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Autore: DK_    19/03/2008    1 recensioni
Il dubbio, la morte e la disillusione sono il vero volto del Garden? Squall deve affrontare quello che ha fatto e che potrebbe diventare, ma non è troppo tardi per potervi porre rimedio?
Genere: Drammatico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Squall Leonheart
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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NB: KIA sta per KILLED IN ACTION, che si traduce in UCCISO/A IN COMBATTIMENTO


Trigger

Una fanfiction di Final fantasy VIII
by DK

Princìpi del Garden:

-Lavora duramente

-Studia duramente

-Gioca duramente


-Final Fantasy VIII


Soggetto, Squall Leonhart. Diciassette anni. Capelli castani, occhi azzurri. Un’anima tranquilla, non amante delle feste chiassose o delle folle. Ha dei problemi ad esprimersi. Occasionalmente prova a dipingere, ma non è bravissimo. Comandante del Garden di Balamb. Eroe a livello mondiale.

Ha ucciso quarantatré persone.

Era già trascorsa una settimana dall’accaduto quando lo venne a sapere.

Squall Leonhart stava di nuovo lavorando fino a tardi, fissando mucchi di scartoffie d’ufficio con rassegnata determinazione. Aveva spento le luci per evitare visitatori indesiderati a quell’ora, ma fortunatamente le lampade al sodio degli archi che tempestavano il Garden di Balamb brillavano attraverso l’alta finestra quasi fino alla sua scrivania, provvedendo a un’abbondante illuminazione.

Beh, per essere più precisi, la luce brillava sul punto in cui avrebbe dovuto esserci la superficie della sua scrivania. La pila di fogli davanti a lui gli ricordava un gatto domestico: ingrassava o perdeva qualche grammo, di tanto in tanto cambiava posizione, ma rimaneva sempre nel posto più in vista possibile. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui aveva visto più di un paio di centimetri del tavolo di quercia.

In lontananza, riusciva a carpire una melodia che si trascinava dalla sala da ballo. C’era una combinazione concerto/danza ai piani inferiori a cui partecipavano quasi tutti gli abitanti del Garden. Il Garden era stato trattenuto fuori Balamb per tre settimane a causa di una revisione completa e di diverse riparazioni e del fatto che tutti stavano morendo di noia e di tedio. Una festicciola superba, con tanto di musica fornita dalle bande studentesche e cibo raccolto da Balamb, era sembrata un’ottima valvola di sfogo per i coordinatori dell’intrattenimento. Ad ogni modo, nonostante i migliori tentativi di Rinoa, era stato impossibile persuadere il Comandante del Garden a fare almeno un’apparizione; i balli e le feste difficilmente rientravano nel suo campo.

Inoltre, aveva del lavoro da sbrigare.

Squall sospirò e tornò a scrutare le schede dei rapporti delle missioni. Aveva avuto delle riserve quando Cid si era ritirato e aveva suggerito che lui continuasse a mantenere la posizione di Comandante che aveva ricoperto durante la guerra con Artemisia, e sembrava che ora si fossero dimostrate più che fondate. Mentre era un notevole comandante bellico e un genio nel condurre piccole unità alla vittoria, le difficoltà che sorgevano nell’amministrare l’intero Garden erano in qualche modo oltre le sue capacità. Si sentiva completamente disorientato, e aveva perso il conto delle volte che aveva considerato di volare fino a Centra per costringere Cid e la Madre a riprendere in mano il controllo della scuola. Anche se Shu l’aiutava a gestire il tutto, a Squall rimaneva sempre l’opprimente sensazione di non appartenere a quell’ufficio, a quella scrivania, a quelle carte.

Soprattutto, era a disagio quando doveva assegnare le missioni e scegliere quindi quali SeeD mandare nelle situazioni pericolose. Lui stesso aveva certamente affrontato pericolo in abbondanza, ma questo significava solo che sapeva come ci si dovesse sentire. Non era un’esperienza che avrebbe mai voluto infliggere a chiunque altro.

Le missioni SeeD stavano diventando sempre più frequenti. I tumulti scoppiati in diverse nazioni a seguito della guerra avevano causato agitazione e scompiglio economico; il Guil era ai suoi minimi storici, movimenti anarchici e ribelli stavano spuntando da tutte le parti, e i governi di ogni parte del mondo erano prossimi al tracollo. In aggiunta a tutto ciò c’erano i costi aggiuntivi per ricostruire il Garden di Trabia e fondare il nuovo Garden di Esthar. Gli oneri si andavano accumulando e il Garden ne stava sentendo il peso. La risposta sembrava trovare più clienti, e l’instabilità del mondo garantiva moltissime opportunità. Di conseguenza, i SeeD venivano assunti come mai prima di allora. E la sua scrivania era inondata di lavoro. E-

E-

E-

Non riusciva a credere a quello che stava leggendo:

RAPPORTO MISSIONE SeeD #54322

Cliente: Ducato di Dollet

Profilo della Missione: Soppressione di Elementi Ribelli

Esito della Missione: Fallimento.

SeeD assegnati:

Kinneas, Irvine - KIA

Tilmitt, Selphie - KIA

Fondi Ricevuti: 0.00 Guil

Le parole lo torturavano dalla pagina, le loro linee dritte e scure proclamavano la verità con un lugubre carattere definitivo. La data su quel rapporto era di una settimana prima. La spietata notizia era stata così impantanata nel nastro rosso che nessuno l’aveva scoperta, e era arrivata fino alla sua scrivania, e-

E Irvine e Selphie erano morti.

Spazzando con un’arrabbiata sferzata del braccio i rapporti delle missioni, Squall si appoggiò pesantemente alla scrivania, guardando trucemente la superficie di quercia. La sua mente era un guazzabuglio di emozioni che non gli riusciva di cominciare a distinguere. E le parole sul foglio erano ancora nella sua testa come le cicatrici annerite di un tizzone ardente.

Kinneas, Irvine - KIA. Fondi Ricevuti: 0.00 Guil. Tilmitt, Selphie - KIA. Fondi Ricevuti: 0.00 Guil. Esito della Missione: Fallimento. Kinneas, Irvine - KIA. Tilmitt, Selphie - KIA. Fondi Ricevuti: 0.00 Guil. Fondi Ricevuti: 0.00 Guil. Fondi Ricevuti: 0.00 Guil. Fo-

-ttuto Garden fanculo tutto Squall schifoso insensibile non l’hai capita Irvine e Selphie sono morti ed E’ COLPA TUA. Tu li hai uccisi. Tu li hai UCCISI!


Squall sentì le viscere contrarsi, e la bile calda riardergli la gola. Barcollò in avanti nella sua sedia, in preda ai conati di vomito, sporcando tutta la scrivania e tutti i fogli. Non importava. Veramente no. Assolutamente. Nemmeno quando la sedia cadde precipitandolo sul pavimento di marmo.

L’unica funzione del dolore è assicurarti che sei ancora vivo. Era fortunato a provarne ancora. Irvine e Selphie non potevano più perché

tu li hai uccisi

erano morti. E lo erano da una settimana, mentre il resto del mondo era andato avanti, mentre lui era andato avanti. Mentre lui mangiava e dormiva e beveva e stringeva Rinoa la notte, loro marcivano da qualche parte. Da qualche parte. Non sapeva neanche dove si trovassero i loro corpi.

Non c’erano più. I suoi amici. Strano che lui tra tutti dovesse chiamarli così, ma lo erano. L’avevano sorretto nel corso della lunga battaglia contro Artemisia, sfidando il pericolo dei soldati Galbadiani, dei mostri e della Compressione Temporale. E per tutto quel tempo, non avevano mai lasciato il suo fianco quando aveva avuto bisogno di loro.

E tu li hai gettati ai lupi alla prima occasione, stronzo. Il Garden ha tanto bisogno di soldi e qualcuno deve morire. Sei certo di non voler solamente fargli una strigliata per non essere riusciti a portare a termine la missione?

I secondi si allungarono mentre lui rimaneva lì, il freddo pavimento premuto sul viso. Non voleva alzarsi. Una volta alzato, avrebbe dovuto reggersi e uscire da lì, per andarlo a riferire agli altri. Non pregustava la prospettiva; quasi sicuramente l’avrebbero rimproverato almeno quanto lui si rimproverava. O, ancora peggio, avrebbero potuto provare ad assolverlo dalla sua colpa. Avrebbero potuto provare a convincerlo che tutto sommato non era lui il responsabile.

Avrebbero potuto riuscirci. La forza delle sue opinioni private non era poi così grande in quei giorni.

Non poteva permettersi che accadesse. Doveva accettare tutto il biasimo possibile per quella storia, ricordarne l’orrore, assicurarsi che non succedesse mai più.

Accettare la verità non era piacevole. Lui era poco più che un macellaio, che spingeva i suoi stessi amici nel tritacarne. Perché? Per il bene del Garden? Non c’era alcun pericolo, nessun’orda Galbadiana che tuonava all’orizzonte. L’unico nemico era il debito, eterna disgrazia di speranza e sogni.

Quel maledetto vestito, giallo e logoro. Il cappello da cowboy, turbinante nel vento…

Selphie e Irvine erano semplicemente vittime dell’economia; il Guil era il proiettile, il Garden la pistola…

Io ho premuto il grilletto.

interludio

Io ho premuto il grilletto.


Ma dovevo. Dovevo. Dovevo.

Amami, Uccidimi.

L’ho fatto per amore, lo giuro, l’ho fatto per amore. Lei soffriva tantissimo. Dovevo aiutarla.

Dovevo

Farlo.

Le ho promesso che non succederà più e non infrangerò la promessa. Li fermerò. Lo fermerò.

Questo posto è oscuro come l’inferno, ma non importa. Non ho paura. Ho stretto la mano della morte, sapete. Sono diventato il suo migliore amico. Ho dormito con lei in un buco freddo con i topi che facevano musica. Ho imparato moltissime cose in quel buco. Ne ho anche dimenticate un paio, ma non mi mancano. Avrebbero potuto distrarmi.

La poesia folle mi attraversa una continuazione la testa mentre scivolo per i corridoi. Vorrei poter farla sparire ma forse è parte di me. Mi ricorda quello che devo fare qui.

Io ti do questo proiettile come segno del nostro durevole amore…

Il Garden la pagherà.

Avvizzirò i suoi semi, i SeeD, nel terreno, prima che possano germogliare, e farò appassire il Garden con un gelo omicida. Li fermerò tutti. Lo farò.

I promise.

Un passo dopo l’altro, Squall. Un passo dopo l’altro.

Poteva farcela. Aveva combattuto un soldato Galbadiano corpo a corpo a centinaia di metri da terra. Aveva sopportato la compressione temporale. Aveva aiutato a sistemare il caso Artemisia una volta per tutte. Era sopravvissuto da solo per anni. Poteva farcela. Poteva- poteva- poteva-

Dire all’intero Garden che ho assassinato Irvine e Selphie.

La danza nella sala da ballo di Balamb era in pieno svolgimento, le casse ingenti emettevano un ritmo techno martellante che faceva tremare le pareti stesse. Luci colorate andavano a intermittenza per tutta la stanza, illuminando una miriade di corpi dondolanti. Gli studenti del Garden di Balamb non festeggiavano spesso, ma questo implicava solamente che le feste erano più intense quando capitavano. Difatti, a giudicare dalla vicinanza tra gli studenti che ballavano, molti di loro non sarebbero ritornati nei propri letti quella notte.

Si chiese allora se da qualche parte Irvine e Selphie giacessero insieme, i corpi freddi stretti nell’abbraccio della tomba. Il pensiero lo scosse, e tentò di soffocarlo, ma era impossibile bloccarlo. Squall digrignò i denti e s’insinuò nella calca di corpi, sperando che il rumore e il trambusto della folla potessero sviare almeno per qualche istante i suoi pensieri morbosi.

Seguì un’immaginaria linea retta verso il palco di fronte alla stanza, facendosi largo a spallate contro chiunque gl’intralciasse il cammino. La folla non ci mise molto a percepire la sua ira e a scansarlo. Dovunque mettesse piede, i ballerini sembravano ritrarsi fino a farlo diventare un’isola nell’oceano.

“Hey! Squall, vecchio mio! Che c’è?” Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque. Zell. L’ultima persona con cui aveva bisogno di parlare in quel momento. Squall continuò a camminare.

“Squall? Hey, Squall, c’è qualcosa che non va?” Zell emerse dalla folla accanto a lui, trascinando con sé la ragazza con la treccia - comunque si chiamasse. “Squall?”

Lui continuò a camminare. Non ora. Doveva finire quella storia presto, strappare la freccia dalla ferita in un movimento fluido. Il palco si avvicinava sempre più.

La banda continuò a strimpellare anche quando lui appoggiò un piede sul primo gradino e cominciò a salire. Cominciarono a vacillare soltanto quando lui li raggiunse e si diresse dalla cantante, che indietreggiò, cullando protettivamente la sua chitarra elettrica come fosse un bambino. Il resto della banda si interruppe finché non ci fu nulla se non un profondo, brutto silenzio.

Squall impugnò il microfono e lo sollevò, schiarendosi la gola. Odiava parlare alle folle in ogni circostanza, e non riusciva a trovare un messaggio peggiore da consegnare. Meglio essere più rapidi possibili, allora.

“Attenzione… ho… un annuncio da fare.” I movimenti della folla avevano cominciato a diminuire, e molti avevano preso la cosa come un gioco. Sentì la collera iniziare a formarsi nel suo corpo, concentrandosi pulsante dietro i suoi occhi che per un momento pensò che sarebbero scoppiati. Era arrabbiato; arrabbiato con la folla per comportarsi così, arrabbiato con se stesso per non fare nulla per impedirglielo, ma soprattutto, con Irvine e Selphie per essere morti. Prese quella rabbia, la focalizzò, e urlò più forte che poté. “Attenti, dannazione! Questo è un ordine!”

I riflessi levigati da ore di allenamento vennero alla ribalta ed ogni cadetto nella stanza rimase improvvisamente immobile e attento, i corpi fermi, gli occhi su di lui. Le luci colorate a intermittenza danzavano ancora sulle loro figure rigide, dando alla scena un’apparenza surreale e onirica. Se solo fosse stato un sogno, qualche incubo irreale da cui avrebbe potuto svegliarsi da un momento all’altro… ma così non era, e sarebbe stato debole e inutile illudersi del contrario. Un freddo infinito, e notti solitarie passate a sognare in un cuscino inzuppato di lacrime gliel’avevano insegnato. Negare la realtà non gli aveva riportato indietro la sua sorellina. Non gli avrebbe riportato indietro neppure Selphie e Irvine.

“Ci sono dei rapporti su una disgrazia,” disse Squall, tentando di controllare la sua voce. Un leader non poteva spezzarsi di fronte alle sue truppe, dopotutto. “Irvine Kinneas e Selphie Tilmitt sono stati uccisi in combattimento a Dollet. Le pratiche cominceranno più avanti. E’ tutto.” Lasciò andare il microfono e quello cadde a terra, diffondendo in tutta la stanza un arrabbiato fischio mentre urtava e rimbalzava sul legno duro del palco.

Le sue cattive notizie avevano sventrato il buon umore che aveva permeato la stanza, e che stava ora morendo in modo caotico. Per tutta la folla, la gente piangeva e gridava, c’era chi pretendeva una spiegazione, chi dava libero sfogo al proprio puro e informe cordoglio, altri ancora che gridavano che quella avrebbe dovuto essere una festa, per la miseria, e chi se ne fregava se un paio di deficienti che la maggior parte di loro non conosceva erano morti?

Squall si allontanò dal palco e andò verso le uscite sul retro della sala. Quel posto si stava trasformando in un’area disastrata, e non voleva nient’altro che uscirne prima di essere ingoiato dal tornado di emozione. Aveva paura che la sua rabbia avrebbe potuto avere la meglio su di lui, che avrebbe potuto…

“Squall! Squall!” Sentì una mano sulla spalla, e fu bruscamente voltato.

Era stato Zell, il corpo bruciante di ira repressa. Il suo volto era diventato di un rosso intenso, e il suo tatuaggio si stagliava su di esso come uno scuro cancro maligno. Denti digrignati, occhi ridotti a fessure, pugni che si aprivano e si chiudevano, era il ritratto della rabbia. La ragazza della biblioteca gli era vicino, timorosissima e terrorizzata. Delle lacrime scorrevano sul suo viso pallido, in parte per le notizie, e in parte, pensava Squall, perché stava vedendo un lato di Zell per lei sempre rimasto all’oscuro fino ad allora. Un lato che la stava spaventando a morte.

“Ma che cazzo di problema hai, amico?” Zell adesso stava praticamente urlando. “Erano tuoi amici, e hai fatto rapporto come se stessi dando le previsioni del tempo! Perché diamine dovevi dare la notizia a tutti in quel modo? Non pensi di dovergli qualcosa? Che razza di stronzo-”

Squall lo colpì in faccia. Forte.

Non voleva farlo davvero, non era nemmeno consapevole di essere sul punto di farlo finché non aveva sentito la sua rabbia concentrarsi sul pugno serrato. Subito, il suo braccio era volato in alto, entrando in collisione con la fronte di Zell con un sommesso sgretolio. La testa del campione di arti marziali scattò indietro in uno spruzzo di sangue, e Squall si sentì riempire di un’improvvisa gioia tetra e primordiale. Zell era suo amico, ma per una volta era piacevole assalire e non essere assalito, dare a qualcun altro un pizzico del dolore che il mondo appoggiava sulle sue spalle.

Zell cadde a terra, atterrando sgraziatamente sul sedere. Si strinse una mano sul naso ora zampillante, guardando torvo Squall. Era ancora furibondo, e Squall sapeva che Zell avrebbe potuto demolirlo se solo l’avesse voluto; non aveva con sé il suo gunblade, e l’altro era un maestro nel combattimento corpo a corpo. Ma Zell non si mosse nemmeno per alzarsi. Rimase semplicemente seduto lì, esprimendo con sguardi truci tutto il suo odio per il Comandante del Garden. Squall si chiese se non avesse appena ucciso un’altra amicizia.

La tensione fu rotta dalla ragazza della biblioteca, che si inginocchiò accanto a Zell e esaminò delicatamente il suo viso. “T-tieni, Zell,” disse, premendo un fazzoletto sul flusso di sangue. “Andrà tutto bene.” Poi, alzò lo sguardo a Squall, le lacrime fresche di frustrazione e rabbia le colmavano gli occhi.

“Vattene via e lasciaci stare, stupido idiota!” E cominciò a singhiozzare.

Squall si girò per andarsene, per allontanarsi dalla folla e stare da solo, dove avrebbe potuto pensare. Fronteggiare chiunque altro sarebbe stato un incubo. Non era certo di cosa fare, come aveva provato l’incontro con Zell.

Quasi prima di rendersene conto, i suoi piedi l’avevano spinto fino alle porte del Centro di Addestramento. Mentre si avvicinava, sibilarono per aprirsi con un sospiro pneumatico e lui entrò. Lì c’erano parecchi posti in cui avrebbe potuto recarsi per stare da solo, e ne aveva scandagliato uno per uno durante i suoi anni pre-adolescenziali, quando era ancora un lupo solitario. Prima di scoprire

Kinneas, Irvine - KIA. Tilmitt, Selphie - KIA

degli amici.

Cominciò a farsi strada lungo i sentieri ricoperti di erba troppo cresciuta, circospetto per ogni creatura che avrebbe potuto attaccare. Perché era inerme, avrebbe potuto essere in pericolo, ma d’altronde la maggior parte delle creature nel Centro di Addestramento aveva imparato a temere il suo odore. Poteva sperare che li tenesse lontani da lui, almeno per un po’.

Poteva già sentire il crepitio della piccola cascata che sgorgava da una scogliera nelle vicinanze. C’era un piccolo posto in cui si rifugiava spesso, un’alcova di roccia con dei cespugli in fiore. Avrebbe aspettato lì, pensando a quello che aveva fatto, e quello che avrebbe fatto.

Forse se ci avesse pensato a lungo, tutto avrebbe avuto un senso.

interludio

Non ha proprio senso, sapete. La vita, intendo. Nulla ha senso, nonostante quello che chiunque possa provare a dirvi. E’ tutto una grossa beffa, una grossa beffa di cattivo gusto che vede la morte come il suo pezzo forte.

La poesia è tornata, sbatacchia il mio scheletro come un topo in una prigione d’ossa. Non finirà mai.

Io ti do questo proiettile come segno del nostro durevole amore / Poi le staccherò quella cazzo di testa

Certo che sono pazzo, bastardelli. Adesso vi spiegherò perché.

Eravamo andati a letto insieme la notte prima, e questo ha peggiorato tutto. Perché quando ho dovuto farlo, continuavo a pensare al suo corpo morbido e alle lenzuola lisce, alla sua boccuccia affamata e alle parole d’amore che pronunciava. E’ stato brutto. E’ stato tutto bruttissimo ed era come una qualche grottesca parodia e non lo dimenticherò mai.

Sìììì… oh sììì…

Nononononono ti prego, non posso non posso nononono…

La sua bocca, calda e viva. Bacia, succhia, ama.

La sua bocca, calda per il sangue che si versa sul mento. Rantola, annaspa, grida.

I suoi occhi, vitrei per il piacere. Pregano flebilmente, “Amami.”

I suoi occhi, vitrei per il dolore. Pregano urgentemente, “Uccidimi.”

Amami.

Uccidimi.

La sua pelle, scivolosa per il sudore, appiccicoso di una dolcezza simile alla seta. E’ tantissimo, è bellissimo.

La sua pelle, scivolosa per il sangue, appiccicoso tra le mie dita, in un flusso interminabile. E’ tantissimo, è rossissimo.

Mani soffici, tenere e calde, stringono le mie, scorrono sul mio corpo.

Mani che stringono la sua ferita, nel tentativo di trattenere le sue stesse interiora nel suo addome devastato.

Nel buio l’odore inebriante di un profumo tenue e del sesso.

L’odore del suo piscio e delle sue feci mi brucia le narici. Si è svuotata; morte, non essere orgogliosa.

Caldissimo… caldissimo… sìììì voglio stare così per sempre sempre sem

Il sangue caldissimo, bagna due paia di mani. Finiscila e fai in modo che tutto finisca e smettila di farla soffrire.

Oh! Uh! Ci sono quasi… quasi… non ti fermare non ti fermare

Devo baby prometto che non soffrirai a lungo prometto che lo fermerò lo prometto.

Mi insinuo tra le sue gambe in una casa calda e umida. Trema, freme. Oh, sì.

Insinuo la canna della pistola nella sua bocca, calda e umida per il liquido cremisi. Trema, la canna di metallo risuona sui suoi denti. No, oddio, no.

Oh sì fallo lasciati andare amore mio

Fallo.

Sì esatto amami

Uccidila.

Lasciati andare

Premi il grilletto.

Sì!

Nonononononono oddio non posso farlo non posso oh ti amo tantissimo.

Arriva oh

Premi il grilletto.

Oh!

Sento la pistola sobbalzarmi in mano, offrendo un dolce rilascio del dolore. Il suo sangue caldo mi schizza in faccia.

GUERGASMO.


… si calma… si rilassa…


Oddio la sua testa… tutto si fa fioco, cade.

hmmm

svanisce

ah

muore

L’alcova appartata era un riparo fresco e silenzioso eccetto per il suono della piccola cascata che quasi mormorava mentre precipitava sulla facciata dello strapiombo. Squall era seduto in una minuta chiazza d’erba circondata da pietre muscose e cespugli in fiore che colpivano l’occhio per i loro germogli rossi. Nel suo tipico abbigliamento nero, pensò di dover sembrare fuori posto, una figura di buio e morte in un paesaggio verde.

Si ritrovò a sentire la mancanza dei suoi GF. Shiva forse avrebbe potuto offrirgli qualche specie di consiglio nei suoi toni gelidi. Quetz non era tipo da chiacchiere, ma almeno avrebbe ascoltato, dispiegando le ali simili a pergamene e solleticando i ricordi di Squall.

I Guardian Forces erano stati proibiti subito dopo la fine dell’ultima guerra, quando studi sugli ‘eroi’ avevano finalmente dimostrato che senz’alcun dubbio le creature causavano seri danni alla memoria, danni che avrebbero potuto essere persino genetici. Non avrebbe portato a nulla di buono, fu deciso, avere un esercito di nulla più che truppe dal cervello danneggiato nelle battaglie contro le streghe. Si era parlato di una qualche specie di soluzione su cui si stava lavorando nei laboratori di Odine, ma ogni successo in quel campo si trovava sicuramente in un lontano futuro. Pertanto, il programma GF era stato terminato. Non che questo avesse necessariamente aiutato Squall e gli altri: verso la fine del conflitto, avevano junctionato due o tre GF alla volta, e gli scienziati non erano certi di quali sarebbero state le conseguenze. Gli avevano detto che sarebbe tranquillamente potuto diventare tanto un pazzo furioso quanto un vegetale entro i suoi sessant’anni.

Se fosse vissuto così tanto. L’abbandono del programma GF aveva aumentato di molto il tasso di incidenti tra i SeeD, e Irvine e Selphie erano morti a riprova di ciò. Forse era solo questione di tempo perché arrivasse anche la sua ora. Forse sarebbe stato meglio. Così non avrebbe più potuto destinare altri SeeD. Così non avrebbe più dovuto sopportare quel dolore.

I cespugli dietro di lui si divisero in un fruscio di foglie. Non dovette voltarsi per sapere chi fosse. Lei conosceva quasi tutti i posti in cui lui andava per stare da solo. Glieli aveva mostrati per provare a se stesso che stava cambiando, che si era reso conto di aver bisogno di altre persone e che poteva fidarsi di lei. Non si risentiva della sua intrusione; ne era anzi vagamente grato, nella speranza che avrebbe potuto aiutarlo a capire.

“Eccoti qui,” disse Rinoa, cercando di trattenere la sua voce. Eppure, era certo che avesse pianto. “Hai rotto il naso a Zell, sai.”

“Mi spiace.” Era vero, anche se pensava che Zell se lo fosse cercato.

“Lui starà bene,” disse Rinoa mentre gli si avvicinava e si abbassava nell’erba. Piegò le ginocchia fin sul viso e vi appoggiò sopra il mento, poi lo guardò. “E tu?”

“Penso di sì.” Serrò il pugno contro il terreno, scavando dei solchi nel suolo. “Sono vivo, no?”

“Squall…” Rinoa si allungò, toccandogli un braccio, e lui cercò di non ritrarsi. “Parlami, d’accordo?”

Per un momento, scese il silenzio. Squall rimase semplicemente seduto lì, e la sua fronte si corrugò mentre cercava di parlare, di far uscire le parole giuste per spiegare tutto; come si sentisse e perché e cosa pensava di fare. Era una strana sensazione per lui, voler parlare spontaneamente. Solo mesi prima, a qualche giorno dalla Seconda Guerra della Strega, non avrebbe mai nemmeno considerato l’idea di condividere i suoi sentimenti con qualcuno. Ma da qualche parte in quel confuso conflitto infernale, era giunto alla conclusione che forse poteva fidarsi degli altri, forse ne aveva bisogno. Soprattutto, amava Rinoa, per quanto dura fosse da accettare e comprendere dopo tutto quel periodo di solitudine. Se avesse mai parlato con qualcuno di quel che pensava, era lei.

“Guardami,” quasi lo supplicò lei, cominciando a suonare preoccupata. “Squall, ascolta, so che è veramente dura per te ma penso davvero che dovresti parlar-”

“E’ colpa mia,” la interruppe, “Io gli ho affidato quella missione, e sono morti, ed è colpa mia.”

Non riusciva nemmeno a guardarla. Il suo volto era un qualcosa che sembrava sfuggito da un sogno: una bocca di rosa, un naso dalla forma elegante, un paio di occhi marroni color cioccolata che pareva fossero in perpetua sorpresa. Non pensava che avrebbe mai potuto stancarsi di scrutare quel volto. Ma aveva paura che se l’avesse guardata adesso, anche lei gli avrebbe letto qualcosa in viso, qualcosa di cupo e terribile. Qualcosa che non avrebbe potuto amare.

“Se non avessi dato loro quell’incarico, sarebbero ancora vivi.”

“Questo non lo sai!” Le sue dita si strinsero sul suo gomito, spiegazzandogli la giacca e quasi penetrando insistentemente la carne sotto. “So che sei triste che se ne sono andati… a-anch’io sono triste. Ma prendertela con te stesso non porterà a nulla, Squall. Hanno scelto loro di accettare la missione. Tu non li hai costretti…”

“Ah no? L’hanno fatto per la nostra amicizia, Rinoa. Hai presente no, quella cosa che avevamo detto sarebbe durata per sempre? Suppongo che per sempre è durato soltanto fino ai guai finanziari del Garden.”

“Squall… no. Per favore, non parlare così. Non sapevi cosa sarebbe successo, altrimenti non li avresti mandati. Smettila di farla sembrare come se li avessi uccisi di proposito!” Adesso lo stava guardando male, e in un certo senso appariva triste e arrabbiata allo stesso tempo.

“Il risultato finale è sempre quello. Li ho mandati fuori in una missione e sono morti. Che sia stato intenzionale o meno non importa. Sono morti a causa mia.” Desiderava che quello che stava dicendo fosse una bugia, ma lì non avrebbe potuto esserci alcuna smentita. Irvine e Selphie erano vittime dell’economia, sì, ma lui era un complice.

Io ho premuto il grilletto.

“Questo è quello che il Preside Cid disse di voler evitare ai tempi dei problemi che ci stava creando NORG,” proseguì Squall, incespicando sulle parole, “e ora sta succedendo di nuovo… e io sto aiutando il processo.”

Rinoa si morse il labbro e distolse lo sguardo, concentrandolo intensamente su un grappolo di fiori bianchi germogliati dall’erba ai suoi piedi. Squall avrebbe potuto indovinare cosa stesse pensando, i suoi tentativi di trovare le parole giuste. Rinoa non era un SeeD. Per lei i concetti intrinsecamente legati alla vita di uno studente del Garden - vivere per combattere, allenarsi per dare la propria vita per la missione, pensare che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo - erano estrani e difficili da afferrare.

“Non dico che mi piaccia l’idea di combattere per soldi…” Si zittì per un momento, stringendo più forte a sé le ginocchia, e chissà, forse stava pensando a suo padre, lo stimato Generale Caraway. L’uomo che alcuni dicevano avrebbe portato Galbadia a un rinato splendore e completato il sogno di Deling. “Non mi piace l’idea di combattere, punto. Ma almeno se si combatte per qualcosa in cui valga la pena credere, serve ad uno scopo. Il mondo ha bisogno del Garden, lo sai. Abbiamo visto tutti i SeeD del futuro contrastare Artemisia. In qualche modo, il Garden deve esserci. Le streghe…”

“Non sono tutte cattive. Tu ne sei la prova. Ma… anche se alcune di loro lo sono, mi chiedo se il Garden sia meglio.”

Ecco. Nemmeno lui si era accorto di aver pensato una cosa del genere fin quando non l’aveva detto. Era stupito quasi quanto Rinoa, se si poteva considerare un’indicazione il fatto che avesse improvvisamente trattenuto il respiro.

“Che stai…? Io… non riesco a credere che stai dicendo certe cose, Squall. Il Garden ci ha aiutato a salvare il mondo. Il Garden di Balamb è casa tua, è la tua vita…”

La risata di lui fu talmente breve e aspra che avrebbe potuto essere un singhiozzo strozzato. “Ma non è ovvio? Guardami, Rinoa. Io non… non riesco… è già un miracolo che riesco a parlare con te in questo momento, dopo tutto quello che abbiamo passato. Ma, se qualcuno mi ordinasse di farlo, potrei uccidere un uomo in un batter d’occhio. Devo. Ho ucciso i miei amici.” Lei provò a protestare, ma lui incalzò:

“E’ questo ciò che il Garden mi ha dato. Istinto omicida.”

“Squall…”

“Non ci vedi proprio niente di sbagliato in questo?”

“Squall…”

“Non ci vedi proprio niente di sbagliato in tutto questo?”

“Squall…”

“Siamo cresciuti insieme. Avevamo promesso. Amore, coraggio, speranza. Allora pensavo fosse tutto ciarpame idiota e sentimentale, ma ho iniziato a crederci. Alla fine, però, non ho fatto altro che ucciderli. E’ in questo che sono bravi i SeeD, uccidere cose. E’ per questo che siamo stati creati.”

Squall! Ascoltami!” Rinoa lasciò andare le gambe e gli afferrò le spalle. “Smettila- di incolpare- te stesso!” Puntualizzò ogni spezzone con scrollate quanto più forti le riuscì di fare. Poi, guardò altrove quasi fosse imbarazzata e disse in una voce più dolce:

“Ti prego, non dire queste cose su di te. Non sei una cattiva persona, Squall. Io ti amo, e io non amo le cattive persone.”

E Seifer? Il pensiero gli attraversò la mente, ma non lo espresse ad alta voce. Seifer ora era sparito dalla circolazione, probabilmente non avrebbe mai più fatto rivedere la sua faccia dalle parti del Garden. Era un peccato che non avesse mai realizzato il suo sogno di diventare un SeeD. Adesso sembrava una posizione perfettamente adatta alla sua crudeltà.

“Non si può continuare così. Non posso più continuare ad affidare queste missioni… il Garden non può… io…”

“Io non che cosa fare,” disse finalmente, mentre Rinoa nascondeva il volto nell’incavo tra il collo e la sua spalla. “Io n-n-n-” E le lacrime lo sorpresero, calde e impietose, brucianti come due solchi gemelli sulle sue guance. Non aveva pianto così da quando aveva perso la sua sorellina, e non aveva mai pensato sarebbe ricapitato.

Il suo mondo si stava frantumando, sbriciolando. La sua fiducia nel Garden e in se stesso non c’era più. Era, più di ogni altra cosa, semplicemente stanco. Stanco di combattere, stanco di uccidere, stanco della morte. Stanco di essere un SeeD. Stanco di essere un assassino.

Anche Rinoa stava piangendo di nuovo, e le sue lacrime gli bagnavano il collo. Lei lo abbracciò, cercando di dargli conforto. “E’ tardi… andiamo a letto e tutto avrà un aspetto migliore domani mattina.” Emise un breve singhiozzo e lo strinse più forte. “Penseremo a q-qualcosa, Squall. T-te lo p-prometto.”

interludio

Parliamo delle promesse.

Non so quanto tempo sia passato da quel momento e quello in cui mi sono svegliato in una tomba scoperchiata, seppellito in una calca di cadaveri. Non so perché dovevo essere io a sopravvivere.

Sono solo sfortunato, mi sa.

Puzzava da morire, l’aria pregna di quell’odore simile al rame che hanno il sangue e la morte. I topi strisciavano su di me, squittivano, i loro piccoli corpicini si rintanavano nel calore delle mie ascelle e del cavallo dei miei pantaloni. C’erano corpi ovunque. Su di me, sotto di me, ad entrambi i fianchi. Mi ci volle un minuto buono per studiare la mia situazione; ero vivo in una valle di morte, intrappolato in una massa di carne lacera e ossa, naufrago in un mare di cadaveri e creature pelose e frementi.

Lei era lì vicino, un fantasma del suo profumo era rimasto avvinghiato alla sua figura maltrattata. Riuscii a riconoscerla dai colori vivaci che portava, e mi trascinai da lei attraverso i corpi, scivolando su un tappeto di macchie di sangue incrostato, gomiti acuminati, e vestiti strappati. Non so cosa stessi pensando. Forse volevo soltanto rivederla un’ultima volta. Forse volevo assicurarmi di averle risparmiato almeno questo. Qualsiasi fossero le mie ragioni, fu un errore.

Non riesco a pensarci. Non ci riesco. Qualunque cosa ci fosse lì… non era lei, non più. Era una cosa. Il fatto che le somigliasse rendeva il tutto più orrendo, con i suoi arti quasi rotti irrigiditi dal rigor mortis, i suoi capelli arruffati e aggrovigliati dal sangue coagulato e rappreso, la sua pelle molle, fredda e brulicante di vermi coperti di pelo. Le stavano mangiando gli occhi, banchettando della sua carne fredda. Uno era fuori dall’incavo, penzolante a metà dalla rovina del suo volto.

Penso che sia stato allora che ho perso ciò che era rimasto della mia mente.

Non sarebbe dovuto succedere. Non saremmo dovuti finire così. Possedevamo un qualcosa di puro e caldo, che bruciava dell’energia naturale della giovinezza. Avrebbe dovuto durare per sempre. E adesso era morto, e marciva in un buco sottoterra, con i ratti che ne masticavano il viso.

Gridai. Strillai. Mi distrussi, e quando finalmente mi rimisi in sesto ore dopo e scappai da quella fossa, non ero più l’uomo di prima. Molto di me era morto con lei in quel buco, la mia personalità, obiettivi, ambizione, inibizione. Ero un uomo nuovo, con un nuovo scopo nella mente.

E’ qui che arriviamo con le promesse.

Gliel’avevo promesso, allora, che non avrei permesso che succedesse mai più. Che l’avrei fermato.

E lo farò.

L’armamentario è ben rifornito, e sapevo sarebbe stato così.

FSD-71. Fucile SeeD, modello settantuno. Il miglior fucile di precisione al mondo, migliore persino dei modelli di Esthar. Leggero, basso rinculo, accuratezza letale. Ed è mio. Tutto mio.

Non devo dimenticarmi i proiettili. Li prendo dalla loro scatola, e vi infarcisco le mie tasche insanguinate. Munizioni perfora-protezioni. Più che sufficienti per il lavoretto che ho in mente, ma è bene essere preparati. Me ne serviranno tantissimi.

Sapete che razza di potere ha un proiettile? Volete che ve lo dica? No problem. Posso raccontarvi tutto quello che volete sapere e anche di più.

Si può stringere un proiettile in una mano. Non è nemmeno poi così pesante, relativamente parlando. Se poi si mettono in fila, allora non sembreranno più una sciocchezza. Razzi giocattolo, forse, o se a osservarli è un pervertito, un gruppo di piccoli falli metallici.

Ma volete sapere cos’è davvero un proiettile? Non è una cartuccia o polvere nera o una banale pallottola o nessuna di questo genere di cose, non del tutto. Un proiettile è tutte queste cose messe insieme e altre ancora.

Un proiettile è distruzione condensata. Un proiettile è la morte racchiusa in un comodo pacchetto.

Possiamo anche parlare dei sogni, credo. Lei era il mio. Non avevo mai vissuto quel genere di vita in cui una persona dipende da una cosa o da qualcuno che gli sta accanto da tempo, e suppongo di essere stato stupido a cambiare. Ma l’amavo, l’amavo davvero. L’amavo nonostante i suoi difetti, o forse anche per quelli, per quanto folle possa sembrare detto così. L’amavo.

E’ bastato un proiettile perché tutto quello che era se ne andasse per sempre. Un proiettile, sparato da una pistola, impugnata da me. Le ha trapassato il palato e il cervello e poi è schizzato fuori dalla sua nuca. E’ difficile credere che quella roba grigia che si spruzzò dalla ferita era lei, che era ciò che l’aveva spronata a leccare i frappé gelidi e a passeggiare sulla spiaggia e ad adorare i film lacrimosi e romantici. Ma lo era. Quella cosa era lei, ed è bastato un proiettile per farlo esplodere in un sol colpo. Per ridurla dalla donna che amavo, la donna che volevo sposare, ad un guscio vuoto senza vita e amore e spirito e voce…

I sogni muoiono.

Ecco il potere di un proiettile.

Crollai a terra, svenuto. Non so, forse c’entra qualcosa col fatto che vedere la persona che ami morire sgraziatamente in una pozza dei fluidi del suo stesso corpo ti fa uno strano effetto.

Era talmente raccapricciante, tanto selvaggio, tanto dannatamente assurdo. Non è successo nel modo in cui si vede sempre nei film, dove le persone dichiarano il loro amore poco prima di esalare l’ultimo respiro. Non è successo assolutamente così. Non c’è stata nemmeno la dignità dell’ultimo bacio, di una finale dichiarazione mormorata dei nostri sentimenti. Lei gorgogliò, gorgogliò, cazzo, e non riuscì a rispondermi.

Le avevo detto che l’amavo. Le avevo detto che l’avrei protetta. Non ci sono riuscito.

Sono riuscito solo ad ucciderla.

Continuo a sognare quel momento quando precipito in un sonno agitato, continuo a vederlo ogni volta che chiudo gli occhi. Non so neanche se mi abbia sentito dire “Ti amo” mentre le lacrime mi rigavano il volto e spingevo la canna del fucile nella sua bocca. Non so se abbia capito.

Quando mi sforzo di pregare, è questo che chiedo. Non che lei mi sia ridata, perché so che è impossibile, ma che almeno abbia capito. Ti prego, Dio, fa che abbia capito.

Il fuoco piovve dal suo cielo di piombo di pistola e atterrò sulla spiaggia, facendo scoppiare la sabbia nell’aria in tanti geyser. Le esplosioni squarciavano i timpani, rombavano come tuoni, facendo tremare la terra e conficcandosi nella testa di lui come pugnali taglienti più di un rasoio. Le detonazioni periodiche erano coperte dall’infinito picchiettio delle sparatorie, una melodia infernale accompagnata da una percussione mortale. E ai solisti provvedevano il morente, il ferito, lo spezzato.

Ascoltate tutti lo stile musicale della Morte nel suo album di punta, Guerra.

Sopra, Dollet era in fiamme, il fumo si sollevava in colonne cineree. Sotto, altre navi stavano approdando, rigurgitando i SeeD operativi che il ducato aveva richiesto. Nel mezzo, su una spiaggia ricoperta di cadaveri e contenitori vuoti di munizioni usate e di solitarie conchiglie dimenticate, Squall Leonhart continuava a combattere.

I Galbadiani l’avevano accerchiato, cercavano di fare con semplici numeri quello che non potevano fare con l’abilità. Erano sempre gli stessi; uomini senza volto celati da elmetti simili ad un insetto, vestiti in uniformi blu, brandivano le loro spade con competente ma prevedibile talento. L’avevano circondato, e gli sferravano colpi, e facevano del loro meglio per spargere le sue interiora e tingere la sabbia bianca di rosso.

Il gunblade gli sussultava tra le mani come una cosa vivente, un minuscolo drago affilatissimo che ha fame di sangue. Accoglieva e deviava fluidamente un colpo subentrante sulla parte piana della spada, poi si piegava, si imperniava, e affondava, aprendo lo stomaco del suo avversario con la stessa destrezza di un chirurgo. L’uomo inciampò all’indietro mentre le sue viscere sgusciavano fuori dalla ferita, guardandosi con una specie di sorpresa attonita.

Era una morte sconvolgente, e persino Squall ne sarebbe stato temporaneamente distratto se non avesse cominciato a sprofondare, a immergere la sua coscienza nella piscina rossa e fredda di istinto che il Garden aveva costruito per lui. Adesso combatteva con ferocia meccanica, non pensava, non sapeva, si concentrava solamente sulla battaglia alla mano.

Imperniati di nuovo, sferzata diagonale alla giugulare. Uccidi. Para, balza al lato, punta al cuore. Uccidi. Voltati, para, para, sferzata orizzontale al collo. Uccidi. Schiva, colpisci alla coscia, colpisci al braccio, colpisci alla testa. Uccidi.

Uccidi, uccidi, uccidi.

Il combattimento si protrasse finché la lama e l’elsa del gunblade non divennero scivolosi per il sangue dei morti e le sue braccia bruciarono esauste. Eppure continuavano ad andare da lui e insieme SeeD e Galbadiani ballavano una danza di distruzione sulla spiaggia. La sabbia ormai era rossa, inzuppata di una quantità impossibile di sangue. I cadaveri erano sparpagliati per terra come foglie cadute e riusciva a muoversi a malapena senza inciampare in uno di essi. Eppure continuavano ad andare da lui, e lui continuava ad ucciderli.

Dopo quella carneficina che sembrò durare un’eternità, la quiete si diffuse sul campo di battaglia e Squall alzò la testa per scrutare le centinaia di corpi distesi in ogni direzione che coprivano la spiaggia come una grottesca distesa di pidocchi. Affondò la caviglia tra i cadaveri, riprendendo abbondantemente fiato, grondante di sangue che ricadeva come in una pioggia cremisi.

Li aveva uccisi tutti.

E fu allora che vide lei.

Camminava nel caos a passi regolari, una sagoma sottile in un vestito indago. Sembrava apparentemente indifferente alle macchie che i suoi indumenti si procuravano passando in mezzo ai morti, ma d’altra parte non sembrava un problema; una qualche forza invisibile le spazzava i corpi dal sentiero, di modo che avesse sempre abbastanza spazio per poggiare il piede. Il suo viso era celato da una maschera a forma di un uccello grottesco, e mentre Squall immobilizzava gli occhi in quel contorto sembiante, sentì il sangue raggelarsi nelle vene.

Era una strega, il suo nemico. Il nemico del Garden. Venuta ad ucciderlo dove i suoi lacchè avevano fallito.

Prima che il pensiero avesse anche solo il tempo di registrarsi, eccolo che correva, tagliando la distanza che li separava a brusche falcate. Doveva colpire subito, prima che lei potesse invocare la sua magia e lo abbattesse. Sapeva che non ci sarebbe voluto molto. Lei stava già alzando le braccia verso di lui, di sicuro stava accumulando dell’energia per l’incantesimo che l’avrebbe finito. Non poteva morire ora, non dopo tutto questo, non dopo-

Scarto, squarcio.

La gamba di lei si aprì in uno spruzzo di rosso mentre la punta affilata della sua lama strappava il tessuto sfarzoso e perforava la pelle. Se la quantità di sangue che fuoriuscì poteva essere preso ad indicazione, aveva beccato un’arteria. Bene.

La strega strillò, agitando convulsamente le braccia, la concentrazione spezzata. Squall incalzò, spingendo la sua arma contro di lei anche quando la donna inciampò, sofferente. L’acciaio le lacerò l’addome come uno scappello con la carta velina, e il gunblade si conficcò fino all’elsa incontrando una resistenza pressoché nulla. Le urla si affievolirono, rimpiazzate da un lungo, sommesso lamento.

“Uggggggh…”

Cadde, e il suo peso morto lo costrinse a terra. Lui atterrò sulla schiena, sentendo il corpo di lei premersi contro il suo, il becco di legno della maschera a pochi centimetri dal suo volto. Erano talmente vicini che avrebbero potuto essere amanti, se non fosse stato per le orribili ferite di lei e l’odio reciproco.

“…S…quall…” disse lei in un ultimo sbuffo d’aria che svuotò i suoi polmoni. Il suo nome? Come faceva a sapere il suo nome?

Avrebbero potuto…

No…

Armeggiò con le cinghie sul retro della maschera come un uomo impazzito, sapendo cosa avrebbe trovato e temendo la verità.

Noa…

… avrebbero potuto essere…

La maschera gli ricadde tra le mani, e la buttò via, e urlò.

Rinoa!

Degli occhi morti e di vetro lo fissavano da un viso che conosceva bene. Un viso che amava.

Oddio… cos’ho fatto?

“Rinoa!”

Tese una mano per sfiorarle la faccia, con i guanti insanguinati che lasciavano sulla sua pelle candida delle righe simili a quelle che antiche civiltà usavano dipingersi prima di dar battaglia. Lei non rispose.

“Rinoa! Di’ qualcosa! Non farmi questo! Non lasciarmi!” Rafforzò la stretta sul suo viso al punto che avrebbe sentito dolore, se ne fosse stata ancora in grado.

Ora che sapeva chi era la strega, rivisitò le sue azioni sotto una nuova luce. Aveva sollevato le braccia non per lanciargli un incantesimo, ma come un gesto protettivo contro un folle armato di spada. Un folle che evidentemente lei non avrebbe mai potuto attaccare o uccidere, perché lo amava.

Adesso stava tremando, rabbrividendo, e un angolo distante della sua mente gli spiegò che era in stato di shock. Era solo quello che tratteneva il roco grido d’orrore e l’odio che provava per sé che risiedevano nel suo stomaco, un grido che avrebbe scosso le montagne e diviso i mari e avrebbe portato con sé l’ultimo brandello della sua sanità mentale.

Squall si mise a sedere meglio che poté, cullando il suo corpo rotto tra le braccia. Il gunblade era ancora dentro di lei, un raccapricciante punteruolo che aveva arpionato una farfalla. La sua testa ciondolò da un lato in un modo tanto completamente e totalmente morto che nessuna parola potrebbe descriverlo veramente. La sua grazia, la sua bellezza, non c’erano più, e al loro posto c’erano soltanto i segni della morte.

Cercò di non guardarla nel tentativo di negare ciò che aveva fatto, solo per ritrovare altro orrore. I corpi tappezzavano ancora la spiaggia, allungandosi nell’orizzonte tanto che non riusciva a vederne una fine. Ma solo ora si accorse che indossavano tutti uniformi colorate di rosso, oro e grigio cenere. SeeD.

Li aveva uccisi tutti quanti.

uccisi tutti quanti

uccisi tutti

uccisi

Non avrebbe potuto reprimere quell’urlo un momento di più. Gli scosse il nucleo del suo stesso essere, lo ruppe e lo ricostruì e il processo si ripeté per talmente tanto tempo che si chiese se si sarebbe interrotto.

“Squall!” Una mano delicata sulla sua spalla, che lo scuoteva. “Squall! Che cos’hai?”

“Cos…?” La sua voce era spessa, confusa. Il mondo intero sembrava nuotargli in modo indistinto davanti agli occhi.

“I-io non riuscivo a dormire,” disse la voce. “E poi hai cominciato ad agitarti e voltarti e a gridare come se stessi facendo un altro incub- oof!”

Squall non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva abbracciato con tanta foga qualcuno. Strinse Rinoa a sé più che poté, nascondendo il viso tra i suoi capelli. Era un gesto istintivo, come di un bambino che si aggrappa a un bene custodito gelosamente, e non lo contrastò. Doveva sentirla contro di lui, assicurarsi che era vera.

“E questo per cos’è?” annaspò Rinoa, ricambiando l’abbraccio con un pizzico d’incertezza.

“Pensavo di averti persa.” Lasciò la presa e si sdraiò di nuovo sul letto, ormai imbarazzato per la sua violenta manifestazione d’affetto.

“Squall…” Rinoa si accoccolò accanto a lui e poi si rannicchiò. “Non preoccuparti. Non ti lascerò solo. Non vado da nessuna parte…”

Ma non era proprio quello il problema?

Non avrebbe dovuto stare vicino a lui. Non poteva capire, non avrebbe dovuto capire. Avrebbe dovuto rimanere com’era, innocente riguardo a cose come uccidere un uomo a mani nude, come ingoiarti la lingua, tecniche mentali per resistere alla tortura… Era cresciuto nel Garden, diventando perverso e indurendosi in una maniera tale che non se n’era nemmeno reso conto. Lei almeno aveva avuto una vita ragionevolmente normale prima che la SeeD la attirasse a sé, sottraendola ai suoi giochi a fare il soldato e gettandola nella lotta vera e propria. Se fosse rimasta abbastanza, sarebbe diventata come lui.

Se fosse rimasta abbastanza, avrebbe potuto perfino ucciderla.

Sapeva che avrebbe dovuto ferirla, irritarla, allontanarla in ogni modo possibile. Lo sapeva, ma non era forte a sufficienza da riuscirci. Una volta, buttarla fuori dalla sua vita sarebbe stato naturale, ma lei e gli altri avevano demolito le barriere che si era edificato tempo prima, avevano sgretolato la pietra delle sue mura mentali, e adesso era indifeso. Allontanarla avrebbe potuto salvarle la vita, ma non poteva farlo. Perché era debole.

Debole quanto bastava da sacrificare Irvine e Selphie perché il Garden era a corto di fondi. Debole quanto bastava da aver paura della solitudine. Debole quanto bastava da permettere a Rinoa e al resto dei suoi amici di rimanere in pericolo per proteggerlo da quella solitudine.

Mentre stringeva il suo corpo caldo contro il proprio, Squall restò di nuovo basito da quanto lei fosse importante per lui. L’amava tantissimo, tanto intensamente che non avrebbe saputo come esprimerlo a parole. L’aveva aiutato a dare alla sua vita una direzione e un significato che andavano al di là di completare la missione successiva. L’aveva aiutato a restaurare la sua fiducia nei sentimenti, nell’amore, nelle persone. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerla in vita. Qualsiasi.

Ma la voce insistente da qualche parte dentro di lui, quella del tono piatto e delle notizie lugubri, quella che gli diceva cosa fare in battaglia, la pensava diversamente. Gli respingeva tutte le sue parole, con più dubbio e paura.
E’ questa l’unica cosa in cui sono bravi i SeeD, uccidere cose.

Io no!
Ribatté mentalmente con vigore, vergognandosi un po’ del fatto che stava discutendo con se stesso. Non lei. Lei mai.

Ma la voce non poteva essere zittita. Cigolava stracciandogli la mente, dicendogli che sebbene in quello stesso momento Rinoa fosse tra le sue braccia, un giorno gli sarebbe stata portata via.

Sì, sarai tu a farlo. In un modo o in un altro, sarai tu.

Dai tempo al tempo, Squall.

Dai tempo al tempo.

interludio

E’ quasi tempo.

L’alba sta allungando le sue dita rosate sull’orizzonte e di fronte a me si protraggono marmo e grandezza, la maestosa facciata del Garden. Sotto la sua tranquilla superficie si appostano demoni e diavoli. Provano a nascondersi dietro le loro crociate o i loro tentativi di fare del mondo un posto sicuro e fermare la minaccia delle streghe. Dicono che le streghe hanno il potere di assoggettare continenti, ma non capiscono di essere ancora peggio. Loro hanno il potere di assoggettare l’immaginazione e l’infanzia, trasformandole in una pasta di sangue e incubi. Sono una fantastica fabbrica di assassini. Sono gli uccisori dell’innocenza. Sono i macellai della purezza. Sono la forza più malvagia che il mondo abbia mai conosciuto, e li ucciderò tutti o morirò provando.

Forse Cid era armato di buone intenzioni quando fondò i Garden. Forse non voleva che cadessero così in basso. Forse si era proposto di renderli il paradiso in cui tanti ragazzini potessero imparare e crescere, e non di preparare le terre per dei mercenari.

Ma quello che voleva, che si proponeva, non ha più importanza. Adesso esiste solo ciò che è, e io devo distruggerlo. Le ho promesso che non avrei permesso che accadesse di nuovo.

Un flebile venticello soffia sul balcone e mi accarezza il volto, mi scompiglia i capelli. Ho scelto questo posto perché mi dà un punto di vantaggio e riparo - parapetto alto, sporgenza, limpida vista della terra sottostante. Sarà perfetto per quel che mi occorre.

Alle mie spalle c’è la porta di metallo, saldata per evitare ogni intrusione. Sotto di me c’è la piazzetta quadrata, piena di piante rare, eleganti fioriere di marmo, e tra poco, studenti del Garden. Nella mia mano c’è il fucile che dispenserà giustizia. Adesso, non mi rimane altro che aspettare.

Non mi piace aspettare. Quando aspetto, i ricordi tornano spontanei e non posso allontanarli. I ricordi di cos’ho fatto quel giorno, ovvio, e dei ratti e del loro festino. Ma ancora peggio di questi, ci sono i ricordi della nostra vita prima.

Le volte che abbiamo fatto l’amore, troppe per contarle, sono diventate ognuna una pugnalata al cuore. Ancora più dolorose, però, sono le cose semplici. Piccoli squarci di memoria che formano il mosaico di quello che lei era per me.

Noi seduti sul treno per Balamb, la sua testa posata sul mio grembo, gli occhi chiusi, il petto che si alzava e si abbassava mentre dormiva. Io che le accarezzavo distrattamente i capelli e mi chiedevo come avrei mai potuto desiderare un’altra donna.

La Fiera di Timber. Io che vincevo per lei uno stupido moguri di peluche al tiro al bersaglio e lei che si comportava come se fosse la cosa più bella del mondo. Lo abbracciò al petto e lo sistemò sul suo cassetto e scommetto che quel dannato coso è ancora lì. Non avrei mai pensato che avrebbe potuto sopravviverle.

Noi sdraiati sulla spiaggia, la sua mano nella mia, le stelle che facevano la loro maestosa apparizione sopra di noi. La mia mente che inveiva contro di me: Chiediglielo! Chiedile di sposarti, idiota! Chiediglielo adesso! E non lo feci. Considerando quel ch’è successo, non so se si sarebbe rivelata una buona idea o meno.

Il suo corpicino appollaiato su di me, mentre teneva goffamente la chitarra. Le mie braccia attorno a lei, le mie mani che la guidavano sulle corde. Tutti e due che ridevamo quando sbagliava.

Quella volta che si ammalò e mi preoccupai per lei. Le portai libri, cibo e medicine e tutto ciò di cui potesse avere bisogno. Quando stava male, stavo male anch’io. Forse è stato allora che ho compreso che l’unica cosa che volevo fare per il resto della mia vita era proteggerla e renderla felice. Che non avrei mai voluto che qualcuno o qualcosa le facesse del male in un modo qualsiasi. Che avrei voluto essere lì se fosse mai caduta.

Ma è caduta. Su una granata.

E poi io le ho fatto esplodere le cervella.

Oddio, come ho potuto tradirla così? Come ho potuto permettere che accadesse? Volevo soltanto tenerla al riparo dal dolore, amarla per sempre. Come… oddio cosa ho fatto cosa sono cosa ho fatto cosa sono cosa ho fuori da quella cazzo di testa le ho fatto esplodere le cervella da quella cazzo di te-

Basta! Non può andare tutto in pezzi adesso, dannazione, non può! Ci sarà tempo per tutto questo, dopo… devo concentrarmi concentrarmi concentrarmi

Ho dovuto ucciderla.

Alla fine, era quella l’unica cosa che potessi fare per salvarla dal dolore. E’ a questo che tutto il mio addestramento mi ha preparato. E’ questa l’unica cosa che posso fare, ora. Non posso migliorare un bel nulla. Non posso portare la pace nel mondo o riportarla in vita o tornare indietro nel tempo e bloccare tutto ciò. Non posso fare nulla di tutte queste cose.

Ma posso ancora uccidere.

I semi non cadono lontano dal giardino come i SeeD non cadono lontano dal Garden? Una piccola forzatura al vecchio cliché, suppongo, ma abbastanza vero. Mi hanno addestrato ad essere un killer.

Oggi vedranno che bel lavoro hanno compiuto.

“Parare!” La voce risuonò sulla piazza e le fu fatto eco da due dozzine di gole.

“Parare!” Una foresta di lame d’argento lampeggiò al sole di quella mattina appena iniziata mentre schiere assortite di cadetti del Garden sballottavano le proprie spade in alto in posizioni di difesa.

“Affondo sinistro!”

“Affondo sinistro!” I cadetti si accovacciarono, scattarono in avanti, e affondarono al lato quasi all’unisono, i loro movimenti sicuri e implacabili. Saranno pure stati tra gli studenti più giovani del Garden, ma imparavano in fretta.

“Parare! Affondo destro!” sbraitò l’istruttore, eseguendo anch’egli le mosse. I suoi studenti risposero imitandolo.

Squall distolse lo sguardo dalla finestra; improvvisamente non ce la faceva più a sopportare la vista dei cadetti che si addestravano. Chissà quanti di loro sarebbero morti nel giro di cinque anni, e quante cicatrici avrebbero portato i sopravvissuti.

Si accostò alla sua scrivania e scrutò le carte. Freschissime richieste di assegnamento. SeeD richiesti per un omicidio a Timber. SeeD richiesti per la guerriglia nel continente di Centra. SeeD richiesti per aiutare a domare le sommosse di Dollet. Ogni richiesta era differente, eppure erano tutte uguali, in realtà:

SeeD richiesti per morire per varie cause. Sentimenti personali non devono applicarsi. I partecipanti verranno ben ricompensati.

Non sapeva ancora che avrebbe fatto. Neanche Rinoa, con tutte le sue buone intenzioni, poteva dargli risposta. Si chiedeva come il Garden e i SeeD potessero cambiare e rimanere ancora efficaci. Si chiese se una cosa del genere fosse possibile. Si chiese se avrebbe dovuto rimanere e cercare di assumersi la responsabilità di quei cambiamenti o semplicemente voltare le spalle e correre più veloce e più lontano che poteva.

L’immagine dei SeeD sulla spiaggia era ancora fresca nella sua mente, centinaia e centinaia, morti tutti per mano sua. Rinoa, la cosa più importante al mondo per lui, che moriva dissanguata tra le sue braccia. Sarebbe stato questo il suo futuro?

La porta si aprì con un sibilo, e seppe chi era senza nemmeno guardare.

“Shu,” disse in una voce che era tutto fuorché cordiale.

“Squall,” replicò lei in un tono altrettanto amichevole. “Dobbiamo parlare.”

“Ascolta, se questo sarà una specie di discorso rinvigorente sull’importanza del Garden, te lo puoi risparmiare. Ho provato a sorbirmelo da solo per ore, e non sta funzionando.”

“No, non si tratta di questo, anche se dobbiamo parlare anche di quello.” Indietreggiò un secondo e premette un bottone sulla tastiera della porta, bloccandola. “Abbiamo avuto una breccia nella sicurezza. Una seria.”

La sua mano andò all’elsa del gunblade. “Quanto seria?”

Shu si morse il labbro inferiore, un gesto nervoso che non era da lei. “Tre studenti sono stati trovati morti stamattina, uno nascosto sul perimetro di sicurezza e altri due in un armadietto del deposito al secondo piano. Nell’armeria mancano un fucile da cecchino e diverse scatole di munizioni.”

“Merda.” Altri morti. Sempre altri morti. “Perché l’allarme generale non è suonato?”

“Non volevo diffondere allarme. La confusione e il caos renderebbero ancora più difficile la ricerca del colpevole. Sembra proprio un lavoro dall’interno, fatto da qualcuno che conosce bene il Garden. Potrebbero benissimo essersi mischiati con il corpo studentesco.” Fece una pausa, e poi guardò il pavimento. “Potrebbero anche farne parte.”

“Se è stato fatto da qualcuno che conosce il Garden, dall’interno… che bisogno c’era di uccidere la guardia al perimetro…” Un pensiero lo colpì come un pugno: Seifer! Doveva essere Seifer.

“Non lo so,” disse Shu, leggendo i suoi pensieri. “Spero di no… non è mai stato una brava persona, ma alle volte almeno era un uomo d’onore. Non è più sotto il controllo di Artemisia… e spero che non sia caduto tanto in basso di sua iniziativa.”

Ma chi altro poteva essere? Chi altro poteva essere abbastanza abile da evadere tutte le misure di sicurezza del Garden? Sembrava esserci una sola risposta. Dopo mesi lontano dal Garden, Seifer era finalmente scattato e tornato per vendicarsi. Vendicarsi di coloro che gli avevano fatto torto, vendicarsi di…

Rinoa! Immagini di lei impalata su un gunblade gli attraversarono di nuovo gli occhi, ma questa volta Seifer era in piedi davanti a lei e rideva. Dov’era? Doveva trovarla subito, prima che- che-

“Ho riunito due squadre di volontari sotto Nida e Quistis,” continuò Shu, apparentemente ignara della sua angoscia. “Stanno perlustrando i piani superiori mentre noi parliamo. Io sto per prendere il comando di un’altra per fare la stessa cosa col piano terra. Avremo bisogno di te qui per aiutarci a coordinare i nostri sforzi…”

Nulla al mondo poteva trattenerlo dietro quella scrivania se Rinoa era in pericolo, ma mentre apriva la bocca per farlo sapere a Shu, sentì i primi spari di fucili. E l’urlo.

“Veniva dalla piazzetta!” gridò Shu, sferzando il capo così velocemente che i suoi capelli castani sibilarono nell’aria. “Dev’esserci qualc-”

Squall stava già correndo, i piedi che battevano sul pavimento di marmo mentre si scaraventava fuori dall’ufficio in direzione dell’ascensore. Shu era subito dietro di lui.

Ti prego… pensò. Ti prego, fa che lei stia bene.

Sperava con tutto se stesso che qualcuno esaudisse le preghiere degli assassini.

interludio

Assassini. Diventeranno tutti assassini. Devo soltanto continuarmelo a ripetere, continuare a ricordare che gli sto facendo un favore. Stanno morendo da innocenti, non da mostri. Tutto ciò che posso fare è cercare di fargli sentire poco male.

Primo, l’istruttore. Due proiettili nella schiena. Si aprono dei buchi della grandezza di un pompelmo nel petto e cade in avanti quasi comicamente, dimenandosi al suolo e gridando come una marionetta impazzita.

I cadetti non hanno ultimato il condizionamento SeeD. Invece di correre, di coprirsi, di cercare posizioni da cui rispondere al fuoco, rimangono immobili lì, fissando quel ch’è rimasto dell’istruttore con muto orrore. Sarà ancora più facile, allora.

Muovo il mio fucile finché il mirino si posiziona sul volto di una cadetta, e le linee gemelle della portata si incontrano proprio in mezzo ai suoi occhi.

Guardo dentro quegli occhi e vedo la stessa innocenza che una volta viveva nei miei. La stessa innocenza che è stata sconvolta, alterata, spezzata, nella cosa che adesso la osserva da dietro il mirino. Non posso portarla via da questo inferno e darle una famiglia amorevole. Non posso ricominciare la sua vita. Ancora una volta, posso solo uccidere. Fortunatamente, è già abbastanza risparmiarle di diventare come me. La vita di una persona è un prezzo basso da pagare per preservarne l’anima.

Io premo il grilletto.

La sua testa si trancia in una rovina rossa. Il suo corpo cade, contorcendosi spasmodicamente. A bassa voce, mormoro una scusa. A lei, a me stesso, al mondo.

Dopo la prima, poi è tutto più facile. Uno sparo al collo. Uccido. Un paio di spari al petto. Uccido. Un altro alla tempia. Uccido. Altri due nel petto. Uccido.

Uccido, uccido, uccido.

Cerco di fare un lavoro pulito. Cerco di fare un lavoro veloce. Sono alcune delle poche premure che un killer può offrire.

La piazzetta si affolla presto, riempiendosi di obiettivi tempestivi. Istruttori, studenti, SeeD specialisti, sono tutti qui per scoprire le ragioni dello scompiglio. Stanno per scoprirle.

Poi li vedo correre tutti verso l’uscita, cercando di radunare i cadetti al sicuro. Squall e Shu. Due grandi ingranaggi della macchina infernale del Garden. E più importanti sono i pezzi che posso rompere, meglio è.

Cambio l’obiettivo, e li metto nel mio mirino. Devo affossare la mia mente, permettere al mio istinto di guidarmi. In quel buco, ho dimenticato amici e conoscenze. Non conosco le figure che stanno correndo di sotto, devo ricordarlo. Nessuno che conosco. Soltanto altri due bersagli.

Soltanto altre due cose da uccidere.

La piazzetta era come una foto dell’inferno. Corpi sparpagliati per terra in tanti rottami ingarbugliati, sangue schizzato sul marmo fine e sulle piante eleganti. Gli spari continuavano a risuonare, e adesso erano accompagnati dalle grida dei feriti e degli spaventati. Adesso studenti e istruttori brulicavano nella piazzetta, alcuni negli spasimi del panico, altri che cercavano di calmarli, altri ancora che cercavano di localizzare il cecchino. E ad ogni momento che passava, un altro proiettile lasciava il suo segno.

“Riparatevi, tutti quanti!” urlò Shu, spingendo un paio di ragazzini verso l’edificio. “Dovunque potete!”

Squall si destreggiò intorpidito in mezzo al caos. Gli ricordava tantissimo il suo sogno. Ancora una volta, era lui che uccideva i SeeD. Li uccideva con la sua leadership inefficace e la sua indecisione.

Reagisci, Squall, reagisci!

Shu aveva afferrato un cadetto colpito di tredici anni o giù di lì per il braccio e si era voltata verso Squall per strillargli qualcosa quando la sua testa, in mancanza di una parola migliore, esplose. Il proiettile perfora-corazza le strappò via tre quarti della faccia in un violento secondo, in una macchia di sangue, ossa e cervello. Il suo corpo incespicò e cadde da una scalinata, ruzzolando sempre più giù con una serie di crepitii da ossa che si spaccano in sottofondo. Il cadetto, ormai spruzzato del sangue di Shu, sprofondò semplicemente alle sue ginocchia, farfugliando.

Muoviti! Gridò la sua mente. Muovitimuovitimuovitimuoviti o sei morto anche tu muoviti!

Balzò in avanti proprio mentre un proiettile squarciava il terreno nel posto in cui si era trovato solo un istante prima. Si mise a correre, e diede uno strattone energico ad una ragazzina che si trovava lì vicino, issandosela sulle spalle e scappando. I proiettili scalpellavano le pietre attorno a lui, punzecchiandogli le caviglie, sfasciando in tante schegge la fioriera al suo gomito.

La fioriera! Copriti!

Squall afferrò il bordo di marmo della fioriera e la valicò, facendo frusciare le piante che la riempivano e sollevando uno scroscio di foglie. Atterrò dall’altra parte e immediatamente appiattì la schiena contro la sua fredda superficie, acquattandosi più in basso che poté, cercando disperatamente di tenersi alla larga dai proiettili che cercavano la sua testa.

La ragazza aveva cominciato a dimenarsi, e lui lasciò la presa. Ma non appena fu libera, si accasciò sul pavimento in una massa informe senza osso. Un buco le forava il petto, rosso e scabro. Le sue convulsioni non durarono a lungo; in pochi secondi, la sua testa si afflosciò di lato, la sua bocca cedette e si aprì, e i suoi occhi si immobilizzarono vitrei nel cielo. Con dita tremanti, le chiuse le palpebre.

Un’altra morte.

Dei proiettili sibilarono e risplendettero sulla superficie della fioriera, ma fortunatamente nessuno la penetrò. Dopo qualche secondo, smisero di scheggiare la sua copertura e fresche grida fiorirono altrove. Squall si ritrasse.

Fa’ qualcosa! Gli urlava la sua mente. Sei il loro capo! Stanno morendo. Non nasconderti così! Fa’ qualcosa! Fa’ qualcosa! Fa’ qualcosa!

Alla fine, fu il suo sogno che lo fece muovere. Il suo ricordo di innumerevoli cadaveri sparsi sulla sabbia, vittime del suo istinto omicida. Il corpo di Rinoa, che si raffreddava tra le sue braccia, vittima del suo gunblade e del loro amore. Non riusciva a fermare quei frammenti di memoria. Lì, nel mondo reale, il controllo era sua proprietà, se solo avesse osato riprenderselo. Seifer avrebbe pagato per tutto ciò, e sarebbe stato lui a riscuotere.

Squall infilò la mano nella tasca interna della giacca ed estrasse la sottile custodia nera che vi era sigillata. Secondo le disposizioni, avrebbe dovuto trovarsi nella cassaforte del Garden, attualmente. Ma aveva sempre saputo, in qualche modo, che sarebbe venuto un’altra occasione e un’altra ragione per richiamare il potere dei GF, e così, anche quando erano stati esiliati, ne aveva tenuto qualcuno per sicurezza.

Aprì con un movimento fluido la custodia e svelò i suoi contenuti: una piuma marrone e una bianca, curve e delicate, che pulsavano di un potere nascosto. Un mero tocco e un po’ di concentrazione bastavano per invocare un vecchio commilitone, e mentre le sfiorava, sentì il potere infonderlo dalle punte delle dita, danzare al fianco dei suoi nervi, e posarsi nel suo cervello con uno stormire di ali e uno scoppiettio di elettricità.

(Sqqualllll…) Quella voce asciutta, che gli solleticava ogni centimetro di cervello e si riverberava per tutto il suo scheletro.

Quetz.

Mentre il GF si sistemava, qualche ricordo minore si dissolse come vecchie fotografie intinte nell’acido, svanendo lentamente nel nulla. Il che era un bene. I ricordi erano utili soltanto se si era in vita, e senza l’aiuto di Quetzal avrebbe potuto non esserlo per molto altro tempo.

(Peeeensaaavooo che tuuuu miiiii aveeeesssiii dimeeenttiiiicaaaaatoooo)

Abbiamo un lavoro da sbrigare. Riserve magiche?

(Baaaasssssssssiiiiiinneeeee)

Dovranno bastarci. Adesso, concentrati… concentrati…

Sentì il formicolio aguzzo dell’energia para-magica caricare il suo corpo, riempiendo ogni singolo nervo della dolce sensazione di potere tenuto a bada. Accumulando concentrazione, radunò quell’energia, la plasmò e la focalizzò, la contorse in modi che ricordava appena. Per un istante, non ci fu nulla, e pensò Ho dimenticato - Ho dimenticato come lanciare magie. Poi, ci fu un improvviso lampo di luce e sentì l’energia fluire dentro e fuori di lui, avvolgendolo in un bozzolo di magia protettiva. La luce svanì, ma la barriera rimase, luccicante in un ovale allungato attorno a lui, librandosi sulla linea di confine tra visibilità e invisibilità.

Era pronto. Adesso o mai più. Uccidere o essere ucciso.

Quasi prima che se ne rendesse conto, stava sfrecciando ancora una volta lontano dalla fioriera, saltando di nuovo nel volto della morte. La piazzetta ormai era ricoperta di corpi, praticamente nulla si muoveva più allo scoperto. Si era trasformato da un luogo di pace e tranquillità in un campo di battaglia. Anzi, non di battaglia. Durante la lotta col Garden di Galbadia, era stato un campo di battaglia - un posto dove la morte veniva con eguale furia da entrambi gli schieramenti. Ora, era peggio - un campo di uccisione. Un mattatoio pieno di bestiame umano e un unico macellaio fatale.

Squall camminò dritto in mezzo a quell’orrore, lentamente, girando la testa avanti e indietro mentre scandagliava le regioni elevate del Garden in cerca del cecchino. Sotto il suo piede, quello che sembrava tanto un polso ruotò ed emise un flebile crack. Non guardò.

Ci fu un altro lampo di luce da uno dei balconi più alti che si sosteneva sulla fiancata del Garden, e poi un ruggito riecheggiò per tutta la piazzetta. Squall si ritrovò improvvisamente a guardare frontalmente una pallottola di metallo. Si mantenne a una decina di centimetri dalla sua faccia per un momento, come trattenuto da un filo invisibile, poi tremò e cadde a terra. Altri due lampi - lampi d’arma da fuoco, capì tardivamente - e altri due proiettili si conficcarono nella sua barriera magica, si fermarono, e si accasciarono senz’aver fatto alcun danno al suolo.

Eccolo lì! Adesso riusciva a vedere il cecchino, da quella distanza nulla più di una figura scura e indistinta. Sembrava che si stesse preparando ad aprire il fuoco di nuovo. Fuoco. Beh, si poteva giocare in due a quel gioco. Alzò un braccio, puntando il palmo aperto al tiratore.

La magia uscì con più facilità stavolta, si formò nel suo petto e strisciò ai suoi polpastrelli in un milione di viticci tamburellanti, che si raccoglievano e si univano. La modellò con la mente, la alimentò di rabbia, e la forgiò col suo spirito. L’energia scoppiò in un esplosione di zolfo diretta verso l’alto, e una palla di fuoco si scagliò dalle sue dita fino al balcone.

Ma anche la magia aveva i suoi limiti; a metà strada o poco più, la palla di fuoco rallentò, vibrò, e poi si spezzò, e l’energia accumulata andò a dissiparsi nell’atmosfera. Dannazione, era fuori dalla sua portata, quindi le sue opzioni erano limitate…

(Fooooorrrrrsssseeee pooooosssssooo aaaaaaiiiiiuttttttaartti iiiiiioooo?)

No. Una tua raffica potrebbe abbattere l’intero soffitto.

Doveva entrare e affrontare il cecchino sul balcone stesso, e trascinarlo poi giù in un vero campo di combattimento appartato. Conoscendo Seifer, era esattamente ciò che voleva.

Altri spari. Il cecchino apparentemente doveva essersi fermato a ricaricare l’arma, ma adesso aveva ricominciato a sparare. Altri quattro proiettili si incastonarono nella protezione di Squall, immobilizzandosi ad appena sei centimetri da lui; le sue schermate difensive si stavano indebolendo. Ancora meno tempo da perdere, allora.

Si mise a correre, con proiettili che urtavano la barriera magica e altri che formavano buchi nel marmo attorno a lui come chicchi di grandine balistica. Si chiese se ci sarebbe stata mai una fine, se la sua magia avrebbe ceduto e i proiettili sarebbero penetrati nel suo corpo rendendolo improvvisamente, beatamente libero - e poi le porte del Garden si aprirono al suo arrivo e si trovò di nuovo al sicuro.

L’interno del Garden era gremito di persone che scappavano di posto in posto o si radunavano in piccoli gruppi per discutere con urgenza di piani da attuare. Sembrarono ritrarsi da lui con un sussulto concertato quando incespicò attraverso la porta.

“Squall!” Udì la sua voce e quasi si accasciò per terra, ma costrinse le sue ginocchia a rimanere tese.

“Rinoa…” Stava bene. Anzi, stava più che bene, se il modo in cui era corsa da lui tagliando la folla e gettandogli le braccia al collo poteva essere preso a indicazione delle sue condizioni. Gli si strinse forte, solleticandogli l’orecchio col respiro.

“Squall, hanno detto che c’è un cecchino là fuori che spara alla gente, e ho pensato – ho pensato al tuo sogno e al fatto che avevo detto che non me ne sarei andata da nessuna parte, ho pensato che forse sarebbe potuto accadere qualcosa a te…”

“E’ tutto a posto,” la rassicurò, liberandosi. Non era il momento più adatto per certe cose. “Ma devo arrivare ai piani superiori adesso, per buttare fuori quel cecchino.”

“E’ inutile,” disse Quistis, il volto pallido e tirato, i capelli biondi normalmente ordinatissimi sparpagliati in tutte le direzioni. “Quella porta è saldata talmente tanto che nulla all’infuori di un esercito potrebbe abbatterla. E una cosa del genere potrebbe far crollare l’intero piano se non facciamo attenzione.” Le sue mani si contorsero nervosamente sull’elsa della sua frusta, e sembrava stesse vivendo l’inferno. Odiava dover essere lui a recapitarle notizie ancora peggiori, specialmente considerando la sua goffaggine con i sentimenti.

“Ascolta…” cominciò, incerto. “Shu…”

“Ho visto,” tagliò corto lei. “L’ho visto dalla finestra. Solo, ti prego, non parlarne. Non c’è – non c’è tempo ora. Non posso permettermi… di…” Si voltò, nascondendo il viso tra le mani.

Rinoa si mise al suo fianco, e lui si allontanò, desiderando non per la prima volta da quando si era aperto agli altri di saper maneggiare meglio le parole, e sentendosi allo stesso tempo grato per questa sua lacuna: non sarebbe stato comunque la persona più indicata ad accogliere i fardelli altrui.

Nida lo raggiunse di corsa, con un aspetto non migliore di Quistis. “Abbiamo un paio di tiratori scelti in cammino da Balamb. Dovrebbero essere qui presto, e se tutto va bene riusciranno a fermare questo pazzo.”

Squall avrebbe tanto voluto che Irvine fosse lì. Kinneas era il migliore tiratore scelto che avesse mai visto. Sarebbe riuscito a uccidere Seifer con un colpo solo. Ma Irvine ormai era morto, morto a causa sua, e ora che la morte si stava propagando sempre di più, un cumulo di cadaveri che sembrava espandersi all’infinito si stava impossessando della spiaggia della sua vita.

C’era una sola risposta possibile, una soltanto. Lui stesso doveva arrestare quella spirale. E doveva farlo immediatamente.

“Non c’è tempo,” lo liquidò. Ogni secondo poteva significare un altro morto. “Vado dentro adesso.”

La folla si accese in un trambusto. Nello stesso momento in cui Rinoa rimaneva senza fiato e mormorava, “Squall, no!”, Nida fece un altro passo verso di lui e gridò:

“Sei impazzito? Non c’è modo di arrivare lassù! E’ completamente chiuso e non ci sono stanze sopra e sotto abbastanza vicine da poter muovere chiunque!”

Squall sorrise, un gesto raro per lui, ma senza umorismo. “Allora suppongo che dovrò calarmi dal tetto, vero?” Si rivolse a Quistis, che si trovava poco distante, con gli occhi ora asciutti e il volto più determinato che mai. “Mi servirà l’equipaggiamento adatto.”

“Squall,” disse, “Non devi. Non stai pensando con chiarezza.”

“Non m’importa,” replicò, sorpreso che quella vecchia frase potesse scivolare al suo posto abbandonato con tanta facilità. “Qualcuno deve farlo.”

“Squall!” Quistis lo stava quasi pregando. “Buttare la tua vita non porterebbe a nulla.”

Il sorriso non aveva ancora lasciato il suo viso, una sottile mezzaluna senz’allegria, affilata come un rasoio.

“Potrei sorprenderti, Quistis. Potrei sorprenderti.”

Quantomeno, sarebbero finiti i suoi sensi di colpa. E forse avrebbe salvato qualche vita, forse si sarebbe dato una qualche scusa per guardarsi allo specchio e vedere qualcosa che non fosse un mostro.

Si girò, trascurando gli strilli di protesta, persino le urla di Rinoa. Stava facendo un favore a tutti loro, perché non potevano semplicemente chiudere la bocca e accettarlo? Dando a tutti le spalle, sbottò:

“Io vado. Fine della discussione.”

interludio

Siamo quasi alla fine. E’ la cosa di cui sono più sicuro. Ho fatto un lavoro niente male quassù. Ho ucciso un sacco di potenziali mostri, ho potato parecchi rami prima che potessero far germogliare i semi della SeeD, ma non ho fatto abbastanza. Non ho fermato la macchina infernale. Non ci sono arrivato nemmeno vicino.

Sono stanco. Sono giorni che lavoro senza sosta per questo momento, mosso da stati d’eccitazione, rabbia purissima, follia, istinto. Sono pieno di vesciche, spento, perdo sangue e denti, vivo in un mare di incubo, e rimango sott’acqua un altro po’, un altro po’, senza prendere una sola boccata d’aria. Voglio riposare. Voglio che finisca. Voglio curvarmi in una palla e morire.

Ma non posso.

Ho delle promesse da mantenere, e uomini da uccidere prima di addormentarmi.

Un’altra bella poesia… aggiungila alla prima, trasformala in una nenia funeraria e cantala alla tua sposa orba mentre i topi suonano con minuscoli strumenti da orchestra e gli invitati giacciono immobili come morti e forse lo sono ma così almeno non devi pagare tanto per il pranzo e eheheheheheheh oddio sto perdendo di nuovo

CONCENTRATI

Ricorda.

Lei.

Tu.

Promessa.

Innocenza.

Ricorda.

Non posso ucciderli tutti, è impossibile. Presto o tardi, morirò. Ma penso di averlo sempre saputo. Forse c’è davvero una parte di me che non se ne frega niente, forse la promessa è solo una cazzata che ho escogitato per giustificare il mio desiderio di morte, una cosa che mi possa riunire a lei. Forse ho sempre saputo che sarei morto qui e l’unica cosa che volevo era provocare dolore ai bastardi responsabili di turno.

Quello posso farlo. Posso ancora farlo.

Non posso dormire. Non posso pensare. Non posso concentrarmi. Non posso vivere.

Posso ancora uccidere.

Mi servono soltanto delle mani ferme, non una mente stabile. Oh yeah. Sto ancora bene. Io non scoppio sotto pressione.

Io sono un SeeD.

Io premo il grilletto.

Uccidi.

Sapeva che lei avrebbe tentato di fermarlo.

Si trovava nell’alloggio che divideva con Rinoa, e stava guardando la sua immagine nello specchio a grandezza d’uomo per controllare per la terza volta il proprio equipaggiamento. Sembrava che tutto fosse in ordine: la fune per arrampicarsi attorcigliata in una mano, in vita una luccicante cintura con dei ganci liberi da un lato e il gunblade nell’altro. Scarpe e guanti chiodati per accrescere la trazione.

Del sudore gli colava dalle ascelle e dall’inguine, e non per il calore, perché al Garden spirava una brezza fresca, ma per pura paura. La parte esteriore a conchiglia del Garden era infida, liscia e sdrucciolevole come una bolla di sapone. Un passo falso, un errore con la corda, e sarebbe precipitato nel baratro della morte.

E se pure fosse riuscito a sopravvivere a quello, avrebbe dovuto affrontare un uomo armato. Armato di una pistola che con tutta probabilità, a una gittata inferiore, avrebbe potuto annientarlo in un colpo solo.

Molte persone dicevano che bisognava combattere la paura. Si sbagliavano. Non puoi negare la tua paura e sperare di continuare a vivere come non puoi negare quello che ti dicono gli occhi e le orecchie. Devi abbassarti ad afferrare la tua paura, che scivola gelata tra le mani come un’anguilla. Devi prenderla e intrappolarla, imprigionarla in una gabbia e costringerla a cantare per te come un pappagallo. Solo allora, invece che diventarne schiavo, puoi esserne il padrone. Puoi spingerla a dirti quello che ti serve, usarla come il tuo cane da guardia, sapere quando combattere e quando scappare, conoscere i tuoi limiti.

Conosci la tua paura, ama la tua paura, imbriglia la tua paura, ma non permettere mai che ti governi.

Squall conosceva la sua paura. Aveva paura di morire. Ma al contempo sapeva di aver ancora più paura del fallimento. Se non voleva più vivere il resto della sua vita come il rottame distrutto e contorto che era sempre stato, doveva fermare quel maniaco

Seifer

subito. Andando avanti non c’era nulla da perdere a parte la sua vita. Se avesse aspettato, altri sarebbero morti, altro sangue sulle sue mani. Non poteva permettere che accadesse.

“Squall, ti prego… non farlo,” Da dietro, le braccia di lei gli circondarono la vita. La sentì premere il viso nella sua schiena. “Ti prego, non ucciderti perché ti senti in colpa.”

“Qualcuno deve fermare questa follia, Rinoa, lo sai anche tu.”

“Perché devi essere tu?” Stava ricominciando a piangere, il suo corpo era scosso dall’imponenza dei suoi singhiozzi. “Ti prego… abbiamo perso già tante persone. Non farci… non farmi perdere anche te.”

Lui tacque. Rinoa continuò a piangere, e lui avvertì le sue lacrime bagnargli la giacca. Si odiò per ferirla a tal punto. Ma si sarebbe odiato ancora di più se fosse rimasto.

“Devo andare. Delle persone stanno morendo.” Cercò di divincolarsi dalla sua stretta, ma lei non cedette.

“Non voglio che tu diventi uno di loro! Devi solo aspettare che arrivino i cecchini!”

“Rinoa, lasciami andare.” Sentì la sua ira infiammarsi, e si liberò dalle sue mani con forza. “Non è il momento di fare la bambina!”

Lei barcollò indietro di qualche passo, e lui riuscì a vedere il suo riflesso nello specchio che fissava malamente la sua schiena. Le lacrime continuavano a scorrere dai suoi occhi ridotti a fessure, e quando parlò la sua voce mescolò timore, rabbia e dolore in un solo grido isterico.

“Non sono una bambina!” D’improvviso, l’aria attorno a lui si agitò e lo sollevò da terra. Era come se un pugno invisibile si fosse serrato su di lui. “Sono una strega, e se non ascolterai la ragione, posso tenerti qui con la forza!”

(Pooosssoooo prrrooovaaarreee aaaa llliiiiiibbeeerrrraaaaarrrrcccciiii)

No! Lascia che me ne occupi io.

“Rinoa…” indugiò sul suo nome, tentando nel frattempo di controllare la frustrazione e la collera che si stava facendo strada dentro di lui. “Non posso rischiare la vita di nessun altro, non capisci? Devo farcela da solo.”

Lei rimase in silenzio, ma pensò di aver sentito la morsa che lo attanagliava rilassarsi un poco. Finalmente, dopo un momento, lei parlò di nuovo. “Io non posso rischiare te. E se morissi, Squall? Che farò io senza di te?”

Lui chiuse gli occhi. “Se non mi permetti di impedire ulteriormente questo massacro, sarebbe come se fossi morto comunque.”

La mano invisibile si aprì, e i suoi piedi atterrarono delicatamente sul pavimento.

“D’accordo,” disse lei, guardando per terra. “Va’ a ucciderti. Immagino che sia stato l’amore a farmi diventare così stupida da aiutarti a farlo.”

Lui le si avvicinò, poggiando le mani sulle sue spalle e voltandola verso di lui. “Tornerò.”

Sperò che fosse una promessa possibile da mantenere, ma si ritrovò a chiedersi se non sarebbe stato meglio per lei che così non fosse.

“Sarà meglio, se ti vuoi almeno un po’ di bene.” Riuscì ad abbozzare un sorriso. “Non è una grande idea far arrabbiare una strega.”

E poi lo baciò, spingendo le labbra contro le sue, legandogli le braccia al collo e attirandogli la testa verso la sua. Sembrava che la sua bocca e la sua pelle fossero le uniche cose calde e morbide in un mondo tanto freddo e duro. Voleva perdersi dentro di lei, affondare per sempre e dimenticare il dolore e la morte e gli omicidi…

Ma non c’era tempo.

Cinque minuti dopo, col vento che gli sferzava il corpo e gli scompigliava i capelli, per scaldarsi provò a ripensare a quelle labbra. La discesa dal tetto si preannunciava ancora più insidiosa di quanto avesse pensato.

La superficie luminosa del Garden gli scivolava sotto gli stivali e la fune gli mordeva le mani mentre si calava lentamente su di essa. Sopra, il suo rampino era ancorato saldamente – sperava – alla ringhiera del ponte di osservazione. Mentre procedeva, passo per passo, svolse con cura la corda attraverso il morsetto sulla sua cintura. Le scarpe e i guanti chiodati erano inutili contro la facciata resistentissima dell’edificio. Doveva solo sperare che la fune tenesse.

(Squalll!) Quetzal percepì l’errore del nervo motorio prima di lui, ma era troppo tardi.

Il suo piede slittò su un punto particolarmente rischioso della parete dell’edificio e lui ricadde sulla pancia, mentre cercava con tutto se stesso un appiglio sicuro. Cominciò a scivolare velocissimo, la sua faccia strofinava rudemente il metallo lucido e la corda gli sfuggiva dalla cintura in spirali impazzite.

Finalmente, dopo quella che sembrò un’eternità, le sue dita catturarono la grata di uno dei tanti condotti di ventilazione del Garden e la sua caduta fu arrestata. Si tirò un po’ su, pregando che l’inferriata reggesse il suo peso invece di scardinarsi e precipitarlo in un altro tuffo.

Si prese un momento per tornare a respirare, voltò il capo per guardare giù. Si era fermato giusto in tempo; qualche altro metro e sarebbe rimasto sospeso sullo strapiombo direttamente sopra il balcone del cecchino. Gli vennero i brividi a pensare a cosa gli sarebbe successo se non si fosse fermato, a come sarebbe rimasto appeso lì di fronte al cecchino come un pesce lesso.

No, aveva bisogno di scendere in modo controllato. Gli servivano solo un paio di secondi per riprendere possesso delle sue facoltà mentali. Poi, si sarebbe lasciato cadere, dondolando un po’, e tagliando la fune.

Fa’ che questa sia l’ultima… disse la sua mente esausta. Fa’ che sia l’ultima morte per mano mia.

(Uuuunn gueeriieeerrooo nnnoooonn ppuuòòò neeegaaaaree leee suuuuee raaaddddiiiccccciiii)

Ti preferivo quando non parlavi.

Si stabilizzò e iniziò di nuovo la sua discesa. Due passi lo portarono sul bordo, e s’irrigidì solo per un istante prima di puntellare le gambe sulla superficie del Garden per spingersi lontano da essa e poi giù. Si librò quasi tranquillo dal Garden e rimase sospeso a mezz’aria per un momento come un pendolo umano prima che lo slancio lo riportasse indietro dall’edificio.

Il balcone era lì sotto, il cecchino era premuto contro la ringhiera e stava esaminando la piazzetta in cerca di nuovi obiettivi. Gli dava la schiena, ma anche così Squall intuì che non poteva trattarsi di Seifer, a meno che non si fosse tinto i capelli. Sembrava però esserci comunque qualcosa di familiare con quell’uomo, ma c’era pochissimo tempo per studiarlo a dovere dalla sua postazione.

Il gunblade sibilò dal suo fodero e segò la corda proprio sopra la sua testa, mandandolo in caduta libera. Atterrò con sicurezza sul balcone, facendo un sonoro smack con gli stivali quando toccò terra.

Aveva formulato un piano d’attacco fin nei minimi dettagli. Una rapida finta verso sinistra per attirare il fuoco, poi un balzo e un affondo all’arma del cecchino per disarmarlo. Infine, avrebbe finito il combattimento in qualunque modo fosse necessario.

Ma si dimenticò di ogni mossa quando il cecchino si girò.

Nell’istante in cui vide il viso dell’uomo, si sentì come un chocobo alla luce di un proiettore. Avrebbe dovuto già essere in movimento, glielo diceva il suo istinto, avrebbe già dovuto schivare e prepararsi a colpire. Eppure ogni sua terminazione nervosa sembrava essersi congelata, come se fossero perite tutte in una tormenta improvvisa. Perito. Il suo cervello era come una candela spenta. Estinto. Si sentiva come se tutto il suo corpo si fosse intorpidito. Morto.

E’ morto. E’ morto. Non può essere… lui è morto.

L’uomo dietro il fucile sorrise mentre puntava il tamburo della sua arma al petto del giovane Comandante del Garden.

“Ciao, Squall. Non muoverti.”

Indistintamente, come se provenisse dal fondo di un profondo pozzo vuoto, Squall udì la propria voce.

“Ciao, Irvine.”

interludio

“Ciao, Irvine.”

Lo sguardo di totale stupore sul suo viso è quasi comico; ha gli occhi incrociati come se stesse fissando la punta di quella stupida cicatrice che ha sulla faccia, la fronte corrugata per la confusione, la bocca mezza aperta. Pare un idiota. Non pensavo che avrei mai visto Squall con una cazzo di espressione che lasciasse trapelare anche solo un barlume di sorpresa, non una volta.

Ovviamente, non pensavo che avrei mai fatto un sacco di cose. Uccidere dozzine di studenti del Garden, per esempio. Svegliarmi in una fossa comune. Infilare una pistola nella bocca di Selphie e farle esplodere la testa.

Il Garden – espande i tuoi orizzonti. Ti apre ad infinite possibilità.

Squall ancora non si è mosso. Buon per lui. Al primo scatto, è morto. E’ ancora lì, immobile, mentre cerca di trovare una spiegazione plausibile all’impossibilità che vede di fronte a sé. Chissà per quanto tempo è stato in lutto per noi. Chissà se si è anche disturbato a tanto.

“… come?” riesce a farfugliare finalmente, così decido di dirglielo. Ravvivo i suoi ultimi istanti. Gli do una storia interessante con cui lambiccarsi all’inferno.

Anche con le minime divergenze, per raccontare tutta la storia ci vuole comunque un po’. Sembro un pazzo, certo, perché lo sono, ma credo di riuscire comunque a fargli afferrare il nocciolo. Lui non si muove neanche di una virgola, e ormai si è tolto quell’espressione stupefatta dalla faccia. Squall riesce sempre ad essere così freddo. A volte, prima, volevo essere come lui in missione, senza una punta di fottutissimo nervosismo e esitazione per tutto il tempo. Ora, sono lieto di quello che ero. Mi ha salvato da una morte vivente. Mi ha salvato da una vita senza scopo.

Quando ho finito, lui non fa niente per un attimo, penso per cercare di assorbire tutto l’orrore del mio racconto. Forse dentro non è poi così freddo, non del tutto. Quando finalmente parla, le sue parole mi fanno venire voglia di pisciarmi nei pantaloni a forza di risate.

“… perché… stai facendo tutto ciò? Che cosa vuoi?”

Avere tutto il tempo del mondo, Squall? Ci sono molte cose che voglio.

Voglio stringere il suo viso tra mani che non hanno mai toccato una pistola.

Voglio andare da lei con una mente e uno spirito che non sanno cosa significa uccidere un uomo.

Voglio scrivere il più Grande Romanzo Galbadiano.

Voglio giocare alla recita dei bambini.

Voglio far crescere delle rape.

Voglio cuocere una cazzo di torta.

Rivoglio Selphie.

Rivoglio la mia innocenza.

Rivoglio la mia infanzia.

Puoi darmi tutte queste cose, Squall? E il Garden? No, non credo. Allora, mi sa proprio che voglio patteggiare con la morte. Voglio che i SeeD anneghino in una pozza del proprio sangue, e poi voglio saltarci dentro dopo di loro.

Squall dice che sono impazzito, e io rido, perché è vero. Ma ascolta questa, Squall, sintonizzati su questa cazzo di stazione e ascolta questa, perché siamo cresciuti nella stessa macchina, amico mio. Io ho perso il senno, e tu sei ancora sano. Chi di noi due è peggio? Chi di noi due è meno umano?

Lui dice che uccidere gli altri non è la risposta e che anche se lo fosse è impossibile anche solo pensare che io possa riuscire a ucciderli tutti e non risolverei nulla.

Forse ha ragione, non saprei. Ho perso il senso della mia prospettiva. Ho dimenticato molte cose e voglio dimenticarne altre ancora, dimenticare la vista della roba grigia della sua testa che si spiaccicava dappertutto e il modo in cui le sue gambe scalciavano, sforbiciavano come se stesse calpestando acqua mentre moriva. Voglio dimenticare che la donna che amavo è un pezzo di carne in putrefazione sottoterra. Ma davvero, è dimenticare che non risolve nulla – il problema è ancora lì, lo neghi e basta, rifiuti il confronto.

Queste cose sono dolorose, dico, ma necessarie. Come togliersi un ascesso. E no, non posso uccidere tutti, ma forse non ne ho bisogno. Forse devo solo uccidere i più importanti.

Forse devo solo uccidere te, Squall.

Io premo il grilletto.

Squall stava morendo dentro, la sua anima si stava sbrindellando a guardare la rovina che una volta era suo amico. La rovina che aveva ucciso Selphie e innumerevoli altri, la rovina che stava per ucciderlo.

Il Garden era responsabile. No, ancora peggio, lui era responsabile.

E fu precisamente per questo che, quando sentì Irvine dire “Forse devo solo uccidere te, Squall.”, e vide il suo dito serrarsi sul grilletto, quasi non si mosse. Aveva di fronte a sé il prodotto peggiore del Garden, distruzione del corpo e dell’anima, un contorcersi e una mutilazione dello spirito. Aveva visto ciò di cui era responsabile, quello che avrebbe potuto diventare. Sicuramente, la morte poteva essere un’alternativa misericordiosa rispetto ad una lunga vita di paura e sensi di colpa.

Ma una parte di lui, quella affilata e indurita da infinite ore di allentamento, infuriava per vivere, e prima che lo sapesse, aveva dato il rapido comando mentale al GF appollaiato nel suo cervello:

Quetz Haste in junction oraoraora!

Sentì come una coltellata spietata di magia fatta di dolore e piacere affettargli la mente, una daga di ghiaccio che perforava la sua corteccia, e poi accaddero due cose contemporaneamente.

Il suo corpo sprizzò – il suo cuore iniziò a pulsare dozzine di battiti al secondo, i polmoni pomparono aria come un paio di airbag sovraccarichi, ogni sinapsi si rianimò affrettando i neurotrasmettitori. Il suo cervello ronzò e turbinò aumentando la sua potenza sensoriale, lavorando a velocità quadrupla.

Allo stesso tempo, il mondo rallentò, come se tutto fosse sprofondato sott’acqua. Il dito di Irvine si stava premendo sul grilletto al rallentatore, avanzando fotogramma per fotogramma come una presentazione fotografica del destino che incombe. Un lampo di fuoco fiorì pigramente dalla canna del fucile e un proiettile si trascinò dal suo centro, facendosi strada nell’aria con difficoltà.

Squall si tuffò di lato mentre il proiettile proseguiva lemme lemme per ritrovarsene altri due che esitanti cercavano di raggiungerlo. Mentre si abbassava e rotolava in avanti, altri tre passarono sulla sua testa. Irvine adesso stava sparando freneticamente, nel tentativo di colpire quello che a lui doveva apparire come una semplice macchia. Squall non gli avrebbe più dato nessun vantaggio.

Il suo braccio scattò in avanti e il gunblade fendé l’aria come un giavellotto. Le sue orecchie carpirono un lungo grido distorto mentre l’arma si seppelliva nel petto di Irvine. Ci fu un momento di immobilità durante il quale gli occhi di Irvine riflessero solo sorpresa, e poi capitombolò all’indietro in una serie di spasmi come in un animazione a passo uno che ricordò a Squall dei ballerini sotto la luce stroboscopica della notte prima. Il fucile ruzzolò a terra dalle sue mani, fece un lungo rimbalzo dalla ringhiera e poi cadde lentamente fino a sparire dalla vista.

Okaybastacosìvialhaste

La magia si dissolse, rimpiazzata da un improvviso dolore incandescente. Assimilò le fitte di una violenta crisi che gli stava consumando il corpo. L’agonia era quasi insopportabile, come se un esercito di minuscoli, sadici diavoletti lo stesse tirando da tutte le parti. Era come se qualcuno lo stesse tagliuzzando fino a ridurlo ad un livello cellulare. Il suo cuore diede un sussulto sofferente, i suoi muscoli si paralizzarono, la sua mente si svuotò completamente e poi, fortunatamente, perse i sensi. La pausa dolorosa in cui i suoi organi ristabilirono il loro normale ritmo durò meno di cinque secondi, ma sembrò un’eternità.

Squall prese un profondo respiro tremante. Aveva letto da qualche parte che ogni minuto trascorso sotto l’effetto di un’Haste scalava un mese di vita, e ci credeva. Era così che andavano le cose. Ogni potere aveva i suoi costi.

Gli incantesimi abbreviavano la vita. I GF cancellavano i ricordi. I Garden sradicavano i sogni.

Irvine emise un gemito denso, sciropposo e ostruito dal sangue, poi provò a sedersi. Era ancora vivo, chissà come, malgrado i quaranta centimetri o suppergiù di metallo che gli perforavano il torace.

Squall gli si avvicinò, guardando la cosa che una volta era suo amico. Stava tremando, e non sembrava voler altro che gridare e urlare la sua rabbia, la sua sofferenza e la sua frustrazione ai cieli. Era colpa sua tanto quanto di tutti quello che gli era capitato, e non c’era stato niente che potesse fare per fermarlo. Ancora una volta, non era stato in grado di salvare qualcuno a cui voleva bene. Il suo sogno gli danzò ancora una volta dinnanzi agli occhi, e ricordò che neanche allora era riuscito a salvare nessuno.

Lui non era un salvatore.

Lui era un SeeD. Un assassino.

Era rimasta una sola cosa da fare per Irvine. Per fortuna, rientrava nelle competenze in cui i SeeD eccellevano.

Era tempo di finirla.

Poggiò una mano scossa sull’impugnatura del gunblade, strinse il dito sul grilletto. Voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa, per convincere Irvine e se stesso che il Garden non era un terreno fertile per dei mostri. Che gli aspetti positivi superavano i negativi. Che lui era ancora un essere umano.

Parole del genere però non esistevano. C’era solo una cosa da dire, anche se alle sue stesse orecchie suonava orribilmente, orribilmente vuota.

“Scusa, Irvine.”

interludio

Scusa Selphie ma fa male

GF. Ha un maledettissimo GF anche dopo che li hanno tolti dalla circolazione. Se ne avessi avuto ancora uno, forse avrei potuto fare qualcosa per te.

scusa

Non riesco a sentire le mie gambe non riesco a sentire… è stato così anche per te? Lo spero, spero di non averti fatto male… sai l’ultima cosa che avrei mai voluto fare è farti male e se l’ho fatto ti chiedo

scusa

Ho fallito, è una cosa troppo grande perché un uomo solo riesca a fermarla e io non sono nemmeno più un uomo. Sono una macchina, un mostro, un artista della morte. Forse non sono mai stato altro ma quando c’eri tu non mi sentivo così mi sentivo umano perché ti amavo e tu amavi me e poi ti ho ucciso.

scusa

Lui adesso è sopra di me, la mano sull’impugnatura del gunblade, i suoi occhi fissi nei miei. Riesco ad annuire.

Voglio riposare voglio che finisca non voglio fare nulla più spero che mi stai aspettando Selphie mi manchi e voglio vederti ma credo che sia chiedere troppo perché tu sei troppo buona per andare dove vado io e non voglio farti soffrire perciò addio per sempre e sempre e sempre e sempre e

scusa

scusa

scusa

lui preme il grilletto

Soggetto, Squall Leonhart. Diciassette anni. Capelli castani, occhi azzurri. Un’anima tranquilla, non amante delle feste chiassose o delle folle. Ha dei problemi ad esprimersi. Occasionalmente prova a dipingere, ma non è bravissimo. Comandante del Garden di Balamb. Eroe a livello mondiale.

Ha ucciso quarantaquattro persone.

In seguito, scende nella piazzetta, facendo scivolare lo sguardo sulla distruzione, cercando di costringersi a comprenderla. Forse non può esserci comprensione, solo una brulla, fredda accettazione. Le parole di Irvine pesano sulla sua mente e sul suo cuore.

Rivoglio la mia infanzia.

Vede i corpi che giacciono attorno a lui in strane angolature e pozze di sangue, vede gli occhi vitrei e le bocche spalancate e gli arti irrigiditi. Sono i figli del Garden. Sono le interiora, gli agnelli sacrificali che rendono il mondo un posto sicuro.

Questa è la morte dei sogni. Questo è il fertilizzante in cui il Garden ingrassa i suoi semi, i SeeD. Questo sono io.

Prova a non contarli, ma non può farne a meno. Ovunque guardi, c’è un altro sguardo vuoto o una figura rotta, come se la morte fosse improvvisamente in voga. Marionette si dimenano nella sua testa. Tiene il conto.

Ha ucciso quarantacinque persone.

Ha ucciso quarantasei persone.

Ha ucciso quarantasette persone.

Ha ucciso quarantotto persone.

Ha ucciso quarantanove persone.

Ha ucciso cinquanta persone.

Ha ucciso cinquantuno persone.

Ha ucciso cinquantadue persone…

Pensava di poter controllare le cose, di poter provare a impedire le morti, di poter riuscire a fermare il Garden. Si sbagliava. E’ una forza elementare, un gigantesco titano che nemmeno lui può sperare di arrestare da solo. Rimarrà in piedi, sterile e freddo e aspro, per centinaia di anni. Lui ne ha già avuto la prova.

A posteriori, le sue idee di riforma sembrano completamente assurde. Come ha potuto sperare di fermare il Garden, quando non riesce nemmeno a fermare se stesso?

Potrebbe andarsene oggi stesso e nulla cambierebbe. Un assassino ritirato rimane un assassino, dopotutto. Gli incubi e i sensi di colpa se ne sbattono del ritiro, o della distanza, o del passare del tempo. Lui è quello che è.

Una guscio, un involucro. Un ammasso corpulento di istinti che una volta recitavano la parte di una persona. Nulla più.

Quando il gunblade è scattato e ha quasi diviso Irvine in due, quando il sangue gli è schizzato addosso, per un momento, ha immaginato di vedere il volto di Rinoa. La sua espressione era un miscuglio di disgusto, paura, e odio, perché aveva visto il centro spoglio e crudo dell’anima di un assassino e aveva trovato qualcosa che non poteva amare.

Adesso è qui, al suo fianco, ma non sembra aver poi così tanta importanza. Lui sa già cos’è ormai, gli altri lo sapranno. Anche lei lo scoprirà presto.

Lei dice qualcosa e gli prende la mano, ma lui se ne accorge a stento. Il suo tocco sembra distante un milione di chilometri, come quello di una ragnatela, dell’ala di una farfalla. No, ancora meno. Nulla.

Non ode niente, non sente niente, come i morti.

Perché ormai è uno di loro. Ha fatto quello che doveva per sopravvivere, perché i SeeD sopravvivono sempre. E’ morto dentro.

Ha ucciso se stesso.

E’ quello che i SeeD sanno fare meglio.

Fine


Possiamo parlare velocemente delle recensioni? Lasciatene una se volete, non lasciatene se non volete (anche se un feedback è sempre apprezzato). Sentitevi liberi di dirmi se vi ha fatto schifo o vi ha impressionato o quello che vi pare, ma posso chiedervi un favore, da scrittore a lettori? Per favore, se recensite, cercate di non spoilerare nessuno dei punti fondamentali della trama (leggasi: Irvine=cecchino). Garantito, dubito di aver fatto un lavoro buono nel mascherarlo come volevo, ma gradirei che tutti venissero alla storia SENZA sapere cosa sta per succedere, se possibile.

A seguire ci sono alcune mie note, tenendo conto della remota possibilità che vi possano interessare il come e il perché è nata questa storia. Se così non è, beh, avete finito, andate a leggere qualcos’altro. Ci vediamo alla prossima fic.

Questa fanfiction in realtà è cominciata come tre idee separate che tutto ad un tratto si sono fuse in una in una sorta di pseudo-miracolo. Mi sono ritrovato a scrivere una varietà piuttosto strana di fanfiction su FFVIII: una che esaminasse in qualche modo la relazione tra Irvine e Selphie, una d’azione che coinvolgeva un cecchino sul tetto del Garden, e una che guardava al lato oscuro di un’organizzazione che fondamentalmente passa il tempo a crescere bambini perché diventino assassini, per quanto nobile si suppone che sia la crociata che ha intrapreso. Poi, in un momento e immediatamente dopo che mi sono svegliato una mattina, le idee hanno preso corpo insieme ed ecco che avete la fic che avete appena letto.

Improvvisamente, Irvine era il cecchino; dopotutto, aveva l’esperienza con il lavoro. Ma perché, mi chiedevo, Irvine vorrebbe mai uccidere i suoi amici? Forse potrebbe essere successo qualcosa a qualcuno a cui voleva bene, come Selphie, e ora cerca vendetta. Avrebbe dovuto essere qualcosa di particolarmente grafico e sconvolgente, qualcosa per cui poteva ritenere responsabile il Garden. E così, le tre idee sono diventate una, con una sinossi che piuttosto snellita è: “Irvine fa esplodere la testa di Selphie, e il Garden la pagherà. E poi Squall si sente male.”

Sapevo che non sarebbe stata una storia facile da scrivere, ma sono sempre aperto ad una sfida. E non fatevi illusioni, questa è stata una sfida (scene Squall/Rinoa… *brivido*). Che sia buono o che sia tremendo, per quanto patetico possa sembrare, ho lavorato a questa cosa per un mese (“E’ questo che lo tratteneva!”, strillano i poveri fan della mia fanfiction su FFVI –Si tratta di una long-fic su cui DK stava lavorando ai tempi ndYouffie). Detto questo, la mia percezione di tutto ciò è un po’ distorta. Vi posso dire solo che non avrei potuto lavorarci più duramente. Spero vi sia piaciuta, o, in caso contrario, di avervi almeno provocato a pensarci su.

Alla prossima, e vi ringrazio per aver letto,

-DK

NdT: … il titolo, Trigger, vuol dire Grilletto (ovviamente ._.). Dovete sapere che qualche mese fa mi ritrovai a parlare di Devotion (un’altra must-read di DK) con la_vale, e perché mi sentivo particolarmente perfida quel giorno le consigliai di leggere “Trigger“, appunto, per poter mostrarle uno ‘studio’ ancora più approfondito sui SeeD e il Garden e sui possibili sviluppi e soluzioni di entrambi. La sua risposta agghiacciata mi ha maleficamente gratificato perché ero e sono d’accordo, e mi ha fatto venire voglia di tradurla per proporre questa perla anche a voi. E’ fondamentalmente per questo che le ho dedicato questa storia, ed è lei che dovete ringraziare se avete potuto leggerla <3 (e poi mi ha fatto dei lavori da beta-reader all’ultimo secondo che una persona normale mi avrebbe ucciso XD)
Grazie mille in anticipo a chiunque commenterà.

Youffie
   
 
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