Ho
le mani intrecciate tra i tuoi capelli rosa, quando ti guardo e ricordo
la
prima volta che ti ho vista.
Avevi un blocco celeste, completamente scarabocchiato, aperto ed
abbandonato sul
tavolo di quello squallido bar in cui ancora oggi lavoro –
“ti giuro che un
giorno diventerai un cantante e potrai andare da quello stronzo del
direttore a
versargli quei cazzo di caffè nei pantaloni”, mi
hai detto non so quante volte,
e mi hai fatto ridere come solo tu sai fare –, la coda alta e
disordinata
tirata su e mantenuta grazie a chissà quale forza divina e
con le labbra fini
ripetevi la lezione di filosofia.
La filosofia l’hai sempre amata, perché a te
piacciono le persone complicate e
quelle con un casino in testa, sogni di fare la psicologa ma ora che
non puoi
fare altro che studiare, cerchi di capire me.
E mi fai paura, perché troppe volte mi leggi che
nemmeno i libri.
“Luke?”
“Sì?”
“Perché mi stai fissando?”, mi chiedi e
stai sorridendo ed io preferisco non
rispondere, io non ti rispondo quasi mai, non ti rispondo quando mi
chiedi se
preferisco il latte con o senza il caffè, quando mi dici che
devo lasciare la
chitarra ed andare a dormire, quando mi dici che ti amo ed io mi limito
a baciarti
– come ora – e so che un giorno di questi ti
incazzerai, perché penserai che
per me non sei niente e bla bla bla.
Il fatto è che io sono un casino e tu lo sai meglio di
chiunque altro, sai che
odio parlare tanto e che preferisco cantare, che preferisco il letto al
divano,
che sai i miei film preferiti a memoria e le mie insicurezze ancora di
più.
La prima volta che ti ho vista eri incazzata col mondo, col tuo
professore più
di tutto, e quando mi avvicinai “devi ordinare
qualcosa?” ti chiesi, tu alzasti
lo sguardo su di me e “no, sono qui perché trovo i
tavolini molto sexy” mi
avevi risposto.
Poi avevi sbuffato, ti eri stretta l’elastico attorno ai
capelli e “scusami”,
avevi detto “sono solo nervosa. Un caffè alto tipo
questo tavolo andrà
benissimo, grazie mille”, mi avevi sorriso ed io avevo riso.
“Ridi pure, sono io quella che domani deve fare
un’interrogazione, mica tu”.
Ti ho osservata, ero di buon umore e mi sono chiesto come diavolo
facessi ad
essere così spigliata con la gente – tu lo sai
quanto schifo io faccia a fare
amicizia, che sono imbarazzante e tutto il resto –
“a dire la verità”, ti avevo
detto “anche io ne ho una, domani. Ma chissene.”
“Sai chissene? La mia media scolastica e
la mia borsa di studio, amico
mio!”
Quel giorno, insieme al tuo caffè, sei andata via con il mio
numero di telefono
sulla rubrica ed un pezzo di me era già con te.
“Lo so a che stai pensando”, mi riscuoto e riporto
l’attenzione sul tuo volto e
sul rosa sbiadito delle ciocche sparse sul cuscino del mio letto,
mentre tu
appoggi il volto sul palmo e il peso sul gomito.
“Ovvero?”
“La prima volta in cui ho fatto la figura
dell’isterica al bar.”
Rido, “tu sei sempre isterica, amore”.
Adesso ti imbronci, ma stai sorridendo ed io ti amo e lo penso almeno
dieci
volte al giorno, ma tu questo non lo sai.
O forse sì.
A volte sai così tante cose che mi spaventi.
“Vaffanculo.”
Incasso il colpo sulla nuca e mi giro su un fianco ed ora mi stai
fissando e se
ci fosse qualcosa più bello di te al mondo, nemmeno lo
noterei.
“Mi ami.”
“No.”
“Sì, da morire.”
“Come tu ami me?”, mi chiedi e sei furba.
Ci penso, respiro, sorrido.
“Forse?”
“Sta’ zitto, punk rocker.”
Faccio per ribattere, ma poi riformulo la frase nella mia testa e
sgrano gli
occhi, “oh no, non ricominciare, per favore.”
Ghigni, “oh sì. Giuro che non
mi scorderò mai...”
“Dio, andiamo.”
“...quando sono arrivata a casa tua e avevi quella maglia dei
Ramones – “perché
hai rubato la tshirt ad Harry?” mi hai chiesto innumerevoli
volte, io
arrossisco sempre e “l’ho presa in prestito”
– e un paio di forbici tra
le mani, ed eri di fronte a tua madre con l’aria
supplichevole...”
“Ti prego, è imbarazzante.”
“...e “mamma, puoi tagliare le maniche di questa
maglia?”, le avevi chiesto, e
Liz stava lì, ti guarda e cercava di capire, e ti chiese
“perché vuoi
rovinarla?”. Tu avevi sorriso e le avevi
risposto...”
Adesso stai ridendo, quindi ti interrompi e poi
“«perché voglio essere un punk
rocker»”, diciamo insieme e tu hai le lacrime
agli occhi e non posso far altro che seguirti mentre ti lasci ricadere
sul
divano.
Sei ancora più bella quando non hai nessuna preoccupazione a
vestirti, quando
riesci a ridere senza pensare ad altro che a te, o a me, sei ancora
più bella e
vorrei tenerti con me per sempre.
“Hai finito quel pezzo, poi?” mi chiedi, cambiando
discorso come se niente
fosse.
“No, ho arrangiato la musica, spero di riuscire a convincere
Damien – il
proprietario del bar di cui sono praticamente schiavo – a
farmi suonare, sabato
sera.”
Tu mi sorridi, gentile, ti accovacci sul mio petto ed io ti stringo
piano. Sono
un disastro, in queste cose.
“Io credo in te”, dici, alzi piano il volto e lasci
un bacio sulle mie labbra.
“Grazie, davvero.”
“Ti amo.” Lo sussurri, questa volta, quasi come
fosse un segreto.
Il nostro segreto.
Lo sussurri, temendo ciò che dirò, o che, per
meglio dire, tacerò.
Mi guardo intorno, e rivedo tutte le volte in cui mi hai detto di
andare
avanti, di stringere i denti, in cui mi hai chiamata piangendo
perché “sono
tutti delle teste di cazzo” e mi hai chiesto di cantare per
me, addormentandoti
dall’altra parte della cornetta, tutte le volte in cui mi hai
urlato “sei un
idiota se pensi di non avere talento! Fallo per me. Fallo per
me” perché
la mia musica non mi piaceva, perché le parole non erano
quelle giuste; e tutto
è sempre più complicato del previsto.
Ti guardo fisso e ti sorrido, “anche io. Ti amo anche
io.”
E lo sussurro, mi sorridi, mi baci ancora e
vorrei che non finisse
mai.
Adesso che c'è silenzio e tu ti sei addormentata ed io ti
amo, ti amo,
tutto va, semplicemente, bene così.
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