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Autore: Ari_92    15/09/2013    10 recensioni
«Sapete, ogni tanto ci ripenso. Sarebbe bastata solo un’altra voce maschile e avremmo potuto davvero avviare quel club. Forse avrebbe potuto diventare qualcosa di importante.» Mercedes gli sorrise, bevendo l’ultimo sorso del suo caffè.
«Magari sì, avrebbe potuto.»
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuove Direzioni
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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                          Ho fatto un sogno come questo, una volta
 
 
 
03 agosto 2018
 
 
Alle quattro di pomeriggio di una delle giornate più afose che avesse mai sopportato, Rachel Berry poteva finalmente dirsi soddisfatta del contenuto della sua valigia; era riuscita a fare abbastanza spazio tra i calzettoni e le camicette da riuscire ad incastrarci in mezzo la sua spazzola preferita, quella che le aveva fatto da microfono fin da quando era una bambina. Avrebbe solo voluto che la sua compagna di stanza smettesse di prenderla in giro per essere così legata a “un ridicolo pezzo di plastica rosa”.
Chiuse con attenzione la zip del trolley, per poi rimirare il suo operato con entrambe le mani sui fianchi: si augurava davvero di non aver dimenticato niente.
«Così alla fine hai deciso di partire.» constatò apatica Crystal, appoggiando i propri libri sul comodino.
Rachel la guardò per un momento prima di concedere un’occhiata d’insieme a tutta la stanza: per quanto ardentemente desiderasse il contrario, sapeva che New York non le sarebbe mancata affatto.
«Ho il volo alle otto e un quarto.» si limitò a dire, perfettamente consapevole che a Crystal non sarebbe potuto importare di meno. Condividevano la stanza da due anni – da quando Rachel era stata ammessa alla Juilliard – e quello era solo l’ultimo dell’infinita serie di momenti in cui si era sentitamente augurata di potersi permettere un appartamento tutto suo. Tuttavia sapeva bene che non era possibile, non senza almeno un coinquilino con cui condividere l’affitto, e in fin dei conti avrebbe dovuto sentirsi una privilegiata ad occupare i dormitori della Juilliard dopo il fiasco che l’aveva vista protagonista quando aveva provato ad entrare alla NYADA, il suo ultimo anno di liceo. Certo, la sua scuola non aveva nessun corso di musical, ma aveva imparato che crescere vuole anche dire accettare qualche compromesso.
 
A volte sorrideva al ricordo della ragazzina follemente ambiziosa che era stata, al cieco proposito di risultare la migliore in ogni singola cosa che faceva. Non era certa che in quelle occasioni il suo fosse un sorriso allegro, ma era pur sempre un sorriso.
In realtà, non avrebbe saputo individuare il momento preciso in cui la Rachel Berry del liceo era sparita definitivamente. Forse era stata imballata insieme alla sua collezione di Barbra Streisand, accuratamente sigillata in tre diversi scatoloni che prendevano polvere nello scantinato di casa sua. O magari cancellata, proprio come i video che si ostinava a postare su Myspace.
Rachel si chiese se fosse normale provare invidia per se stessi; per quello che si era e non si ha più il coraggio di essere. Forse avrebbe semplicemente dovuto smettere di farsi tanti problemi e richiamare quel Brody Weston che aveva incontrato al corso serale per esterni della NYADA. Forse avrebbe dovuto concentrarsi su quello anziché tornare a Lima per un mese.
Guardò la sua valigia chiusa e di punto in bianco fu travolta dal sospetto di aver fatto tutte le scelte sbagliate.
 
«Allora? Non vai a prendere il tuo aereo?» le chiese bruscamente Crystal, raccogliendosi i capelli sopra la testa per il troppo caldo. Rachel tentò di scacciare i suoi pensieri: tendeva ad essere più melodrammatica del solito quando doveva tornare a Lima. Forse dipendeva dal fatto che aveva sempre creduto che New York le appartenesse, e magari era lì che la vecchia Rachel – quella della spazzola rosa usata come microfono – aveva smesso di esistere. Quando aveva capito di essere lei a non appartenere a New York, non davvero.
«Ci vediamo dopo le vacanze.»
 
 
***
 
 
«Un cappuccino medio, per favore.»
«A-A-Arriva su-ubito.» rispose prontamente Tina Cohen Chang, affrettandosi verso la macchinetta del caffè. Era stata una ragazza ad ordinare, l’aveva indovinato dal tono di voce, dalle scarpe e dall’occhiata fulminea che aveva lanciato alla sua cliente prima di sparire dietro ad una rassicurante muraglia di bicchieri di carta e tazzine usa e getta.
Staccò il blocco dalla sua sede con uno strattone più forte del necessario e lo sbatté energicamente per eliminare i residui di caffè usato, pronta ad aggiungerne del nuovo.
La verità è che era arrabbiata, furiosa. Odiava essere il tipo di persona che deve fingere di balbettare per evitare che gli altri le parlino, che non riesce a guardare nessuno negli occhi per più di mezzo secondo e di cui la gente non ricorda mai il nome. Credeva che la timidezza non sarebbe stata altro che una fase come un’altra, che prima o poi le sarebbe passata. A ventitré anni compiuti iniziava davvero a perdere le speranze, e insieme a quelle anche tutte le opportunità che aveva bruciato nel corso degli anni cominciavano a pesarle sulle spalle. Si era sempre accontentata di rifugiarsi nell’ombra di se stessa, non aveva dimostrato nessun talento particolare ed era rimasta a guardare quando il preside sbagliava a leggere il suo nome il giorno del diploma, evidentemente immemore di averla mai avuta nella sua scuola. Si era detta che avrebbe trovato il modo di riscattarsi, che avrebbe finalmente scoperto la sua voce, quella che non aveva mai avuto il coraggio di tirare fuori.
 
Frequentare l’università pubblica e mantenersi lavorando al Lima Bean – a dieci minuti di macchina di casa sua – non era esattamente quello che aveva sempre sognato per se stessa. Ciocche di capelli viola a parte, sembrava la stessa ragazzina del primo anno di liceo. Lo odiava, si odiava, eppure era come se non potesse fare a meno di rimanere bloccata lì, in attesa di qualcosa che non era mai successa.
Prese il latte che le serviva e chiuse il bicchiere di carta con un piccolo dischetto trasparente, porgendolo alla cliente che l’aveva ordinato. Prese frettolosamente le banconote sul bancone.
«G-Grazie e arrivederci.» non appena le scarpe della ragazza sparirono dal suo campo visivo si sentì sollevata e si complimentò con se stessa per non aver fatto qualcosa di troppo stupido.
Rimase spiazzata per un momento quando senza alcun tipo di preavviso fu costretta a guardare negli occhi il cliente successivo; non che l’avesse fatto apposta – non lo faceva mai apposta – ma tenere lo sguardo basso non è particolarmente utile quando la persona con la quale hai a che fare è su una sedia a rotelle. Impiegò qualche secondo ad identificare il ragazzo come un suo compagno di scuola delle superiori, anche perché non era sicura di averci mai parlato. Forse solo una volta, se ci pensava bene.
«Ciao, Tina.» il fatto che ricordasse il suo nome la spiazzò completamente; di solito la gente la identificava come quella-che-non-parla. Cercare di andare oltre all’ovvio richiedeva un dispendio di energie da parte degli altri in cui non aveva mai smesso di sperare, nonostante rimanesse puntualmente delusa ogni volta. Impiegò solo qualche altro secondo per associare un nome al ragazzo che aveva di fronte.
 
«C-Ciao Artie.» le rivolse un grande sorriso, felice ed incredulo che si ricordasse di lui. Il se stesso di qualche anno prima sarebbe stato piuttosto scettico al riguardo, soprattutto se considerava il fatto che in sostanza si erano rivolti la parola una o due volte al massimo.
L’aveva osservata da lontano per tutto il primo anno di liceo: innamorarsi di lei era stato progressivo, un passo dopo l’altro. Chiedersi il perché del suo sguardo sempre scostante, augurarsi di poter essere la causa di uno dei suoi rari sorrisi. Sembrava passata una vita intera.
«Come va?» lei sembrò sorpresa della domanda.
«B-Bene, e tu?»
«Anch’io. Studi all’università pubblica, vero?»
L’aveva vista qualche volta, con la borsa stretta sottobraccio e l’aria di chi ha un’enorme fretta di andarsene. Lui non frequentava la facoltà regolarmente a causa di diversi problemi legati alla sedia a rotelle e alla fisioterapia – sua madre diceva che il suo atteggiamento ostile nei confronti di quest’ultima influiva negativamente sui risultati ottenuti, anche se Artie stentava a comprendere a quali risultati si riferisse dato che le sue condizioni erano rimaste le stesse fin dal giorno dell’incidente.
«S-Sì, e poi lavoro q-qui.» Aggiunse, arrossendo un po’.
«P-Prendi qualcosa?»
«Un caffè lungo, grazie.»
 
Tina annuì brevemente, mentre Artie si chiedeva che cosa aveva pensato di ottenere esattamente andando lì; non aveva nemmeno voglia di un caffè.
Tina lo guardò solo per un momento prima di sparire dietro alla sua fortezza di bicchieri di carta. Fece il caffè ad Artie e per un momento pensò che magari avrebbe potuto offrirglielo; sapeva già che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa simile, ma considerarla come una possibilità era sufficiente, ed era il massimo a cui poteva aspirare. Artie pagò e uscì dal Lima Bean dicendo qualcosa a proposito di certe cartelle che avrebbe dovuto ritirare nell’ufficio della Pillsbury e Tina guardò la porta a vetri del locale fermarsi un attimo prima di chiudersi alle sue spalle; venne spinta in avanti e si aprì sul cliente successivo.
La ragazza entrò con passo titubante, guardandosi intorno con l’aria di chi ha bisogno di prendere le misure con la realtà che la circonda. Nonostante quel suo insolito atteggiamento esitante, Tina la riconobbe subito: dopotutto non era mai stata il tipo di ragazza da passare inosservata, lei. Si chiese distrattamente dove avesse fatto sparire la sua testa alta e l’aria di superiorità che le fuoriusciva da ogni poro ai tempi del liceo, poi decise che non erano affari suoi e che era meglio per lei sparire dietro la macchinetta del caffè nell’improbabile ma possibile eventualità che anche lei la riconoscesse: non voleva parlarle per nessuna ragione al mondo.
Rachel Berry si sedette al primo tavolo libero e si mise a fissare la porta, come se stesse aspettando qualcuno.
 
 
***
 
 
«Odio aspettare.» biascicò tra i denti, lanciando l’ennesima occhiata nervosa al tabellone di arrivo dei treni. Cacciò una mano nella borsetta e tastò alla ricerca del suo rossetto: se l’era passato anche troppo di frequente nel giro dell’ultima mezz’ora, ma era una cosa che l’aiutava a mantenere la calma.
«Le tue labbra sembrano fragole.»
Quinn Fabray non aveva mai immaginato quella vita per se stessa. Non che la vita sia famosa per andare nel modo in cui ce la aspettiamo, ma lei non immaginava che avrebbe finito per distaccarsi dalle sue aspettative fino a quel punto. Innanzitutto, non si aspettava di avere un figlio il secondo anno di liceo, e non si aspettava nemmeno che non sarebbe stata in grado di tenersi uno straccio di ragazzo da quel momento in avanti. Più di tutto, aveva davvero, davvero creduto che sarebbe riuscita ad andarsene da quel posto.
Non era il tipo di ambizioni che si sarebbe mai sognata di esprimere ad alta voce, ma la verità è che aveva sempre segretamente sperato di avere qualcosa di speciale, di valere abbastanza per riuscire a trovare la sua strada. Ed era abbastanza sicura che la sua strada non incominciasse in un’agenzia immobiliare dell’Ohio e nemmeno nella traballante relazione con quello che era stato un suo professore all’università; eppure era quella la sua vita adesso. Le belle speranze da adolescente erano sbiadite esattamente come le foto sugli annuari che la ritraevano sulla cima della piramide dei cheerleader. Sembrava una vita fa.
 
«Sei sicura che fosse il treno delle quattordici e diciotto?»
«Sicurissima.» Quinn si chiese fino a che punto fosse stata una buona mossa far controllare gli orari dei treni a Brittany; le voleva bene, sul serio, ed era anche parecchio divertita dal suo impiego in una azienda di pollame o roba simile, ma il passare degli anni le aveva insegnato che non è mai una buona idea affidarle un incarico, per quanto banale possa sembrare.
«Ho controllato due volte.» aggiunse, con una certa fierezza: se non altro l’amicizia al limite dell’ossessivo che aveva sempre avuto con Santana la faceva sperare che avesse preso particolarmente a cuore la causa e non volesse perdersi il suo arrivo in stazione.
Quinn sorrise, mal celando una certa tristezza: alla fine anche l’ultima di quelle che erano state le padrone indiscusse della scuola per quattro anni di fila finiva per tornare lì, a Lima. Era come se una forza invisibile le ancorasse irrimediabilmente a quella città, come se non ci fosse modo di liberarsene. Lanciò un’occhiata nervosa ai binari, con Brittany che si ciondolava da un piede all’altro, impaziente.
Si passò ancora il rossetto sulle labbra.
 
 
***
 
 
Santana Lopez – mentre il suo treno rallentava progressivamente, ormai prossimo alla stazione – non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo.
Si avvicinò allo sportello di uscita del suo vagone trascinandosi dietro un piccolo trolley azzurro: perfino il rumore delle ruote che scivolavano per terra la infastidiva. Se doveva essere del tutto sincera, non aveva ancora completamente realizzato che stesse davvero capitando a lei.
Accettare l’offerta di Sue Sylvester di tornare a Lima per affiancarla negli allenamenti delle Cheerios rientrava senza dubbio tra le cose più umilianti che aveva fatto in tutta la sua vita, il che era tutto un dire se ripensava a tutti gli sfigati con cui era uscita al liceo.
Eppure era lì, in procinto di rivedere Quinn e di rimettere piede in quella stupidissima scuola per lasciare le sue referenze in attesa che le lezioni riprendessero. Erano cinque anni che non tornava a Lima e aveva davvero sperato di non doverlo più fare, non dopo tutto lo schifo che aveva dovuto sopportare in quel posto. Come se non bastasse, era anche costretta a fare i conto con un ex fidanzato che faticava ad accettare di essere stato scaricato e continuava ad intasarle il cellulare di messaggi. Approfittò del momento per estrarre il telefono dalla tasca anteriore dei pantaloncini che indossava e cancellare l’ennesima chiamata persa, alzando gli occhi al cielo.
Stava guardando con insistenza fuori dal finestrino, nella speranza che il treno si fermasse alla svelta e lei potesse smettere di sentirsi così depressa, quando qualcuno passandole accanto le urtò una spalla.
 
«Ehi, guarda dove vai!»
«...Santana?»  lei sgranò per un momento gli occhi, ma non le ci volle molto per riconoscere il ragazzo che aveva di fronte. Se non altro, il taglio di capelli era inconfondibile.
«Puckerman.» si limitò a constatare, inarcando le sopracciglia. Lui le rivolse una delle sue tipiche occhiate da idiota: ci sono cose nelle persone che non cambiano con il passare degli anni. Per Puckerman quelle cose erano i capelli e la faccia da idiota.
«Perché torni a Lima?» Santana non rispose. Non lo stava più nemmeno guardando. Il treno si fermò completamente con uno stridio fastidioso. «Se hai intenzione di rimanere per un po’ posso sempre ospitarti a casa mia- »
«È buffo, non trovi? Mentre tu ci provi con me fuori da questo treno mi sta aspettando la madre di tua figlia, hai presente? La ragazza che hai messo incinta in seconda liceo.» gli disse con calma, mentre le porte del treno si aprivano lentamente. Lo vide esitare con la coda dell’occhio e uscì dal treno senza riservargli ulteriori attenzioni: quelle che gli aveva prestato al liceo per quanto la riguardava sarebbero bastate per una vita intera.
Scese dal vagone trascinandosi dietro il trolley: la puzza di nullità era quella di sempre, e in qualche strano modo sembra ancora più concentrata quando sei di ritorno da New York con la coda tra le gambe e senza un soldo. Adocchiò Quinn subito, intanto perché la stazione non era esattamente affollata, e in secondo luogo i vestiti di quella ragazza erano davvero difficili da non notare. Forse da qualche parte alle sue spalle Puckerman se la stava dando a gambe levate; quel pensiero la fece sorridere.
Santana passò oltre un piccolo gruppo di ragazzi scesi prima di lei, intenzionata a raggiungere velocemente Quinn e andarsene da quel posto il più in fretta possibile. Avanzò di un altro passo, ed ebbe la visuale libera; lasciò cadere il manico del trolley, che cadde in avanti con un tonfo.
 
Non aveva idea che lei sarebbe stata lì. Rimase a guardarla senza muovere un muscolo, come se tutto a un tratto la Terra avesse deciso di collidere con la Luna e lei ci fosse rimasta schiacciata in mezzo.
Quant’era che non la vedeva, che non le parlava? Quattro, cinque anni? Com’era possibile che si sentisse esattamente come allora, come se nulla fosse cambiato, come se non riuscisse a muovere un passo oltre il momento della sua vita in cui aveva conosciuto Brittany Pierce?
A un tratto, il motivo per cui avrebbe voluto trovarsi in qualunque posto del mondo tranne quello era perfettamente chiaro. Non voleva cacciarsi di nuovo in quella situazione, non voleva dover combattere la rabbia e non voleva cadere a pezzi, non di nuovo. Non per una ragazza.
«Ehi. Ce ne hai messo di tempo! Ti è caduta la valigia.» non per quella che era stata la sua migliore amica.
«Ciao, Quinn.» non per l’unica con cui aveva tagliato completamente i ponti dopo il liceo per evitare di soffrire ancora.
«Ciao...» non per l’unica persona di cui si era mai innamorata. «...Brittany.»
Lei le rivolse un sorriso spontaneo, innocente, con quel suo solito fare allegro e spensierato. Quando si avvicinò per abbracciarla, Santana sapeva che era già troppo tardi. Non oppose resistenza: strinse le dita sul tessuto sottile della sua camicetta e inspirò a fondo il suo profumo come se tornasse a respirare solo in quel momento dopo anni.
«Mi sei mancata, lo sai?» sentire di nuovo la sua voce – così vicina, così tangibile – non cambiava le cose. Santana aveva capito da subito che era già troppo tardi. L’amava ancora, e non l’avrebbe mai avuta.
«Mi sei mancata anche tu.»
 
 
***
 
 
«Si può sapere dove diavolo sei sparito?» allontanò di qualche centimetro il telefono dall’orecchio: non ci teneva particolarmente a diventare sordo.
«All’ingresso era pieno di gente, allora mi sono messo qui vicino alle scale mobili.» spiegò, appoggiando un gomito sul corrimano alle sue spalle, poco lontano da dove le persone continuavano a salire e scendere con un’ingombrante mole di sacchetti e sportine dei più svariati negozi.
Se doveva dire la verità, fino a qualche settimana prima Kurt Hummel non avrebbe messo in conto una visita al centro commerciale di Lima molto presto; dopotutto erano anni che non ci metteva piede. Da quando si era trasferito a Columbus in pianta stabile per lavorare a quella piccola rivista di moda locale non aveva avuto molto tempo di tornare lì, e se anche ne aveva avuto di certo la voglia non lo aveva spronato.
Le persone associano i ricordi ai luoghi dove si sono creati, è naturale che sia così. Perché mai avrebbe dovuto provare il desiderio di tornare dove aveva passato gli anni più brutti della sua intera esistenza? Scosse la testa: che senso aveva ripensarci ora, dopotutto? L’unico motivo per cui si era concesso quella breve rimpatriata era rivedere Mercedes. L’unica vera amica che avesse mai avuto in quella specie di inferno che era stato il liceo; l’unica a cui aveva avuto il coraggio di dire che era gay, per giunta. Era abbastanza sicuro che suo padre l’avesse intuito a quel punto, non che avesse la minima intenzione di dirglielo apertamente in faccia.
Ripensò per un momento al ragazzo che aveva conosciuto qualche settimana prima nella caffetteria vicino alla redazione del giornale; era abbastanza sicuro di piacergli, ma non avrebbe scommesso sul contrario. Era come se pretendesse sempre troppo dai ragazzi con cui usciva, come se fosse alla costante ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare in nessuno di loro.
Kurt si stava giusto rimproverando mentalmente per aver deliberatamente mandato a scatafascio tutte le sue relazioni per quel suo assurdo complesso del c’è-qualcosa-che-non-va-ma-non-so-cosa quando una busta di plastica – comprensiva del proprio contenuto sporgente – entrò improvvisamente in collisione con il suo ginocchio.
 
«Oh, merda... Scusa!» non fece nemmeno in tempo a cercare di capire da chi arrivasse quella voce che un ragazzo si stava già piegando davanti a lui, nel tentativo di raccogliere quello che era appena fuoriuscito dalla sua borsa. Sbuffò nervosamente e si rimise in piedi, rivolgendosi direttamente a lui. «Mi dispiace. Ti sei fatto male?» Beh, se non altro era tanto goffo quanto carino.
«No. No, tranquillo.» il ragazzo gli rivolse un sorriso sollevato e afferrò di nuovo entrambi i manici della sporta. In quel momento lo raggiunse un tizio altrettanto carino, con un bel paio di occhi verdi e i capelli biondo rossicci. Guardò Kurt per un attimo prima di circondare la vita dell’altro ragazzo con un braccio.
«Andiamo, Blaine?» Il ragazzo – Blaine – annuì subito, avviandosi insieme a quello che aveva tutta l’aria di essere il suo fidanzato. Kurt sorrise vedendoli andare via: a quanto pareva le cose erano cambiate radicalmente dall’ultima volta che aveva messo piede a Lima; se ai tempi del liceo gli fosse anche solo passata per l’anticamera del cervello l’idea di camminare in un luogo pubblico abbracciato al suo ragazzo – ragazzo che all’epoca non aveva, ma tant’è – in tutta probabilità non avrebbe nemmeno fatto in tempo a raggiungere l’uscita di emergenza.
Quando Mercedes comparve in cima alle scale mobili, Kurt aveva già dimenticato la faccia di Blaine.
 
«Ehi!» si voltò all’istante per abbracciare la sua amica, che gli si gettò platealmente al collo come ogni volta che si incontravano – che fosse passato un giorno o un mese dall’ultima volta aveva poca importanza.
«Mercedes!» fu stritolato ancora un po’ prima che lei si allontanasse, squadrandolo da capo a piedi con un gran sorriso.
«Devo raccontarti tutto, okay? Ho un sacco di novità.» Mercedes lo diceva ogni volta che vedeva Kurt, indipendentemente se le novità esistessero davvero oppure no. In realtà, di solito non aveva grande motivo di essere eccitata per qualcosa, soprattutto di recente.
Non che non fosse grata ai suoi genitori per averle permesso di dar loro una mano nel loro studio dentistico mentre cercava il modo di sfondare nel mondo della musica, il problema era che dopo un po’ iniziava a diventare frustrante. Una parte di lei iniziava a credere che tutto quello non fosse altro che uno spreco di tempo.
«Ne parliamo davanti a un caffè?» Mercedes annuì, avviandosi verso le scale mobili insieme a Kurt.
Non era un bar molto grande: si trattava in realtà di un locale schiacciato tra un negozio di vestiti e una piccola libreria, con non più di cinque o sei tavolini all’esterno. Non facevano il caffè migliore del mondo, ma Kurt e Mercedes erano talmente abituati a quel posto che andare da un’altra parte sarebbe sembrato una specie di tradimento. Kurt mescolò pigramente il suo latte macchiato scremato, sorridendo alla sua amica.
«Quindi hai un nuovo provino la settimana prossima. Sono contento per te.» Mercedes annuì, prendendo una lunga sorsata di caffè.
«Sono sicura che questa è la volta buona.» disse, studiando con attenzione la reazione di Kurt a quelle parole; lui si limitò ad annuire, sorridendole. Mercedes aspettò qualche secondo prima di chiederglielo.
«Credi- Credi che sia patetica a non essermi ancora rassegnata?» Kurt sgranò gli occhi, rischiando di strozzarsi con il suo latte scremato per rispondere più in fretta.
«No, Mercedes! Non è che non ti sei rassegnata, non ti sei arresa, okay? È diverso.» le sorrise, appoggiando la tazza sul tavolo «E quando ti noteranno quelli che non l’hanno fatto prima di loro si mangeranno le mani.» Kurt sperò di aver detto la cosa giusta, perché credeva davvero che Mercedes avrebbe coronato il suo sogno, prima o poi. Cercò nello sguardo dell’amica un qualche segno di approvazione, ma lei non lo stava guardando. Sembrava avere gli occhi fissi su un qualcosa di non meglio identificato alle sue spalle. Kurt si voltò, e non impiegò più di qualche secondo a capire che cosa avesse attirato l’attenzione di Mercedes.
 
«Professor Schuester?» sentendosi chiamare l’uomo guardò verso di loro, squadrandoli per un momento prima di aprirsi in un grande sorriso.
«Mercedes, Kurt! Come state, ragazzi?» chiese, con un entusiasmo meno esuberante di quello che aveva sempre esternato quando insegnava al McKinley; sembrava passata una vita intera. Si avvicinò al tavolino dove gli ultimi studenti a cui aveva insegnato stavano bevendo un caffè, appoggiando a terra la borsa che teneva in mano.
«Abbastanza bene, e lei?»
«Me la cavo. Non che la contabilità sia così eccitante, ma c’è Blair a tenermi occupato, quindi...» Mercedes inarcò un sopracciglio con fare interrogativo.
«Oh, è mia figlia. Mia e di Terry. Sta per compiere otto anni.»
«È fantastico professor Schuester, davvero.» lui si strinse nelle spalle.
«Ma ditemi di voi, ragazzi. Come va?»
«Mercedes lavora allo studio dentistico dei suoi mentre cerca di procurarsi un contratto discografico, e io lavoro per una rivista di moda a Columbus.» Schuester sembrava vagamente sorpreso.
«Davvero, Kurt? Cioè, è fantastico, ma ho sempre pensato che il tuo sogno fosse cantare.» Kurt scrollò le spalle, improvvisando un sorriso triste.
«I sogni cambiano, le persone crescono...»
«Sapete, ogni tanto ci ripenso. Sarebbe bastata solo un’altra voce maschile e avremmo potuto davvero avviare quel club. Forse avrebbe potuto diventare qualcosa di importante.» Mercedes gli sorrise, bevendo l’ultimo sorso del suo caffè.
«Magari sì, avrebbe potuto.» rimasero in silenzio solo qualche istante prima che Schuester riprendesse la parola.
«Ragazzi, da quand’è che non rivedete il vostro liceo? Io devo passarci per portare un po’ di spartiti,» indicò la busta di plastica ai suoi piedi «da quando la Sylvester è preside sono praticamente banditi, e ci tengo che ci sia ancora un po’ di musica in quella scuola per chi la cerca. Vi andrebbe di venire con me?» Kurt sentì un brivido percorrergli la spina dorsale al pensiero di tornare a varcare la soglia di quello che era stato il suo personalissimo inferno per quattro interminabili anni. Cercò nello sguardo di Mercedes una qualsivoglia parvenza di contrarietà; diversamente alle sue speranze stava sorridendo.
Con un nodo allo stomaco, sorrise anche lui.
 
 
***
 
 
Tina si sentiva una stupida. Il che non era una novità, ma quel giorno in particolare si sentiva più stupida del solito. Che cosa credeva di fare presentandosi al McKinley lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto andarci Artie? Quale vantaggio sperava di ottenere, che spiegazione gli avrebbe dato se l’avesse davvero incontrato? Chiuse la portiera della macchina con un gesto secco, lanciando una sorta di occhiata di sfida all’ingresso deserto del McKinley High.
Si avviò a piccoli passi verso il portone, ripetendosi mentalmente che quella era la sua ultima occasione, e pregando se stessa di non sprecarla.
 
 
*
 
 
Artie infilò nella borsa i documenti che attestavano le sue sedute dalla Pillsbury per buona parte del liceo. Non aveva ancora capito il motivo per cui il suo attuale terapista ci tenesse tanto ad averli, quando era più che ovvio che qualunque cosa avesse o non avesse fatto si era evidentemente rivelata del tutto inutile.
Sbuffò pesantemente e svoltò nell’ennesimo corridoio vuoto, abbastanza seccato che l’unica rampa per sedie a rotelle si trovasse nell’ingresso più remoto del McKinley. Passò oltre il bagno dei maschi fino all’aula di Spagnolo e girò ancora, poi si fermò. Si fermò perché c’era qualcuno a bloccargli il passaggio; alzò gli occhi per vedere chi fosse.
Per la prima volta da molto tempo, sorrise per davvero.
 
 
*
 
 
Quinn non voleva nemmeno essere lì. Odiava quel posto, lo detestava con tutte le sue forze. Avrebbe dovuto ricordargli un periodo glorioso della sua vita, quando il piccolo regno racchiuso in quelle quattro mura era del tutto ai suoi piedi. Eppure il liceo finisce, e lei l’aveva capito quando ormai la vita l’aveva sfinita a furia di calci nella pancia.
«Datevi una mossa.» Borbottò spazientita a Santana e a Brittany, che stavano uscendo con fin troppa lentezza dai sedili posteriori. Ricevette una risposta non particolarmente garbata che nemmeno sentì, non dopo aver adocchiato tre figure che proseguivano verso l’ingresso della scuola, dando loro le spalle.
Non avrebbe scommesso sull’identità dei due ragazzi, ma avrebbe riconosciuto ovunque Will Schuester. L’aria le si bloccò in gola e dovette lottare con se stessa per impedirsi di andare a chiedere notizie su sua figlia. Si chiese che nome avesse scelto Terry, alla fine.
«Quinn, dattela tu una mossa!»
 
 
*
 
 
Santana sbloccò velocemente lo schermo del cellulare e cancellò l’ennesimo messaggio del suo ex; trasalì quando sentì il viso Brittany così vicino al suo, mentre faceva capolino da dietro alla sua spalla.
«Chi ti scrive?» chiese, con la sua solita allegria spensierata. Santana si domandò se ci sarebbe voluto lo stesso tempo della prima volta per dimenticarla di nuovo; poi rise di se stessa, perché semplicemente non l’aveva mai dimenticata.
«Nessuno.»
«È la tua ragazza?» non sembrava né felice né triste, sembrava solo una domanda. Poi Santana realizzò che cosa aveva detto. Si voltò velocemente verso Quinn, che fortunatamente sembrava troppo assorta a fissare qualcosa di non meglio identificato per badare a loro due.
«Ragazza? Ma che cosa dici?» bisbigliò; Brittany sembrava confusa.
«Scusa, io credevo... Non importa.» e lo disse come se in realtà importasse eccome. Santana sentì lo stomaco stringersi, ma poi Brittany allungò una mano verso il basso e allacciò il proprio mignolo al suo, e improvvisamente era tutto come sempre.
Loro due per mano e lei con il cuore spezzato.
 
 
*
 
 
Mercedes faceva del suo meglio per stare dietro alle chiacchiere del professor Schuester, sul serio, semplicemente non ricordava che parlasse così tanto. Il fatto che facesse sempre riferimento ad eventi che riguardavano la sua vita da insegnante faceva presupporre che non amasse particolarmente il suo nuovo lavoro, ma non ci fece troppo caso. Lo seguì all’interno del McKinley High, e solo dopo qualche corridoio si accorse che Kurt non era più con loro. Disse a Schuester di aspettarla in quella che una volta – e per circa una settimana – era stata l’aula del Glee club e fece il percorso a ritroso. Trovò il suo amico fermo all’ingresso, che fissava la porta con gli occhi di un cervo abbagliato dai fari.
«Kurt?»
«Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo prima.»
«Che cosa?»
«Io qui non ci entro. Il mio armadietto mi ricorderà la volta in cui l’hanno riempito di schiuma da barba, lo spogliatoio di quando mi ci hanno buttato fuori perché non volevano che mi cambiassi con loro, il bagno di quella volta che hanno provato a ficcarmi la testa nel water-»
«Kurt. Kurt, va tutto bene, okay? È solo una scuola. Le persone che ti hanno fatto quelle cose non sono più lì, e probabilmente a quest’ora vivranno sotto un ponte. Nel tuo armadietto c’era anche una nostra foto insieme, o sbaglio?» esitò, ma poi lei gli sorrise e gli tese la mano.
Kurt la prese.
 
 
*
 
 
Se le avessero chiesto una spiegazione, Rachel non ne avrebbe nemmeno potuto fingere che ci fosse un vero motivo per il quale ora stava camminando senza una meta precisa per i corridoi del suo vecchio liceo.
Era come se fosse legata a quella scuola da forze che stentava a capire, ma esistevano, e lei non poteva fare a meno di vacillare tra senso di mancanza e completezza. Attraversò il corridoio principale e si fermò a sfiorare quello che era stato il suo armadietto; ricordava a stento le persone che avevano occupato quelli di fianco. Nella sua mente, sembravano solo una lunga processione di fantasmi impolverati. Proseguì e si diresse verso uno dei corridoi secondari, incrociando una impiegata della segreteria con un plico di fogli tra le mani.
Ritrovarsi di fronte alla porta di quello che una volta era stato il Glee club – per una sola settimana, ma lo era stato – la fece fermare proprio lì, un passo prima della soglia. Si chiese a cosa fosse stata adibita quell’aula, dopo così tanto tempo; magari era semplicemente diventata una classe di Storia o di Chimica. Solo qualche istante più tardi si stupì della porta socchiusa: benché la segreteria fosse già attiva, le lezioni non erano ancora cominciate. Per qualche ragione sapeva che avrebbe finito per entrare ancor prima di aver messo piede nella scuola, quindi, in un certo senso, non si stupì di star spingendo la porta di fronte a sé.
 
Al contrario di ogni sua aspettativa, la stanza non era vuota.
C’era il professor Schuester che appoggiava un paio di spartiti sul pianoforte, e con lui due ragazzi che ricordava avessero fatto parte del Glee club con lei; era abbastanza sicura di aver pensato che le avrebbero dato filo da torcere. I due alzarono lo sguardo dagli spartiti nello stesso momento e la fissarono senza dire una parola.
Due ragazze erano sedute sulle prime seggiole in fondo alla stanza, tenendosi per mano; anche loro alzarono gli occhi verso di lei. Poco più in là c’era quella che una volta era stata la capo cheerleader; Rachel non ricordava di averla mai vista con un’aria così abbattuta.
Dalla seconda porta della stanza era appena entrata la barista del Lima Bean che era stata nel Glee con lei, della quale adesso le sfuggiva il nome. Stava spingendo una sedia a rotelle; ricordava vagamente il ragazzo che la occupava.
Il silenzio era leggero, confortante; per quanto fosse strano, nessuno sentiva il bisogno di dire qualcosa. Rachel realizzò solo in quel momento che la presenza del pianoforte significava che magari ora la scuola aveva insegnanti e fondi a sufficienza per mettere in piedi un coro.
Semplicemente, non toccava più né a lei né a ciascuna delle facce silenziose nella stanza.
Senza nemmeno prestare attenzione a ciò che stava facendo finì per far scivolare lo sguardo sulla batteria lucida e nuova in un angolo dell’aula, con tutta l’aria di non essere mai stata usata.
Senza essere certa del perché, Rachel sorrise.
«Ho fatto un sogno come questo, una volta.»
 
 
***
 
 
 
 



 
 
 
 
 
 
Dunque. Prima di tutto scusatemi: lo so che ultimamente sto scrivendo cose molto distanti dalla tipologia che tratto di solito. Non sono impazzita (ho anche in cantiere una long Klaine) ma per una volta volevo cimentarmi in qualcosa di diverso concentrandomi sui personaggi singoli anziché sulle coppie.
In particolare stavolta, in stile Glee Actually, mi sono chiesta cosa sarebbe successo ai personaggi principali se Finn non ci fosse mai stato; è sempre stato uno dei miei preferiti, e ho voluto scrivere questa OS per sottolineare l’importanza che ha avuto per me. E sto parlando solo ed esclusivamente di Finn: preferisco non gettarmi in altri discorsi per i quali EFP non è sicuramente la sede ideale. Semplicemente sono convinta che senza di lui, senza la voce maschile che Rachel voleva tanto disperatamente, non ci sarebbe stato nessun Glee e buona parte dei personaggi sarebbe rimasta tra le schiere degli emarginati senza aver mai modo di capire di essere speciale.
È solo il mio modo per ringraziare un personaggio che amo, perché a mio avviso il valore di ciò che si fa viene misurato dalla portata delle conseguenze, e credo che Finn abbia fatto tanto.
 
Detto questo, qualche spiegazione in più sui personaggi. Ho inserito solo quelli del pilot (Rachel, Tina, Artie, Kurt, Mercedes) e l’unholy trinity, perché erano presenti già dalla prima puntata e comunque si sono unite al Glee nel secondo episodio. Per quanto riguarda le vite che farebbero se non fossero mai diventati amici, ho semplicemente optato per quelle che mi sembravano più probabili  calcolando il non verificarsi di determinate condizioni; spero che vi siano sembrate plausibili.
Okay, direi che ho sproloquiato abbastanza u.u
Buon rientro a scuola a chi (come me) riprenderà domani, buon anno scolastico a chi ha già iniziato, buona università, buon lavoro, buon asilo... Me ne vado? Me ne vado u.u
 
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