le braccia
si allontanavano da lui; avevano protetto il loro bambino, il loro scopo era
compiuto.
“Mamma…
papà.” sussurrò piano, non sapendo come altro chiamarli. E si svegliò.
Era una
bella giornata di sole, tersa e chiara dietro il bianco delle tende.
Si alzò a
sedere nel futon, si asciugò le lacrime. La luce batteva sul vetro della
fotografia, là sullo scaffale, di fronte a lui, facendo risplendere ancora di
più i volti allegri dei suoi genitori.
“Buongiorno,
papà, buongiorno, mamma.” disse.
Come diceva
tutti i giorni.
Perché lui
sempre, da sempre li aveva chiamati così, semplicemente, papà e mamma.
Perché
questo erano per lui: i suoi genitori. Qualunque nome avessero avuto, quelli
sarebbero stati i loro volti, quella la loro voce, immutabile l’infinità
dell’amore per il loro unico figlio.
In fondo,
non era davvero necessario chiamarli per nome.
Papà, mamma,
e loro avrebbero capito.
Quando si
sarebbero incontrati di nuovo, non ci sarebbe voluta nessuna parola. Uno
sguardo, lo stupore della presenza, il colore della luce. Loro avrebbero capito.