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Autore: Shu    18/03/2008    8 recensioni
"Oh, call my name, you know my name
And in that sound everything will change..."

Un sogno di Watanuki, la vita che avrebbe potuto avere, se solo quel giorno, forse...
SPOILER!! vol.10 e 12
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kimihiro Watanuki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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[Scritta per il contest “Call my name” di Harriet, su cui potete informarvi qui. Il tema sono i primi quattro versi della citazione della canzone di Vienna Teng che trovate qui sotto.
Ah, il titolo è inteso in maniera abbastanza particolare… cioè, come un punto intorno a cui si svolta, per cui magari si allunga un po’ la strada, ma infine si arriva a una nuova direzione…]
 

 

 

 

-Oh, call my name
You know my name
And in that sound
Everything will change
Tell me it won't always be this hard
I am nothing without you
But I don't know who you are…-

Vienna Teng, “Nothing without you”

 

 

“What’s in a name? That which we call a rose
by any other name would smell as sweet.”

W.Shakespeare, “Romeo and Juliet” (atto II, scena 2)

 

 

 

 

 

 

Lui stava di nuovo sognando, lo stesso sogno già fatto una volta. Solo che non lo sapeva, che fosse lo stesso. Anzi, no, forse in qualche modo un presentimento lo aveva, perché non provava lo stesso cieco terrore di quel primo sogno, non più quello smarrimento: c’era qualcosa, sul fondo delle sue sensazioni, che lo rassicurava, che confusamente sapeva che sarebbe andata bene, e lui si sarebbe svegliato. Ma era solo come un ricordo perso dietro veli di fumo, una consapevolezza non del tutto colta.
Sì, lo stesso sogno. Ancora una volta, uno schianto di vetri, e poi precipitare nel buio, un buio senza dimensioni o concretezza, fatto solamente della caduta, e del nero. Giù fino ad una superficie, un pavimento di quel buio, giù, assieme alle schegge e al sangue, il dolore che gridava ovunque dentro e fuori di lui.
Un’altra volta. Come il luogo della mente dove era finito cadendo da quella finestra, a sua volta identico ad un altro schianto, altri vetri e altro buio, un identico dolore, il ricordo spezzato di un bambino in lacrime.
“Mamma… papà! Mi fa male… tanto male… dove siete? Mamma! Papà!”
E adesso, il buio aveva due braccia, una mano affusolata, l’altra grande e forte. Braccia che si tendevano verso di lui, lo sfioravano: in un gesto solo, tutto l’amore di una vita.
Era già successo, lo aveva già sognato.
Quelle braccia lo avevano salvato.
“Mamma… papà.” sospirò, rassicurato, in un sorriso.
C’erano, erano lì. Mamma e papà.
La mano calda di suo padre, come quando stringeva la sua, e camminavano, e all’improvviso era un volo, e in un turbinio di foglie d’autunno lui lo tirava su, ridendo se lo metteva in spalla. Le braccia della mamma, dolci negli abbracci, le dita fresche sulla fronte nella confusione e nell’arsura della febbre. Loro due erano lì, con lui, in tutti quei momenti. Anche dopo che non c’erano stati più, le loro voci, i loro sorrisi erano dentro di lui, più sbiaditi, certo, più vaghi, figure in controluce in un pomeriggio di sole, ma lui sapeva che c’erano, che erano esistiti, avevano quel carattere che ricordava, quel modo di arrabbiarsi, di ridere, di guardarlo.
Lui era rimasto, la prova della loro esistenza.
Ed era orgoglioso di essere figlio loro.
Figlio di…
…di?
Un momento. Non poteva essere.
Ed era di nuovo su quel pavimento nero di disperazione, le braccia insanguinate non riuscivano a raggiungerlo.
Mamma… papà… sì, ma chi erano loro?
Chi?
Perché alla mente, per quanto potesse affannarsi, gli venivano soltanto quelle parole, mamma, papà?
Non ricordava più i nomi dei suoi genitori.
Non li sapeva più.
No, aspetta, però dovevano esserci in casa, da qualche parte… e tutto diventava una corsa fra le stanze, rovesciare cassetti, una confusione di fogli tutti vuoti, finestre spalancate che li facevano volare via, in alto, contro il cielo, dove non poteva afferrarli.
Il cimitero… il cimitero, sì, sulla lapide c’erano per forza i loro nomi…
…ma non esisteva più il cancello, né il vialetto da dove era solito passare. E le tombe erano tutte uguali, tutte bianche, un cimitero di guerra per caduti senza nome, i migliaia di quotidiani morti sulle strade in incidenti tutti simili, dove alla fine era sempre lo stesso l’orrore dei corpi in mezzo a identiche lamiere.
I nomi dei suoi genitori… erano scomparsi, cancellati dalla faccia della terra, e dalla sua mente.
Eppure sentiva, dentro di sé, cercare di affacciarsi qualcosa d’importante… sentiva che se se li fosse ricordati, maledizione, se gli fossero venuti in mente, come ricordava quelli dei più insignificanti compagni di classe, delle maestre delle elementari… se li avesse chiamati per nome, oh, sì, forse quel giorno sua madre si sarebbe voltata, avrebbe stretto il braccio del marito, e suo padre avrebbe schiacciato il pedale del freno in tempo, appena in tempo…
…e tutto sarebbe cambiato.
Non ci sarebbe stato più bisogno di lapidi, né di tutte quelle carte nei cassetti di una casa troppo grande per un ragazzino solo.
Se li avesse chiamati per nome, allora, forse adesso…
Il suo sogno si sarebbe dissolto in una mattina di luce, con il profumo della colazione che lo aspettava, il caldo di coperte rimboccate da qualcun altro. E ci sarebbe stato da salutare, le parole ancora impastate di sonno, e magari da aspettare il suo turno per il bagno. Chiacchiere, il fumo del tè, mani che gli rimettevano a posto i capelli. E chissà, avrebbe dovuto perfino far piano per non svegliare un fratellino che ancora dormiva, infilargli nello zainetto qualche cosa che la sera si era dimenticato.
Il sogno sprofondò in un oceano di dolcezza, di struggimento, il tepore di un mondo che sarebbe semplicemente potuto esistere, così facile da immaginare, che già tante volte di notte gli aveva spalancato davanti i suoi colori.
Sarebbe potuto rimanere per sempre a guardare dalla finestra, immobile, i palmi contro il vetro, la vita che avrebbe potuto avere.
Così facile… se solo, quel giorno, forse…
Forse…
…già, ma forse, chissà…
non avrebbe imparato a cucinare così bene, perché ci sarebbe stato sempre suo padre a farlo. Suo padre che che alla mattina avrebbe preparato il bento, uno solo, solo per suo figlio, com’era logico, naturale.
E lui non avrebbe avuto niente da offrire per attaccare discorso con quella ragazza che gli piaceva tanto. Nessuna ricetta nuova per le richieste di un ingrato che non ringraziava mai ma a cui lui sentiva, in qualche modo, di dover dire tacitamente qualcosa.
Non sarebbe stato così benvoluto dai compagni, dai professori, niente sorrisi ammirati degli estranei quando vedevano la sua bravura nelle faccende di casa, come se la cavava bene a vivere da solo. Non sarebbe stato quello che oggi era.
No, quei nomi, per quanto potesse sforzarsi, proprio non li ricordava.
Aveva il sospetto, già, il vago sospetto che dovesse entrarci qualcosa Yuuko, come per tutte le cose strane.
Ma forse, se quel giorno non fosse andata così, forse… anzi, di certo, lui Yuuko non l’avrebbe conosciuta mai. Nessun genitore avrebbe mai fatto passare al figlio le giornate in casa di una così, in un posto che magari ai loro occhi neppure esisteva.
Certo, se avesse potuto tornare indietro, avere una scelta… no, inutile girarci intorno, non avrebbe scelto questa vita.
Avrebbe rivoluto i suoi genitori con sé. Lo sentiva, chiarissimo, nel fiotto di lacrime che gli salivano agli occhi, nella mano che ancora tendeva nel buio.
Ma la scelta non c’era.
Per qualsiasi motivo fosse, quei nomi non li ricordava più.
E indietro non si poteva tornare.
Le braccia si allontanavano da lui; avevano protetto il loro bambino, il loro scopo era compiuto.
“Mamma… papà.” sussurrò piano, non sapendo come altro chiamarli. E si svegliò.
Era una bella giornata di sole, tersa e chiara dietro il bianco delle tende.
Si alzò a sedere nel futon, si asciugò le lacrime. La luce batteva sul vetro della fotografia, là sullo scaffale, di fronte a lui, facendo risplendere ancora di più i volti allegri dei suoi genitori.
“Buongiorno, papà, buongiorno, mamma.” disse.
Come diceva tutti i giorni.
Perché lui sempre, da sempre li aveva chiamati così, semplicemente, papà e mamma.
Perché questo erano per lui: i suoi genitori. Qualunque nome avessero avuto, quelli sarebbero stati i loro volti, quella la loro voce, immutabile l’infinità dell’amore per il loro unico figlio.
In fondo, non era davvero necessario chiamarli per nome.
Papà, mamma, e loro avrebbero capito.
Quando si sarebbero incontrati di nuovo, non ci sarebbe voluta nessuna parola. Uno sguardo, lo stupore della presenza, il colore della luce. Loro avrebbero capito.
 

   
 
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