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Autore: holls    17/09/2013    12 recensioni
Un investigatore privato, solo e tormentato; il suo ex fidanzato, in coppia professionale con un tipo un po' sboccato per un lavoro lontano dalla luce del sole; il barista del Naughty Blu, custode dei drammi sentimentali dei suoi clienti; una ragazza, pianista quasi per forza, fotografa per passione; e un poliziotto un po' troppo galante, ma con una bella parlantina.
Personaggi che si incontrano, si dividono, si scontrano, si rincorrono, sullo sfondo di una caotica New York.
Ma proprio quando l'equilibrio sembra raggiunto, dopo incomprensioni, rimorsi, gelosie, silenzi colpevoli e segreti inconfessati, una serie di omicidi sopraggiungerà a sconvolgere la città: nulla di anormale, se non fosse che i delitti sembrano essere legati in qualche modo alle storie dei protagonisti.
Chi sta tentando di mettere a soqquadro le loro vite? Ma soprattutto, perché?
[Attenzione: le recensioni contengono spoiler!]
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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7. Certezze sbiadite
 
 

 
6 gennaio 2005.
« Nathan! Che bella sorpresa!»
« Ciao mamma. » Alzò il braccio esibendo una busta colma. « Ti ho fatto un po’ di spesa. »
« Oh, grazie tesoro! »
La donna afferrò la busta e gli fece cenno di entrare in casa; avanzò verso il frigorifero con passi lenti e goffi, sovrastata dal peso della busta. Posò la spesa in fondo alla stanza e aprì il frigo. Cominciò a sistemare zucchine e pomodori nel vano inferiore, per appoggiare poi i salumi un piano più su. Si voltò improvvisamente verso Nathan, ed ebbe un sussulto.
« Nathan! Da quanto tempo sei qui? »
Nathan alzò sovrappensiero lo sguardo dal suo telefono e aggrottò lievemente le sopracciglia. Emise un sospiro silenzioso. Era sempre stato lì, a pochi passi da sua madre, dietro di lei.
« Non da molto, mamma. »
« Scusa tesoro, ma proprio non ti avevo sentito entrare! »
Nathan le sorrise, ma non appena si voltò per tornare alla spesa, l’amarezza comparve sul suo viso. La osservò imbambolato sistemare la marmellata sul ripiano, e le uova una ad una con movimenti delicati. E più la guardava, più se la sentiva scivolare lentamente tra le dita, come se la madre che aveva sempre fatto parte della sua vita, ora stesse piano piano lasciando il posto a una donna ormai privata del suo passato e dei suoi ricordi; un essere che di lì a poco altro non sarebbe diventato che un contenitore vuoto, la sua esistenza cancellata in un colpo. Era questo ciò che più lo inquietava, nella vita: che tutto ciò che è stato compiuto, o tutto ciò per cui si è lottato o sperato, potesse essere sotterrato in un angolo remoto della mente, accessibile solo da un vicolo buio bloccato da fronde inestricabili.
Il tocco sulla spalla di sua madre lo destò dal nugolo dei suoi pensieri.
« Grazie mille, tesoro. »
« Di niente, mamma. »
Si infilò le mani in tasca e strinse le spalle.
« Ah, tesoro. Tuo padre ha detto che vuole parlarti. »
Nathan alzò le sopracciglia per lo stupore.
« Papà? Vuole parlare con me? Di che si tratta? »
Sua madre scosse la testa.
« Non lo so, ha detto solo che è importante. » La donna schioccò la lingua, quasi spazientita dalla reazione di Nathan. « È vero che vi parlate poco, ma non essere così sorpreso! »
Nathan abbandonò la sua espressione scettica.
« Sono praticamente cinque anni che non mi parla. »
« Dai, su. Va tutto bene, vero? Mangi abbastanza, sì? »
Nathan annuì con un sorriso.
« Ah! Ti offro del thè appena fatto. »
La vide allontanarsi con la sua andatura un po’ impacciata verso la cucina. Nathan prese posto nella piccola poltroncina blu cobalto; scostò il cuscino panna facendo somma attenzione a non sgualcirlo. E non perché fosse un maniaco dell’ordine – tutt’altro – ma perché vedeva in quella precisione materna un ultimo e flebile barlume di umanità.
Sua madre tornò subito con in mano il vassoio e un grande sorriso. Posò il vassoio sul tavolo e gli porse una tazza. Nathan afferrò la tazzina decorata con motivi floreali e assaggiò quel thè. Quanto tempo era passato dall’ultima volta? Avevano ereditato quel set di tazze dalla madre di sua madre; e da quella volta il thè era sempre stato rigorosamente servito lì.
« Ah, tesoro! »
Nathan alzò lo sguardo verso di lei.
« Tuo padre vuole parlarti. »
Nathan cercò velocemente nella rete dei suoi pensieri, e sperò con tutto se stesso di non trovare un doppione di quel ricordo tra quelli recenti. E invece era lì, trasportato al cospetto della sua mente alla velocità della luce. Il ricordo ‘Papà vuole parlarti’ era stato registrato poco meno di cinque minuti prima. Si volle convincere che così non era, che il suo cervello aveva creato un falso ricordo, ma era troppo vivido perché non potesse essere vero.
Una fitta al cuore gli raggelò il petto, e nemmeno quel thè caldo riuscì a scioglierla. Deglutì a fatica, e aggrottò appena le sopracciglia, cercando di non destare sospetto.
E se non avesse avuto a cuore il destino di quelle tazzine, probabilmente la sua si sarebbe trovata in mille pezzi, sul pavimento. Convenne che era meglio posare la tazzina sul tavolino, e il suo sguardo si perse nel vuoto.
Aveva cominciato con banali perdite di memoria, che aveva spesso imputato all’età, anche se sua madre era piuttosto giovane, per poi proseguire con un generale annebbiamento, che talvolta le impediva anche di riconoscere la sua stessa casa. Ripeteva spesso le cose, e a volte saltavano fuori all’improvviso discorsi senza capo né coda. La osservava mentre compiva abituali gesti di rito e si augurò solo che lei non si stesse accorgendo di nulla. Si chiese se sarebbe mai arrivato il momento in cui lei non lo avrebbe riconosciuto più. L’idea di diventare un estraneo per colei che più di tutti era stata la presenza più importante della sua vita lo fece sprofondare, per un momento, in un baratro buio e cupo.
« Tesoro, tutto bene? »
Nathan riuscì a liberarsi dalla morsa dei suoi pensieri, per poi ritirare fuori la maschera sorridente.
« Sì mamma, tranquilla. Parlerò con papà. »
La donna annuì, e sorseggiò ancora il suo thè, fino a finirlo.
« Con la fidanzata va tutto bene? »
Nathan non aveva mai avuto voglia di dare preoccupazioni a sua madre, ma era un argomento che avrebbe voluto evitare da lì in avanti. Non tanto per la farsa che portava avanti da anni ormai, quanto per il ricordo che ancora scottava. Si sforzò di non pensare ad Alan e a tutto ciò che era successo.
« Ci siamo lasciati. »
Sua madre spalancò la bocca e posò di scatto la tazza.
« Tesoro, ma è terribile! »
 
***
 
Sua madre volle sviscerare la questione fidanzata fino in fondo, con buona pace di Nathan che si vide costretto  a inventare particolari inesistenti e decisamente non scabrosi. La sua recita fu interrotta da un gridolino conosciuto.
« Fratellone! »
« Jimmy! »
Si alzò dal divano e corse incontro al suo fratellino, sollevandolo e facendogli fare una giravolta. Il volto di Jimmy era tutto un sorriso.
«Come stai, fratellone? » domandò incuriosito, mentre lo tirava per le mani verso le scale.
Nathan gli arruffò i capelli biondi.
«Bene, bene». Estrasse dalla borsa un oggetto incartato e si chinò alla sua altezza. « Ho un regalino per te. »
Gli occhi e la bocca di Jimmy si spalancarono estasiati; prese il pacchettino e lo scosse nell’orecchio, nel tentativo di capire cosa ci fosse dentro. Ma udì solo il rumore di qualcosa che sbatacchiava contro una confezione di plastica e non gli fu di grande aiuto. La forma, però, era particolare; l’involucro era rotondo, ma sembrava a tratti spigoloso.
«Andiamo in camera ad aprirlo, eh, Jimmy? »
Il bambino non fece in tempo ad annuire che già era corso al piano di sopra, richiamando Nathan più e più volte.
Nathan entrò in camera e quasi inciampò su un peluche lì di guardia. Jimmy gli fece cenno di sedersi accanto a lui sul letto e Nathan ne approfittò per prendere due cuscini da poggiare al muro e usare come schienale.
«Posso aprirlo? »
Nathan annuì e fu pervaso da uno strano senso di felicità nel vedere il suo fratellino così eccitato per il suo regalo; sapeva che era sempre contento quando gli portava qualcosa.
Appena Jimmy, dopo aver rotto l’involucro di plastica, si trovò faccia a faccia col suo regalo, rimase a bocca aperta. Era stupito, e non capì subito di cosa si trattava. Nathan gli si avvicinò, e indicò l’oggetto.
« È un dodecaedro stellato. Vedi? Sembra una stella. »
Nathan prese l’oggetto e lo mostrò più da vicino a Jimmy, ruotandolo e indicandogli le punte. Era un oggetto a incastro, formato da alcuni pezzi di legno sistemati tra loro. Jimmy lo osservò ancora incuriosito, non capendo se c’era qualcos’altro dietro quell’oggetto misterioso o se invece la sorpresa fosse tutta lì.
« Carino, no? Puoi scegliere di tenerlo come soprammobile, oppure… ». Nathan estrasse dal dodecaedro il pezzo nel mezzo, facendo cadere inevitabilmente gli altri pezzi sul letto. « Puoi provare a scervellarti e trovare un modo per ricomporlo. »
Jimmy sembrò quasi dispiaciuto nel vedere il suo regalo così decomposto ma, dopo un primo momento di smarrimento, aveva già preso in mano due pezzi e stava tentando di rimetterli insieme tutti.
« Ma è facile? » domandò Jimmy, tentando di unire malamente i legnetti che, invece di formare la figura, si sgretolavano sul suo piumone.
«Be’, tu hai un fratello scemo. Ci ho impiegato un bel po’ per farlo, e anche dopo esserci riuscito non me lo sono ricordato per tre volte di fila. Però è carino e dà molte soddisfazioni, e credo che tu possa riuscirci. Vuoi che te lo ricomponga? »
Nathan fece per prendere tutti i pezzi, ma la mano di Jimmy lo scacciò.
« Voglio riuscirci da solo! »
La determinazione di suo fratello gli strappò un sorriso; era stato quasi tenero nel rifiutare il suo aiuto. Lo osservò rimettere i pezzi  a posto, per essere prontamente sgridato non appena tentava di dare consigli.
 
Dal piano di sotto, sentì la porta di casa aprirsi e poi richiudersi, segno che qualcuno era rientrato. E infatti, poco dopo, sentì la voce di suo padre bofonchiare qualcosa.
Si sentì strano all’idea di dover parlare con lui, o anche solo rivederlo. Da quando lo aveva affrontato, una sera, dall’alto dei suoi diciotto anni, si erano parlati molto raramente, perlopiù per telefono o quando capitava da sua madre e lui non era a lavoro. Ma anche in quei casi suo padre si limitava a lanciargli qualche occhiata sinistra e nulla più. E ora, invece, voleva addirittura parlargli urgentemente.
La cosa non gli piaceva.
 
Abbandonò Jimmy in camera e scese le scale. Come suo padre lo vide, non staccò nemmeno per un momento lo sguardo da lui e Nathan fece altrettanto.
« Nathan, tesoro, stavo per chiamarti! Ora che tuo padre è rientrato, potrete parlare. »
Con la coda dell’occhio, Nathan si accorse che sua madre elargì un grosso sorriso, forse nel tentativo di spezzare la tensione. Ricambiò, poi spostò di nuovo lo sguardo verso suo padre.
Nathan camminò verso di lui con passo deciso, finché non furono abbastanza vicini. Suo padre gli fece cenno con la testa.
« Seguimi in camera. »
 
***
 
Non appena furono nella camera da letto, suo padre chiuse la porta alle sue spalle. Si avvicinò al cassettone dei vestiti, aprì l’ultimo cassetto, si fece strada tra le camicie della moglie e cominciò a rovistare sgualcendo ogni cosa. Alla fine, suo padre estrasse un plico bianco e Nathan vi riconobbe, stampato sul retro, il logo sanitario.
Quella piccola immagine lo agitò. Era qualcosa che riguardava sua madre e la sanità, e la sua mente cominciò a elaborare una serie di malanni uno peggiore dell’altro. Poteva solo aspettare.
Suo padre si avvicinò, porgendogli la cartella dei risultati, dopodiché fece un respiro profondo.
« Tua madre è malata. »
Lo disse in modo talmente freddo e distaccato che Nathan fu quasi più irritato da quel particolare che dal significato dell'affermazione. Suo padre lo aveva detto come se la donna non fosse nemmeno stata sua moglie.
Nathan si mordicchiò il labbro inferiore.
« Cos’ha esattamente? »
Sapeva benissimo che gli sarebbe bastato estrarre i fogli dalla cartella medica per saperlo, ma non ne aveva il coraggio.
« Ha l’Alzheimer. Non è comune tra le persone della sua età, ma può succedere. È stata sottoposta a diversi test neurologici e tutti hanno riportato una demenza moderata. »
Nathan continuò a tartassarsi il labbro inferiore. Sentì il magone salirgli in gola, ma provò a trattenersi.
Non sapeva ben dire se stesse per scoppiare dalla rabbia o dalla tristezza. Suo padre parlava come se fosse stato a un convegno di studiosi altezzosi, nel quale vinceva chi si esprimeva nel modo più compito.
« Possiamo rallentare il decorso della malattia con qualche farmaco, ma purtroppo... »
Nathan sbuffò pesantemente e scaraventò il plico a terra.
« Cristo santo, ma lo senti come parli? È tua moglie, è mia madre! Ma come fai a essere così… così… » Nathan strinse i denti, cercando di trovare la parola giusta, che non arrivò. « Tu non sei umano! »
Dopo un’ultima occhiata feroce, Nathan fece dietro front e uscì dalla camera sbattendo la porta.
Vide sua madre corrergli incontro.
« Tesoro, che è successo? »
Non fece in tempo a rispondere che suo padre uscì dalla camera; Nathan alzò gli occhi al cielo.
« Nathan, fermati. Non abbiamo ancora finito. Elisabeth, per favore, lasciaci soli. »
La donna provò a ribattere, ma la mano di Nathan la fermò. Suo malgrado obbedì, ma non prima di aver scoccato a entrambi un’occhiata preoccupata. Quando i due furono soli, suo padre riprese a parlare.
« Credi che per me sia facile, Nathan? »
Il ragazzo, che fino a quel momento gli aveva dato le spalle, si voltò e fece qualche passo verso di lui.
« Sì. Credo che sia facile, per te. »
Suo padre aggrottò le sopracciglia, facendo curvare l’estremità più interna verso l’alto.
« Ti sbagli. »
« Papà, non fingere di avere un cuore, perché so che non ce l’hai. »
Suo padre lo fissò a lungo. Nathan riuscì a capire che era indeciso se rispondergli o meno e cosa dire nell’eventualità. Alla fine sospirò.
« Va bene. Non ho altro da dirti, se non che ci penserò io a lei. E questa è la cartella, se ti interessa. » disse, porgendogli le carte.
Nathan le afferrò senza dire niente.
« Fratellone… »
Alzò la testa verso quella vocetta minuta, e si accorse che Jimmy era sulle scale, con le dita sul corrimano e i piedi su due scalini diversi, come esitasse nello scendere.
« Arrivo subito. Metto una cosa in macchina e sono da te, ok? »
Il bambino annuì debolmente e si sedette sugli scalini, aspettando con la testa appoggiata sulle ginocchia.
 
Aveva fatto idea di portare solo il plico in auto, ma sentì che aveva bisogno di stare un po’ da solo; così aprì la portiera del guidatore e prese posto davanti al volante.
Dopo aver respirato profondamente, si decise a dare un’occhiata a quelle carte. Le scorse prima velocemente, come era solito fare con qualcosa che portava brutte notizie; solo quando ebbe dato un’occhiata rapida ai risultati dei test a cui sua madre si era sottoposta, trovò il coraggio di leggere nel dettaglio tutte le prove.
Sua madre aveva ottenuto punteggi intermedi nella quasi totalità dei test, segno che la malattia stava cominciando a peggiorare. E più procedeva nella lettura, più si rese conto che suo padre aveva ragione.
Ripensò alla scena di poco prima, a quello che era uscito dalla sua bocca, e un po’ si vergognò. Quando era arrabbiato gli uscivano spesso frasi forti, ma con suo padre si sentiva come una bomba a orologeria. Pronta a scoppiare da un momento all’altro.
Reagiva sempre così, con suo padre. Ma, d’altronde, non poteva dimenticare ciò che era accaduto poco dopo aver compiuto diciotto anni. Da quel momento in poi il loro rapporto era stato irrimediabilmente compromesso e nessuno dei due aveva mai provato a fare qualcosa.
Pensò di accendersi una sigaretta. Ripose le carte e si allungò verso il sedile dell’accompagnatore, aprendo il piccolo vano porta-oggetti; da lì tirò un pacchetto di sigarette e ne prese una. Se la mise in bocca, ma, come fece per accenderla, udì una serie di colpetti sordi alla sua sinistra. Si voltò, e vide la testa di suo fratello sbucare da sotto il finestrino, insieme al pugnetto che aveva battuto sul vetro. Immediatamente si sfilò la sigaretta di bocca, riponendola dove l’aveva presa.
Uscì di macchina e si accovacciò davanti a Jimmy.
« Ehi, campione, che c’è? »
Suo fratello non disse nulla. Nathan aspettò che gli dicesse qualcosa e invece se ne stava in silenzio, con la fronte aggrottata e le sopracciglia sollevate e ravvicinate. Nathan si rialzò e, proprio in quel momento, Jimmy gli tese la mano. Stette col braccio teso verso di lui, finché Nathan non gli prese la piccola mano, stringendola; e fu solo a quel punto che le labbra di Jimmy si contrassero in un piccolo, abbozzato sorriso.
 
***
 
Passò tutto il pomeriggio con Jimmy; data la sua delusione nel non riuscire a risolvere subito il rompicapo, Nathan aveva preferito portarlo al parco per farlo distrarre un po’. Si erano divertiti un mondo: erano stati rincorsi da un cane indiavolato, avevano gettato palline di mollica ai cigni nel laghetto e scacciato una mandria di piccioni affamati, attratti da pezzetti di cibo che per errore i due avevano gettato dalla loro panchina. Si distesero esausti sull’erba, anche se ormai era quasi buio e l’aria fredda cominciava a intorpidirgli gli orecchi e il naso. Abbracciò Jimmy tirandolo a sé, e fissò il cielo con sguardo perso. Fu la vocina di Jimmy a destarlo.
«Fratellone…?»
«Dimmi tutto. »
Seguì un momento di silenzio irreale, riempito solo dall’abbaiare di un cane giocherellone. Nathan pensò di aver avuto un’allucinazione, ma suo fratello riprese, con una flebile voce.
«Ma la mamma è malata? »
Nathan si sentì raggelare ancora una volta quel giorno, e ancora una volta per lo stesso motivo. Aveva veramente creduto che i segni dello squilibrio di sua madre fossero visibili solo agli adulti? Ma forse, era solo ciò che aveva sperato. Perché lui ormai era adulto e indipendente; ma Jimmy aveva solo nove anni, e per lui sua madre era più che una madre, era la donna che non sbaglia mai, la donna che lo protegge da tutti i pericoli e, perché no, anche colei che tiene lontani i mostri da sotto il suo letto. Benché lui fosse ormai adulto, il pensiero di affrontare quell’argomento lo angosciava; ma ancora di più temeva ciò che Jimmy gli avrebbe detto, o l’idea di venire a conoscenza di quanto aveva capito.
«Cos’è che te lo fa pensare, Jimmy? »
«Be’… A volte mi chiede chi sono. Una volta non si ricordava più che era la mamma. »
Gli sembrò che qualcuno gli avesse tirato l’ennesima frustata su una schiena sanguinante, ma ciò che lo indusse quasi al pianto fu qualcos’altro. Aveva ascoltato bene le parole di Jimmy e aveva usato proprio la parola “ricordava”. Dunque capiva che sua madre si scordava a tratti di lui. Jimmy lo aveva capito, ma la sua voce non aveva tradito la minima rottura, né segno di debolezza; e Nathan comprese che Jimmy non era pronto e abbastanza forte per una cosa del genere, e che la sua forza apparente era  semplicemente la speranza che il suo fratellone, un adulto, potesse scacciare il male di sua madre e far tornare tutto come prima.
Si prese del tempo prima di rispondere. Non se la sentì di mentire a suo fratello: era un bambino, ma non era uno stupido. Gli posò una mano sulla nuca e l’accarezzò, mentre le parole fluivano lente come i suoi movimenti.
«La mamma sta male, Jimmy, sì. Ha una malattia che le fa dimenticare le cose ogni tanto. Ma non ti preoccupare, come vedi la maggior parte del tempo è in sé. »
Udì Jimmy emettere un ronzio pensoso, mentre continuava ad accarezzargli i capelli.
«E perché, allora, non le compriamo una medicina, per farla guarire? »
Nathan non seppe cosa rispondere. Sapeva che più stava in silenzio e più, paradossalmente, parlava. Doveva dirgli la verità? Doveva indorare la pillola? Stare zitto? La sua rapidissima catena di pensieri fu interrotta da qualcosa che non avrebbe mai voluto sentire: il pianto di suo fratello. Se lo trovò infatti dritto davanti a lui, i pugni serrati quasi a trattenere la rabbia di quel corpicino tremante,  e lacrime che solcavano quelle guance che forse avevano già assistito a quello spettacolo.
«Non guarirà, vero? Non guarirà! »
Jimmy gridò l’ultima frase, scoppiando in un pianto dirompente e cominciando a correre più veloce che poteva. Lontano dal fratello, lontano dall’orrore, lontano dal dolore. Nathan si alzò di scatto e con un movimento irrazionale cominciò a correre verso il fratellino.
«Jimmy, aspetta! Dove stai andando? Jimmy! »
Nathan lo rincorse a perdifiato, finché non lo raggiunse. Si era fermato a covaccioni all’angolo di un muro. Aveva la testa sulle ginocchia e piangeva; poteva vedere chiaramente il suo corpo scosso dai singulti. Si avvicinò piano e gli poggiò le mani sulle spalle. Provò a dire qualcosa, ma di fronte a quelle lacrime ogni parola era superflua; poté solo abbracciarlo e stringerlo forte a sé. I due fratelli si strinsero forte, e piano piano la tragedia di Jimmy trovò una momentanea pace.
Stettero così per una quantità di tempo quasi cristallizzata e furono riportati alla realtà solo quando percepirono posarsi sui loro volti un candido fiocco di neve.
Si guardarono negli occhi, ma non dissero niente; Nathan prese Jimmy per mano e lo riportò a casa, senza mai lasciarlo.
 
***
 
Rimase con lui finché non si addormentò; fissava il suo volto che si sovrapponeva senza pietà a quello che aveva visto quel giorno. Non aveva mai visto il fratello in quelle condizioni e si sentì dannatamente impotente.
Ormai erano quasi le undici: decise di andarsene. Salutò la madre con gesti affettuosi, forse anche più del solito: per tutto quel tempo aveva forse pensato, come quando era bambino, che sua madre non se ne sarebbe mai andata. E invece, lì sulla soglia, si chiese per quanto ancora quella scena sarebbe potuta esistere, e desiderò conservarne ogni attimo.
La strinse forte e la salutò.
 
Una volta fuori, fece rapidamente il punto della situazione. Si avviò verso la sua macchina e, in mezzo a tutta la valanga di pensieri, si ricordò che quella sera sarebbe passato a prenderlo Hank.
Spostò il quadrante dell’orologio sotto la luce di un lampione e guardò l’ora: erano già le 23.
Nathan sbuffò.
Era ora di andare a lavoro.
 
***
 
Quella sera l’aria odorava di piscio. Probabilmente merito di un cane di passaggio o di un barbone habitué di quel luogo. Ringraziò solo che le mani non sapessero di preservativo. Non ancora, almeno. Anche se, paradossalmente, gli sarebbe stato difficile distinguere altri odori, con quel raffreddore maledetto che si era preso. Dio solo sapeva il freddo che stava patendo in quel momento!
« Cazzo, ma dove sono finiti tutti? » borbottò Hank. « Mi spiegate cosa cazzo guadagniamo stasera? Cazzo! » Assestò un potente calcio a una lattina accartocciata, buttandola in mezzo alla strada.
« Condivido la tua passione, ma potresti evitare di mettere ‘cazzo’ in ogni tua frase? »
« Potresti tapparti quella fogna, stupida checca del cazzo? »
Alzò gli occhi al cielo, sospirando.
« Mi chiedo perché mi sia toccato un compagno di marciapiede come te.  »
« Nessuno ti obbliga a occupare questo marciapiede del cazzo, e nessuno ti obbliga a stare con me! »
« …Cazzo. »
Hank lo guardò scocciato, facendogli una smorfia.
« Ehi, stronzetto, vedi di abbassare il tiro. Anche perché me ne sono accorto che vai meno di moda, ora.  »
Nathan dovette ammettere che era vero. Da quando aveva subito quell’aggressione provava repulsione all’idea di farsi toccare da un estraneo; si era perciò ridotto a fare lavoretti minori, ma a Hank non aveva il coraggio di confessarlo. Gli aveva chiesto più volte di quello strano cliente d’ottobre, ma lui aveva sempre risposto in modo vago.
« E comunque, invece di prendere per il culo, io butterei un occhio alla bomba che sta arrivando! »
Due intensi fanali blu spuntarono rapidi dal buio della notte, accompagnati dal rombare del motore. Il passo lungo, la silhouette bassa e le grandi ruote la catalogavano senz’altro come auto di lusso.
Hank emise un fischio compiaciuto.
« Cazzo, è una Reventón! »
« Una che? »
« Stai zitto e muoviti, viene verso di te! »
Effettivamente, l’auto accostò proprio davanti a quel marciapiede, e fu accolta prontamente.
« Ciao, bel ragazzino. »
« Nathan. »
« Ciao, Nathan. Quanto prendi per divorare il mio gingillo? »
« 25 »
« Perfetto. Sali. »
Nathan si voltò verso Hank, che strizzò l’occhio incitandolo eccitato.
Salì, quasi intimorito dallo sguardo di quella chicca raffinata e lussuosa.
 
Nathan indicò al cliente una viuzza laterale dove potersi appartare, dopodiché partirono. Rimase stupito dalla spaziosità dell’abitacolo, illuminato a tratti dalla luce dei lampioni.
« Bella macchina, vero? È un pezzo raro. »
« E costoso, suppongo. »
« Ci puoi scommettere. »
Lanciò un’occhiata all’uomo accanto a lui. Assomigliava in tutto e per tutto al classico cliente: curato, ben vestito e, soprattutto, sposato. Notò subito la fede strizzata intorno all’anulare.
Il cliente parve accorgersene.
« Se ti dà fastidio, posso toglierla. »
« E che fastidio dovrebbe darmi? Non sono mica io quello che si spaccia per eterosessuale e che tradisce la moglie con un prostituto. »
Il cliente emise un risolino.
« Bello e sfrontato. »
La macchina si fermò delicatamente, in un posto lontano da sguardi indiscreti, abbastanza distante dalla luce dei lampioni. Il cliente reclinò leggermente il sedile, mentre Nathan si apprestava a sbottonargli i pantaloni. Come lo fece, sentì un odore pungente invadergli le narici. Fu grato per il raffreddore che i santi gli avevano riservato.
Rovistò un po’ nelle sue tasche prima di tirare fuori un preservativo, srotolandolo poi con un gesto meccanico e privo di ogni sentimento.
 
Finì l’operato con i soliti tempi e modalità.
« Ti riporto in là? » domandò il cliente, riabbottonandosi i pantaloni.
« Bah, se vai verso Central Park, potresti anche riportarmi a casa. »
Il cliente mise in moto la macchina. Ripartì.
« Giuro di non aver mai incontrato qualcuno più irriverente di te. »
« Non mi sembra che ti dia fastidio. »
L’auto si fermò a un semaforo.
« Quanti ragazzi fai cadere ai tuoi piedi col tuo caratterino? »
Nathan guardava fuori dal finestrino, lo sguardo fisso sulla vetrina di un negozio di abbigliamento.
« Ci cascano solo gli idioti. »
Il cliente schiacciò l’acceleratore, percorrendo la Madison Avenue.  Seguì un quarto d’ora di silenzio, che non fu spezzato nemmeno dal rumore del motore che, dall’interno, era sorprendentemente silenzioso. Il finestrino gli mostrò la città come un film in avanti veloce: rapidi schiamazzi di ragazze fuori da un pub, ubriachi che intonavano una chissà quale canzone, le luci accese delle vetrine di negozi inesorabilmente vuoti.
« Dove ti lascio? »
« All’altezza della metro andrà benissimo. »
« Harlem, eh? Ne ho sentite diverse su quel quartiere. »
« Almeno gli affitti costano poco. »
L’auto accostò nel punto indicato da Nathan.
« Siamo arrivati. Ecco i tuoi 30 dollari. Cinque in più perché sono un idiota. »
Nathan emise un sorriso tirato. Ringraziò e intascò la somma, dirigendosi verso casa.
 
Gli ubriachi della fermata di Harlem lo aspettavano come al solito, farfugliando qualcosa sulla guerra e gli Stati Uniti. Nathan affrettò il passo e si diresse verso casa.
Se doveva essere sincero con se stesso, si sentiva inquieto a girare per strada da solo. Sapeva di essere nelle mire di uno svitato maniaco sessuale e si aspettava, in modo un po’ surreale, una sua improvvisa comparsa. Ma in fondo, pensò, aveva già avuto quello che voleva. Voleva il sesso nella sua casa, e lo aveva avuto. Aveva avuto anche la rottura con l’uomo che amava, ma non aveva idea se anche questo rientrasse negli scopi del maniaco.
 
Erano le tre e mezza quando svoltò nella 104th. Dopo aver rischiato di inciampare su una bottiglia rotta – mandata al diavolo sonoramente - , setacciò le tasche del cappotto alla ricerca delle chiavi del suo bilocale al 313. Avrebbe potuto riconoscere quel condominio a distanza di chilometri, con quel tipico tanfo di fritto emanato dalla spazzatura davanti alla palazzina.
Tirò fuori il mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto e fece per infilare la chiave grossa nella serratura.
« Ciao, Nathan. »
Si voltò. Dietro di lui c’era un uomo incappucciato, il volto nascosto dall’oscurità. Riusciva a scorgere solo un sorriso maligno.
L’uomo si tirò giù il cappuccio. Nathan ebbe un sussulto.
…Il maniaco!
« Sei sorpreso di vedermi? »
Senza nemmeno pensare, si voltò e provò a infilare la chiave nella serratura: il mazzo gli scorse fra le mani, finché non trovò la chiave giusta. Si girò di nuovo per vedere cosa stesse facendo l’uomo, poi tornò con lo sguardo alla chiave. Le mani, però, gli tremavano troppo, e falliva ogni tentativo di centrare la serratura. Girò il capo per seguire i movimenti dell’uomo e lo vedeva ora avvicinarsi sempre più, permeato da un sorrisetto sadico.
L’uomo si stava avvicinando, ma non poteva più permettersi di sbagliare mira; tentò ancora una volta di infilare la chiave, resistendo al bisogno di voltarsi.
Sentiva passi lenti e cadenzati dietro di lui, ogni volta sempre più vicini. Alzò lo sguardo verso il vetro del portone e il riflesso del maniaco dietro di lui aveva quasi raggiunto le dimensioni di quello di Nathan.
Non poteva più perdere altro tempo.
Con la mano libera afferrò l’altra, cercando di fermare il tremolio della mano.
Sentì la chiave entrare liscia nella serratura, ma aspettò prima di sentirsi sollevato. Girò la chiave nella toppa e fece per spingere, quando a un tratto le mani del maniaco gli tapparono la bocca e gli cinsero il corpo, tirandolo via di colpo dal portone di casa.
Nathan provò a tirare una gomitata, ma la presa dell’uomo sul suo corpo era talmente forte che non riusciva a divincolarsi.
« Finalmente… Non sai quanto mi sei mancato. »
Nathan spalancò gli occhi, ma raccolse ogni briciolo della sua forza per evitare di soccombere. Tentò di spostare il capo cercando di evitare il fetore di quell’alito nauseabondo, mentre il maniaco avvicinava il suo corpo a quello di Nathan. Il contatto era talmente stretto che riuscì pure a sentire il membro duro di quell’uomo che gli premeva sul fondo schiena.
Tentò ancora di divincolarsi, ma era tutto inutile, e l’agitazione e il senso di ripugnanza non lo aiutavano a concentrare le forze.
Guardò avanti a sé: le chiavi erano ancora lì, infilate nella toppa. Se solo fosse riuscito a distrarlo, anche solo per un momento!
Si guardò intorno, nella speranza di poter chiedere aiuto; ma non c’era nessuno.
Ad un tratto, il maniaco cominciò a trascinarlo di peso verso la palazzina e, purtroppo, non gli ci volle molto a capire le intenzioni di quell’uomo: voleva replicare quello quanto accaduto quasi tre mesi prima.
Il maniaco gli ordinò di aprire la porta. Nathan ubbidì, nella speranza di prendere tempo e pensare a un piano, ma non gli veniva in mente niente. Varcarono la soglia del portone e il maniaco si assicurò che la porta rimanesse aperta da sola. Dopo pochi passi, Nathan si aggrappò all’improvviso agli infissi del portone, arreggendosi più forte che poteva.
« Che diavolo stai facendo? Non penserai di fregarmi con questi trucchetti idioti! »
Il maniaco cominciò a tirarlo con una mano, ma non riusciva a fare abbastanza forza. Ingenuamente, il maniaco gli tolse la mano dalla bocca e spostò la mano che lo cingeva, in modo da poterla unire all’altra. Nathan si ritrovò per una manciata di istanti con il braccio sinistro libero; assestò una potente gomitata al volto del maniaco, il quale liberò Nathan del tutto per portarsi le mani sul volto dolorante. Senza perdere tempo, il ragazzo gli piazzò una ginocchiata in mezzo alle gambe e, approfittando di quel momento di assoluta libertà, spinse via il maniaco verso la strada.
Nathan estrasse le chiavi dalla toppa, sbloccò la porta e la spinse, nel tentativo di farla richiudere. Ma il maniaco sembrava essersi in parte ripreso, e si buttò sulla porta cercando di non farla chiudere. Nathan provò a spingere più forte che poteva, ma nessuno dei due sembrava prevalere sull’altro.
Il rombo di un’auto in arrivo lo attirò, ma non lo distrasse; e fu sorpreso quando vide l’auto fermarsi proprio davanti a casa. Ma fu ancora più sorpreso quando vide che quell’auto era proprio quella di Hank.
Lo vide scendere e cercò il suo sguardo per chiamare aiuto.
« Ma che cazzo… Nathan! »
Nathan si sentì sollevato: Hank lo aveva visto.
« Hank, aiuto! Mandalo via! »
« Cos…? »
La porta si chiuse con uno schianto. Nathan guardò avanti a sé ed ebbe a malapena il tempo di vedere la fuga del maniaco.
 
***
 
Era riuscito a raggiungere il suo appartamento e, neanche a dirlo, si era totalmente barricato in casa con Hank. Aveva chiuso la porta a doppia mandata, abbassato tutte le serrande e chiuso ogni finestra. Se ne stava seduto sul divano, Hank accanto a lui.
« Stai bene? Sei ferito? »
Nathan scosse il capo.
« Solo un po’ spaventato. Non riesco nemmeno a ripensarci. Se non fossi arrivato tu… »
« A quanto pare sono l’uomo della Provvidenza. Meno male che ti avevo cuccato il telefono. A proposito, ma chi era quel tipo? Lo conosci? »
Nathan trasse un respiro profondo.
« No, non l’ho mai visto prima. »
Seguirono attimi di silenzio. Nathan sentiva ancora l’adrenalina scorrergli nelle vene, anche se il cuore si stava calmando pian piano.
« Non so che fare, Hank. Non voglio più uscire di casa. »
« Eh, lo capisco. Per poco quel pattume merdoso non ti prendeva. »
« Pattume merdoso? »
« Oh, scusa. Sono stato troppo volgare, “Nathan-bocca-di-fata”? »
« Troppo volgare? Troppo poco, vorrai dire! Da te mi aspettavo qualcosa di più su quel… porco. Mi deludi, sai? »
Hank gli indirizzò un gesto che lo mando affettuosamente a quel paese.
« Cosa posso fare adesso? Non posso certo passare il resto della mia vita chiuso in casa. Come se mi assicurasse protezione, poi. »
Hank sospirò.
« Eh, Nathan Nathan. Esiste una cosa chiamata ‘polizia’. Alzi la cornetta, fai il 911 e ti prepari a una bella chiacchierata con loro. »
« Vuoi dire che devo fare una denuncia? »
« E cos’altro, sennò? »
Nathan sospirò. Gli sembrava strano fare una denuncia: rendeva il tutto così dannatamente reale. In più, c’era da considerare anche il fatto che era piuttosto probabile che Alan lo venisse a sapere in tempo zero. Ma non voleva correre il rischio che altre tetre fantasie diventassero realtà.
Si diresse verso il telefono, alzò la cornetta e compose il 911. Dopo qualche attimo di libero, qualcuno rispose.
 « Pronto, polizia? Devo denunciare un’aggressione. »  

 

Salve a tutti! Come vi avevo annunciato, questo è l'ultimo appuntamento bisettimanale, perché sennò rimango indietro con la scrittura dei nuovi capitoli, anche se per fortuna ho trovato un seguito adeguato e presto mi metterò a scrivere :D
I vecchi lettori avranno notato che qui si notano le prime differenze con la scorsa versione, non vedo l'ora di postare i nuovi capitoli perché ce ne sono alcuni inediti e scoppiettanti!
Vabbè, vabbè. Nathan ha deciso di dire basta a questa storia del maniaco e ha fatto una denuncia. Come reagirà Alan quando lo scoprirà? Sarà un'occasione per un riavvicinamento?
Lo scoprirete la settimana prossima ^__^
Ringrazio tutti quelli che mi seguono, aspetto le vostre impressioni *__*
Alla prossima!
   
 
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