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Autore: BlackShadow15    12/09/2013    0 recensioni
La storia di Clarissa, Clary per gli amici. Una quindicenne ossessionata dall'autolesionismo, raccontata in terza persona. Descrive la fragilità di un adolescente al primo anno di liceo, la difficoltà nel socializzare con i nuovi compagni di classe e lo sconforto nell'avere voti bassi. Realtà che spero apra gli occhi a molti ragazzi.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Era un giorno di scuola, uno di tanti, purtroppo. Non era mai stata una cima, specialmente quell'anno. Non era riuscita a legare con nessuno in classe, se non con quelle poche persone che gli altri, per buffi e stupidi motivi, non accettavano. I voti ne risentivano, quando si metteva a studiare, la sua mente vagava fra troppi pensieri, e la sua concentrazione spariva quasi subito. Nelle materie pratiche era più brava, ma non era delle migliori, non lo era mai stata. Non vedeva potenziali in sè stessa, per questo preferiva non aprirsi con gli altri, non comunicare troppo, preferiva vivere la vita attraverso i racconti degli altri, e ne era quasi soddisfatta. Non la si vedeva spesso con un sorriso stampato sulla faccia, ma quell'anno stava andando così, cosa poteva farci? Il suo problema piú frequente era il non riuscire a guardare le persone in faccia, le risultava difficile; nei momenti di silenzio in una conversazione preferiva fingere che le fosse arrivato un messaggio e rispondere, era meno difficile, due occhi in confronto l'avrebbero un po' spaventata. Non aveva solo quel problema, al contrario, ne era piena. Il secondo, quello che necessitava di più attezione, probabilmente, era l'autolesionismo, doveva sempre essere vigile e nascondere con attenzione ogni traccia. Si tagliava ormai da qualche mese, era stata brava a nascondere i tagli, portava felpe con le maniche lunghe, spesso se le tirava sulle mani, fino a lasciare scoperte solo le unghie. Non voleva ferirsi, secondo lei non era un modo pericoloso per farsi forza, semplicemente le bastava farlo una volta ogni due giorni. Poteva passare le ore ad accarezzarsi lievemente una ferita, e nel farlo riusciva a trovare tutta la calma e la determinazione che aveva sempre cercato, non si faceva mai male, non si tagliava a fondo, le bastava una crosta da avere fra le dita, non si era mai procurata nemmeno una cicatrice. Diceva che avrebbe smesso, sì, ma lo avrebbe fatto per gli altri, per non far soffrire i suoi pochi amici, loro non avevano idea del fatto che quello era il suo unico punto di forza, che le dava tutto ciò di cui aveva avuto bisogno fino ad allora. Ogni tanto raccontava cosa faceva, a una, o a due persone al massimo, sperando che la capissero, ma più andava avanti più capiva che era meglio non dire nulla. Alcuni dei suoi amici, durante un banale litigio, le avevano detto che lo faceva solo per attirare attenzioni, in cuor suo sapeva che faceva tutto il possibile per nascondere quelle sottili linee rosse che le procuravano tanta felicità, e non badava ai commenti di quelli che una volta avevano il coraggio di ritenersi suoi amici. Si lasciava scivolare tutto addosso, come se niente potesse ferirla, come se non le importasse niente. A volte sentiva il bisogno di tagliarsi, persino a scuola, per sicurezza, portava in tasca la sua unica lametta, una di cinque, le restanti le aveva ritirate sua madre per paura. Le aveva comprate lei stessa. "Servono per rimuovere le macchie di china dai fogli, a scuola" spiegò a sua madre. Nessuna bugia, in effetti, niente di più vero, le aveva chieste la prof. di Pittura. Era successo solo una volta, dopo una lezione un po' stressante di scienze. "Posso andare in bagno?" lo chiese quando non spiegava, così da essere certa di avere il permesso. Si chiuse in bagno, cercò di metterci meno tempo possibile, scartò la sua lametta e si mise a graffiarsi lievemente la mano destra, era riuscita a procurarsi sei o sette tagli minuscoli sul palmo della mano in poco tempo, tornó in classe con il solito sorriso soddisfatto, e con la solita sensazione che aveva subito dopo essersi tagliata, quel bruciore leggero e famigliare che la faceva sentire viva. Nascose tutto sotto alle strette maniche della sua camicia di jeans, con un'abilità degna di un professionista, ormai. La mattina passò abbastanza in fretta, mancavano solo due ore, quelle di architettura, quelle che amava e che la spaventavano allo stesso tempo. Le piaceva fare disegno geometrico, la prof. spesso si complimentava con lei perchè era precisa, aveva un segno leggero e si impegnava sempre, quei complimenti le piacevano da morire, fecero diventare il lunedì e il venerdì i suoi giorni preferiti. Nel primo quadrimestre, seppur con qualche alto e basso, riuscì a procurarsi un otto, voto soddisfacente per lei, vista la sua media disastrosa nelle altre materie. L'impegno in quella disciplina non mancava, ma con il passare del tempo si accorse anche da sola che qualcosa stava cominciando a non andare per il verso giusto. L'autolesionismo stava prendendo una parte eccessiva della sua vita, e la stava lentamente trascinando in un baratro nero. Lei non se ne accorgeva, aveva notato un calo drastico dei voti scolastici, ma lei sapeva bene il perchè, non di certo perchè 'non ne aveva voglia', semplicemente, aveva altri pensieri per la testa, ma non le importava più di tanto, si sentiva forte, adesso. Ed era l'unica cosa che aveva sempre voluto. Sapeva che gli altri dicevano di lei che non si impegnava abbastanza, ma lei sapeva che proprio non ci riusciva, passava i pomeriggi un po' facendo altro e un po' a deprimersi, e la sera quando le andava scartava la sua lametta, le bastava un taglio, uno soltanto, per sentirsi protetta (sembra la pubblicità di lines seta ultra o.O). Le erano sempre piaciuti i professori che mostravano di essere presenti per gli alunni, quelli che, prima di iniziare la lezione, ci chiacchierano un po' e imparano a conoscere il carattere di ognuno. Non aveva mai apprezzato chi, dopo esser entrato in classe con un broncio irritante, fa lezione filata senza nemmeno salutare, e alla fine ti guarda in cagnesco e se ne va. Ma, seppur la professoressa di architettura fosse socievole, la spaventava, riusciva ad entrarle nell' anima con un sorriso un po' sbilenco o uno sguardo, dietro ai suoi soliti occhiali posizionati sulla punta del naso, che puntualmente riusciva a perdere fra i banchi ogni mezz'ora. Lei, probabilmente più degli altri professori, aveva notato il calo dei voti, così, un giorno, quando la ragazza tornò alla cattedra per avere l'ennesima spiegazione su un disegno che non capiva e che non riusciva a fare, gliene parlò. La ragazza sapeva di essere caduta in basso in quell' ultimo periodo, ma lo nascondeva in continuazione sia a sè stessa che agli altri. La prof. non voleva spiegarle un'altra volta come bisognava fare il disegno, una piramide a base quadrata ruotata di trenta gradi in proiezione ortogonale, voleva sapere di più della sua vita, del perchè era così distratta e assente a scuola in quell'ultimo periodo. La ragazza si preoccupó: non aveva mai parlato di sè, non in quell'anno, non aveva mai parlato con nessuno dei suoi problemi a scuola, di come non era riuscita a legare con nessuno, e di come si sentisse sempre fuori luogo. Quando la prof. le chiese cosa non andava, era indecisa fra aprirsi la manica della camicia e mostrarle il braccio e correre a piangere in bagno in solitudine, ma optò per guardare in basso, distogliere lo sguardo da tutt'altra parte e fissare il muro, come faceva spesso nei momenti imbarazzanti. Si ripresentava il primo problema, non avere la forza di guardarla in faccia la faceva sentire fragile, troppo debole, come un bicchiere in vetro che una volta caduto non si ricompone più, non è più lo stesso. L'insegnante continuava a osservarla, con il solito sorriso leggermente sadico e quello sguardo che riusciva a farla sentire nuda come un verme e, ancora una volta, più fragile che mai. Continuava a insistere, non capiva che stava per crollare. Si sentiva gli occhi lucidi, così preferì spostarsi nell'altra piccola aula, quella utilizzata per conservare i materiali, lontana dai suoi compagni di classe, non le erano mai piaciuti. Ma l'insegnante insisteva ancora, decise di seguirla, la prese per un braccio ma la ragazza si divincolò subito, continuando a guardare in basso, con una lacrima che si faceva spazio sulla guancia. Salì le scale correndo: nessuno l'aveva mai vista piangere prima di allora. Si rifugiò in bagno, appoggiò la schiena alla porta e si lasciò trascinare giù dalla forza di gravità, pianse qualche minuto poi si asciugò le lacrime, si alzó ed uscì, come se niente fosse, con la testa alta come non aveva mai fatto. Non sapeva che in un angolo del bagno c'era Matilde, era andata a consolarla, figuriamoci, per tutto l'anno l'aveva squadrata dall'alto al basso, considerandola meno di zero. Non la degnò di uno sguardo, non la ascoltava, non le importava. La ragazza scese di nuovo al piano di sotto, entrò in aula e prese la sua roba, stava suonando la campanella. L'insegnante la osservò un poco, si avvicinò a lei e le disse sottovoce 'prima o poi mi dirai cos'hai fatto'. La veritá era che non lo sapeva nemmeno lei, aveva fatto tutto e niente allo stesso tempo. Era così confusa da non riuscire a darsi delle spiegazioni logiche. Tornata a casa si chiuse in camera ad ascoltare la musica, tetra e deprimente, ma era l'unica che riusciva a capirla. Non riusciva a smettere di pensare a cosa le avrebbe detto venerdì, si sarebbe sentita peggio e sarebbe stata sollevata allo stesso tempo. Mostrarle il braccio.. Le pareva più difficile di ogni altra cosa, ma voleva liberarsi di quel fardello pesante, di quel segreto che l'aveva obbligata a tenere sempre le felpe, anche durante ginnastica, sotto sotto ci sperava davvero che la prof. le richiedesse che aveva... Arrivò venerdì, ma sembrava che si fosse dimenticata di tutto, sembrava non avesse più tempo da perdere per ascoltarla, in quel momento la ragazza si sentì un po' bambina, troppo infantile per la sua età... Ma avrebbe continuato la sua vita, che qualcuno la ascoltasse o meno.
  
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