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Autore: I Fiori del Male    18/09/2013    6 recensioni
Alcuni credono che il nostro mondo sia governato da un’entità superiore, che traccia un percorso prestabilito per ciascuno di noi. Altri preferiscono pensare che caos e caso regnino sovrani. Nessuna di queste ipotesi è valida per Panem, dove la vita di ognuno si regge sulle scelte e sul coraggio che si deve avere per compierle, sull’abilità di governare le fiamme, notoriamente volubili, ma capaci di grandi cose, se utilizzate con abilità e saggezza.
- Io e Haymitch ci guardiamo, non appena lui raggiunge il palco, e senza che Effie lo dica ci stringiamo la mano con gli occhi fissi l’una nell’altro. Un accordo ci unisce. - [Capitolo I]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Voglio ringraziare Matita Gialla, che si è offerta come Beta – Reader per questa storia, e che ha letto tutti i miei scritti, fornendomi sempre opinioni e consigli preziosi.
 May the odds be ever in her favor.
 
 
- 1 –
[Katniss POV]


 
 
- Non capisco l’utilità di questa mietitura – protesto, mentre mia madre rinuncia a cercare di farmi bella, come sarebbe solito  in questo giorno.

– Voglio dire, è chiaro che devo andare io, dopodiché la scelta è solo tra Peeta e Haymitch ...– dico mentre cerco di mantenere un tono freddo e spiccio; ma dentro di me tutto va in pezzi.

Il punto è che con la scenata che ho fatto il giorno in cui Snow ha aperto la busta della terza edizione della memoria, mi sono resa ridicola a sufficienza per anni. Non che non fosse giustificata, o meglio lo sarebbe stata, se non fosse esistito uno come Peeta, che ancora prima che io comprendessi appieno le implicazioni di quanto detto da Snow era già da Haymitch, per avvisarlo che qualora fosse stato estratto il suo nome, lui non avrebbe in alcun modo dovuto offrirsi volontario al suo posto.

Ci ho ripensato spesso, mentre ci allenavamo per affrontare al meglio questo giorno e i prossimi, neanche fossimo dei Favoriti; e non ho potuto fare  a meno, ogni volta, di sentirmi profondamente a disagio.

Voglio sperare che Haymitch capisca quanto sia importante tener fede alla promessa che mi ha fatto, anche perché ha sempre preferito Peeta a me.

Prim si avvicina timorosa, lo sguardo incollato al pavimento, e so che si sta trattenendo dal piangere.

Mi chiedo quando abbia cominciato a porsi certe restrizioni, tipiche di una come me.

– ehi ... – passo una mano tra i suoi capelli, insolitamente sciolti. Ho bisogno di parlare con lei, deve sapere che non tornerò, per quanto sia crudele.

– Vieni con me? – chiedo, e lei sa che andremo a fare una passeggiata, lontano da mia madre, che già sa cosa aspettarsi e non ha nessun bisogno di sentirselo ripetere. Annuisce.
Usciamo da casa e ci allontaniamo dal villaggio dei vincitori.

È tutto silenzioso nei dintorni, come accade sempre il giorno della mietitura.
A colorare di bianco il distretto ci sono i pacificatori, schierati ovunque.

Mi chiedo distrattamente se sia perché pensano che abbia intenzione di scappare, essendo l’unico tributo donna del dodici.

– Paperella, ascoltami. Quello che sto per dirti non è bello, ma è necessario. – le dico non riuscendo a guardarla negli occhi, e mi disprezzo per questo.

– Io ... io non tornerò. Non tornerò perché ho un debito nei confronti di Peeta, e perché è importante che lui resti vivo, perché è l’unico in grado di trascinare le folle; e se anche Haymitch mi accompagnasse nell’arena al suo posto, io non sarei in grado di ucciderlo. Lo capisci, paperella? – la voce mi trema su quell’ultima, sciocca parola che tanto significa per me.

– non posso tornare, se voglio che voi siate tutti liberi un giorno. Snow ce l’ha solo con me, e se sparire può servire perché voi viviate in pace, allora ... allora a me va bene. – concludo. Prim adesso mi guarda. Non riesco a decifrare il suo sguardo, ma l’azzurro solitamente limpido dei suoi occhi si è incupito. Mi chiedo se non stia cercando di capire davvero, anche se io non mi aspetto altro che vederla sciogliersi in lacrime.

Non è necessario che lei si imponga di essere forte, quella che deve tenere duro sono io: ho scelto questo compito proprio per non vederla spegnersi come è accaduto a me, ma sembra che alla fine la sorte non sia stata proprio a nostro favore.

- Io non voglio ... – mormora con voce rotta abbracciandomi, stringendomi in una morsa, tremando come se stesse morendo di freddo.

– Non voglio! Non voglio! Scappa, vattene via da qui! Non puoi ... non puoi andartene così ...– sussurra con voce rotta.

- No, Prim, ascolta ... sssh ... – la stringo a me nell’invano tentativo di consolarla, forte, più forte che posso.

Ma non basta, e non la biasimo quando si divincola dalla mia stretta e corre via, verso casa. Seguo il suo stesso percorso, molto lentamente, fin quando anch’io rientro in casa e trovo mia madre, sulla soglia, che mi osserva senza parlare.

Sa cosa ho fatto, deve aver visto Prim rientrare piangendo e urlando, mi aspetto che mi schiaffeggi, anche se non è proprio da lei, che mi dica che ho sbagliato, che tiri fuori qualcosa che mi faccia credere che tornerò ancora una volta. Me lo aspetto perché ne ho bisogno, e al tempo stesso so che non succederà.

Mia madre ha imparato da tempo che non può far altro che lasciarmi prendere le mie decisioni e sperare che siano il meglio che posso fare.

Credo di aver ormai superato la rabbia che provavo, ricordandomi del periodo in cui ho dovuto portare avanti la famiglia da sola, forse perché ho sperimentato anch’io quel senso di vuoto che ti attanaglia, quando pensi di poter perdere una persona cara, ma ci sono cose che non cambieranno mai, come questa.

-Posso sistemarti i capelli? – mi chiede soltanto, e capisco che quella è una necessità, che per quanto mi verrebbe naturale dirle – No, Grazie – devo lasciarglielo fare.

È il suo addio, piangerà dopo che me ne sarò andata, e la ringrazio dentro di me per questo, perché vederla piangere peggiorerebbe soltanto l’intera situazione.

In camera, mi siedo su uno sgabello e lascio che mia madre disfi la solita treccia per produrre la complicata acconciatura che mi fece il giorno dei miei primi Hunger Games. Senza parlare, sfila le ciocche una dopo l’altra, carezzandomi delicatamente la testa. Prende una spazzola e mi streccia i nodi con cura, il tutto con una delicatezza tale da scompormi dentro.

Stringo i pugni sulle cosce, contenta che io debba tenere la testa china per lasciarle piena visibilità, perché alla fine non posso fare a meno di versare qualche lacrima.
Quando ha finito mi asciugo gli occhi rapidamente, col dorso di una mano, sperando che non si noti troppo.

- Grazie – riesco a dire, e lei mi abbraccia stretta. È giunto il momento.

Non appena metto piede fuori dalla porta, vedo Peeta fare lo stesso, qualche casa più in la. Ci guardiamo senza parlare e lui mi raggiunge, per poi prendermi per mano.

Assaporo quella stretta senza riserve, perché so che potrò farlo solo poche altre volte. Haymitch esce da casa e ci osserva per un attimo, poi scuote la testa e ci segue.

Si aggiungono al corteo mia madre, Prim e Sae la Zozza. Quando usciamo dal villaggio dei vincitori, avvicinandoci al Prato, il cuore mi si spezza del tutto perché ad aspettarci c’è Gale, con Hazelle, Vick, Posy e Rory al seguito.

Stringo più forte la mano di Peeta, anziché lasciarla. Voglio che Gale sappia che non c’è futuro, che mi lasci andare.

Farà male, lo so, ma potrò spiegargli meglio più tardi, quando ci daranno un’ora per i saluti.

Come ogni anno l’intero distretto dodici assiste alla mietitura, ma sono sinceramente commossa di vedere gli adolescenti del distretto posizionarsi sotto il palco con il viso rilassato; consci che per quest’anno potranno cenare stasera con i loro genitori senza piangere l’imminente morte di un loro amico o parente.

Di nuovo, mi chiedo a cosa serva lasciare che tutti scelgano i loro abiti migliori per presentarsi davanti a un’Effie Trinket che non estrarrà mai il loro nome.

Curiosamente, mi ritrovo a chiedermi quale colore abbia scelto quest’anno.

Vorrei tenere Peeta per mano per tutta la durata della mietitura, ma non ci viene concesso.

Lui e Haymitch vanno nel gruppo dei ragazzi, io resto tra le ragazze, che mi fissano tutte, perché sanno che da quella boccia di vetro non uscirà altro che il mio nome.

Prim viene a mettersi accanto a me, e ha di nuovo lo sguardo puntato da qualche parte tra i suoi piedi. Le circondo le spalle con un braccio e non accenna un solo gesto, ma trema visibilmente. 

Punto lo sguardo sul palco, allestito come ogni anno per l’occasione, decisa a far si che le telecamere mi ritraggano senza la più vaga traccia di paura addosso, e scopro che non devo fingere.
Da qualche parte, il mio cervello deve aver registrato l’idea che non ho più una vita futura cui pensare, e a prevalere è la stessa sensazione che mi prese il giorno in cui Snow mi disse che i miei sforzi per placare la folla erano stati vani, l’idea di poter rischiare, di esser libera di mettermi totalmente in gioco, perché non c’è più nulla da fare.

Per un attimo, mi volto verso lo spazio dei ragazzi, incrociando lo sguardo di Peeta, che si trova sulla mia stessa linea. Mi sorride, e so perché lo fa: è convinto che resterò in vita, qualunque cosa accada. Non sa quanto sia lontano dalla verità, perché non ho alcuna intenzione di vivere a sue spese.
Cerco di non pensare a un possibile voltafaccia di Haymitch, che intercetta lo sguardo di Peeta, ma non si volta verso di me.

Si sente il ronzio di un microfono messo in funzione.
Mi volto di nuovo e vedo che Effie ha occupato il suo posto sul palco.

- Benvenuti, benvenuti, benvenuti! Oggi scegliamo un giovane uomo e una giovane donna, che avranno l’onore di partecipare ai settantacinquesimi Hunger Games! -.

Saltella e cinguetta come suo solito, nella sua mise dorata, volteggiando sui tacchi altissimi come se fossero un’estensione dei suoi piedi, eppure c’è qualcosa che non quadra: è la sua voce, squillante al punto giusto eppure incerta.
È il sorriso smagliante che non coinvolge gli occhi, il leggero tremore che le assale le mani quando afferra il bigliettino dalla boccia delle ragazze, dopo aver proclamato –Prima le signore!– e cerca di srotolarlo con decisione, senza successo.

È la sua voce, che fuoriesce con più fatica quando pronuncia il mio nome.

- Katniss Everdeen. –

Per un attimo, torno indietro di un anno, ed Effie indossa un tailleur verde primavera, sfoggiando una parrucca rosa confetto: sventola con grazia la mano nella boccia, sorridendo raggiante, estrae il biglietto e legge con inappropriato brio il nome di mia sorella. Quando poi tocca a me salire, mi tende la mano dicendomi – Su, coraggio  cara! – come se il mio essere restia fosse dovuto solo alla vergogna.

Ma quella Effie non mi conosceva. Questa invece, che non mi tende nessuna mano, preferendo invece osservarmi attenta mentre salgo i gradini che portano al palco, mi conosce bene, e forse, incredibilmente, si è affezionata a me e Peeta.
Forse perché noi rappresentiamo il suo primo successo in anni di Hunger Games, non so dirlo con precisione, ma sento di esser diventata qualcosa per lei.

Mi pongo alla sua destra, mentre lei annuncia la scelta del tributo maschile.

La vedo soffermarsi per un attimo a guardare Haymitch, o Peeta, o entrambi, nello stesso modo in cui ha guardato me, poi si dirige frettolosamente verso la boccia contenente i nomi dei ragazzi, ed estrae il biglietto.

Se dovesse uscire Haymitch, Peeta occuperebbe il suo posto e nessuno potrebbe impedirglielo. Se invece fosse Peeta a esser sorteggiato, sarebbe tutto nelle mani del mio Mentore. Il mio cuore sta battendo all’impazzata.

Effie srotola il biglietto con sorprendente lentezza, con lo sguardo di chi non vuole sapere cosa la aspetta: quando il minuscolo pezzetto di carta è finalmente aperto davanti ai suoi occhi, questi si spalancano dolorosamente e per un attimo Effie mi guarda.
Prende un respiro profondo, per quanto il corsetto certamente strettissimo non le consenta di prendere chissà quanto ossigeno, e ...

- Peeta Mellark –

Il tempo si ferma.

Effie guarda alternativamente me e Peeta, che invece fissa me e Haymitch, che dal canto suo è concentrato su di un punto non ben precisato davanti a se.

Tutti si scostano da Peeta, tranne Haymitch, che finalmente si decide ad alzare gli occhi su di lui.
Nel silenzio pesante della piazza, riesco a sentire, anche se a fatica, quel che si dicono.

- Fammi passare. – dice Peeta, con voce insolitamente dura.

Lui scuote la testa e sorride. Per un attimo guarda me, e nei suoi occhi vedo una sofferenza incredibile, anche se non so di preciso a cosa sia dovuta, poi il suo sguardo  torna a fissarsi su Peeta.

- Sarai un ottimo mentore. – lo sento dire, poi si volge verso Effie e grida – Mi offro volontario! – per poi avviarsi verso il palco.

Vedo Peeta stringere i pugni e imprecare, impotente di fronte alla scelta del nostro Mentore. Anzi, di quello che era il nostro mentore, perché il testimone ora è passato proprio a lui.

Io e Haymitch ci guardiamo, non appena lui raggiunge il palco, e senza che Effie lo dica ci stringiamo la mano con gli occhi fissi l’una nell’altro. Un accordo ci unisce.
Un accordo che Peeta non ci perdonerà mai, ma che sappiamo entrambi essere quello giusto.
Quello che accade dopo è caos puro. Entriamo nel palazzo di giustizia e una scorta massiccia di Pacificatori ci accompagna immediatamente all’uscita posteriore, dove ci aspettano delle macchine.
Veniamo ficcati quasi a forza dentro due auto: io e Haymitch, Effie e Peeta, e veniamo portati via. Niente saluti.

Per un attimo provo sollievo al pensiero di esser riuscita a dire a Prim quanto dovevo, ma poi mi ricordo di Gale, e lo stomaco si stringe in una morsa quasi letale. 

C’erano cose che dovevo dirgli, prima di morire. Ormai non posso che sperare che le comprenda comunque, alla fine di tutto, e che sappia perdonarmi, almeno quando sarò morta, per non aver saputo amarlo come avrebbe meritato.

Solo quando saliamo in treno, riesco a ricordarmi di avere qualcosa da dire a Haymitch.

È ora di pranzo, quindi ci dirigiamo subito nella carrozza ristorante.

L’aria è tesa come una corda di violino, fin quando Peeta, come sempre, non si decide a intavolare una conversazione qualunque; nonostante nella sua voce sia palese l’ostilità per come è andata la mietitura.
Lui ed Effie chiacchierano degli ultimi pettegolezzi di Capitol.

Per un attimo mi chiedo come faccia a sapere sempre cosa dire anche in momenti simili, poi rivolgo la mia attenzione a Haymitch, che sta adocchiando con desiderio una bottiglia di Brandy poco lontano.
Decido di distrarlo, non deve assolutamente bere, non ora che gli tocca tornare nell’arena.

- Grazie – sussurro, ma ho sbagliato il momento, perché si è creato un improvviso silenzio e Peeta ha sentito il mio ringraziamento. 

– Che cosa vuoi dire Katniss? – la sua voce ha assunto una durezza a dir poco letale per il mio cuore, abituato invece alle sue attenzioni più dolci, alle sue continue dimostrazioni d’amore nei miei confronti.

Lo guardo per un secondo senza parlare, indecisa su cosa dirgli, ma poi è Haymitch a spezzare i miei dubbi. – Katniss mi ha chiesto di offrirmi volontario, qualora tu fossi stato scelto, ma lo avrei fatto comunque, anche se non me l’avesse chiesto. –

Peeta lo guarda incredulo. – Avevamo un patto Haymitch, accidenti a te! – esclama.
– Avevamo detto che avremmo salvato Katniss, anche stavolta. Sai che non posso ... – torna a rivolgersi a me.

–Cosa ti è saltato in mente! Che cosa è saltato in mente a tutt’e due! – sbatte un pugno sul prezioso tavolo in mogano, e per un attimo mi pare così strano che Effie non sollevi alcuna protesta da dimenticare tutto il resto, ma lei ci osserva in silenzio, stropicciando il tovagliolo con le mani in un gesto di evidente nervosismo.

Il bicchiere di Haymitch spicca un salto e si rovescia, infradiciando la tovaglia.

Peeta lascia il tavolo e la carrozza, sbattendo la porta scorrevole dietro di se.
Il botto mi fa sussultare.

- Sai di avergli fatto del male, vero? – mormora Haymitch. Quando mi volto a guardarlo desidero con tutte le mie forze di poterlo bruciare vivo solo con lo sguardo.

– Lo so, ma cosa avrei dovuto fare, secondo te?  Lasciare che tornasse? Non lo volevi nemmeno tu, quindi alla fine sarebbe successo comunque. Io posso anche morire, ma lui no. È importante che viva per la causa. Io sarò più utile da morta ... –

Haymitch sbuffa, interrompendo il filo del mio discorso e facendomi innervosire ancora di più.

– E adesso cosa c’è?– sbotto, buttando la forchetta nel piatto con malagrazia, suscitando un ghigno d’indignazione di Effie.

- Niente, mi stupisce che tu alla fine abbia capito – commenta, amaro – Lui è il migliore di tutti noi. – dice.

Annuisco, perché sono perfettamente d’accordo con lui: è vero.
Di noi tre Peeta è l’unico che meriti davvero di vivere.  

– Lo so.  Per questo... – mi blocco, incerta io stessa su cosa stessi per dire.
Haymitch sorride enigmatico.

– Sì, esatto. – dice, ed io non capisco ma lui sembra proprio non volermi spiegare e so che sarebbe inutile chiedere.
 
***************
 
 
*L’autrice* Benvenuti, benvenuti, benvenuti! (cit.)  Innanzitutto, GRAZIE a tutti coloro che hanno deciso di leggere questo capitolo. GRAZIE in anticipo a chi deciderà di seguire la storia, e GRAZIE di cuore anche a chi recensirà. GRAZIE a tutti, di tutto.  Spero di soddisfare le vostre aspettative, con questo e con i prossimi capitoli, fino alla fine della storia. Le fanfiction, per me, sono molto più importanti di quanto immaginiate e lo stesso vale per voi lettori. :)
 
Possa la fortuna sempre essere a vostro favore ;)
 
Una rosa di Versailles
   
 
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