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Autore: BakaPanda    18/09/2013    1 recensioni
Adrian Semyonov, quindicenne russo, viene rinchiuso in un istituto dove i suoi genitori sperano che venga curato dalla sua omosessualità.Dopo un anno di violenze sessuali, fisiche e psicologiche, il ragazzo riesce a scappare e a farsi una nuova vita; non una vita lussuosa, ma degna di un essere umano.
"Il rosso è il colore del sangue, ma è anche il primo colore dell'arcobaleno."
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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|Prima di cominciare a leggere, vorrei specificare una cosa.
Il racconto si basa su vicende accadute realmente, ma in Ecuador, e tutto ciò che si può trovare su Internet parla solo di ragazze omosessuali e non di ragazzi.
Volendo però affrontare l’argomento “Putin”, ho deciso di usare un ragazzo russo e di ambientare il tutto a Mosca, usando la stessa linea guida.
Tutte le “terapie”, accennate e\o descritte, sono estratte dalla testimonianza di una ragazza che è riuscita a fuggire da uno di questi centri e pertanto sono reali.
Detto ciò, buona lettura. ♥
-BakaPanda.||

20 agosto 2011, ore 18:00.
Mosca.

Adrian è seduto sul “letto” della sua stanza, nel dormitorio del centro. E’ in biancheria intima, un trattamento esclusivo in un posto del genere, ma è comunque legato per la caviglia. In realtà, non è neanche su un letto, ma su un materasso sporco e ammuffito. Quella stanza puzza di umido ma ormai ci ha fatto l’abitudine, quindi non è un problema. Vede un ragno correre con le sue zampine lungo la parete, fino ad arrivare all’angolo tra le pareti e il soffitto, dove vi è una grande ragnatela e alcuni insetti intrappolati in questa. Adrian chiude gli occhi e fa uscire l’aria dai polmoni, mentre tutto il corpo trema e non sa neanche il perché.
Non sa che ore sono, sa che alle 18:30 i suoi genitori verranno a prenderlo per riportarlo a casa, ma non sa come mai. Prima di partire li ha sentiti parlare e molto probabilmente vogliono vedere se c’è qualche “miglioramento”, fargli fare una seduta con lo psicologo e controllare i “progressi”.
La porta della camera si apre e lui alza gli occhi chiari, senza muoversi. Resta lì, a gambe incrociate, curvo su sé stesso con i capelli ben oltre la fronte, sporchi e spettinati. Non gli è concesso lavarsi, lì dentro.
Un’inserviente (o chiunque sia) gli posa un paio di pantaloni e una maglietta sul materasso, una specie di divisa (la stessa che gli danno quando si muove per il centro) e gli dice che deve lavarsi. Lui alza il viso e vede una donna sulla trentina, forse un po’ più vecchia, con i capelli castano chiaro, che si volta e se ne va.
“Hitler ha usato la stessa tecnica”, mormora tra sé e sé, prima di vestirsi. Tira su con il naso e lo strofina, indossando gli indumenti. Quando esce, la donna lo aspetta accanto allo stipite e lo accompagna verso le docce, in un silenzio tanto brutto quanto scontato.
Quando è dentro, è costretto a lavarsi davanti a lei, che gli fornisce tutto ciò che serve per farlo tornare in condizioni… Normali. Sei mesi senza lavarsi, sei mesi passati tra digiuni durati un’eternità e piccoli pasti occasionali e quei cazzo di bastardi pensano di poterlo far tornare in condizioni “normali” con una fottuta doccia.
Una volta finito, viene accompagnato all’entrata, dove si siede per aspettare i suoi genitori. Non sono tutti e due, viene solo il padre e lo vede. Lo vede varcare la soglia in cerca di suo figlio, lo vede irrigidirsi quando nota le sue condizioni e lo vede scorrere il corpo magro e sciupato del ragazzo con gli occhi chiari, gli stessi occhi che ha anche Adrian, solo che i suoi sono più freddi.
Non sa cosa deve fare poi, ma quell’uscita era prevista, poiché a scopo “terapeutico”. In realtà c’è uno psicologo anche nel centro ma non sa perché sua madre e suo padre hanno deciso così.
In men che non si dica lui è in macchina, e sta viaggiando verso casa.
“Domani alle 8:00 hai una seduta a domicilio con il Dr. Petrov.”
Adrian non risponde, a quell’affermazione. Se voleva sentire la sua opinione gli avrebbe fatto una domanda, no? Eppure, quell’intonazione interrogativa, caratteristica tipica delle domande, il quasi sedicenne non l’ha sentita, quindi non dirà nulla. Le iridi verdi\celesti seguono il paesaggio che scorre veloce, neanche un paesaggio particolarmente bello, ma solo qualche palazzo.
Stanno tornando a Tula.

Due ore dopo, eccoli a casa.
Adrian ha dormito parte del viaggio, rannicchiato sul sedile anteriore dell’auto puzzolente di suo padre, con la testa contro il finestrino. Quando tornano, si sveglia di soprassalto per colpa del rumore che fa la portiera del guidatore, chiusa con violenza da quell’energumeno che è venuto a riprenderlo.
Viene fatto scendere, sono le otto e trenta di sera e si cena.
Ovviamente, nessun pasto sostanzioso, ma una cena normale, quasi leggera. Carne di tacchino e insalata, accompagnato da pane e acqua. Non riesce a mangiare tutto, perché non è abituato. Ingerisce solo un pezzo di carne e un paio di foglie d’insalata, poi ritorna verso la propria camera da letto.
Non è cambiata molto. Le sue cose sono per la maggior parte lì, tranne i libri, chiusi in uno scatolone accanto all’armadio. A quanto pare sua madre ha continuato a pulire anche lì dentro, viste le condizioni di tutto il mobilio… Una cosa alla quale il ragazzo non è più abituato, insieme al suono della voce di sua madre. E’ stato da brivido quando l’ha sentita, a tavola e ha dovuto trattenersi per non scoppiare a piangere lì davanti. E’ così brutto, quando tutta la tua vita viene deviata solo perché hai gusti diversi.
Insomma, alla maggior parte delle persone piace la Nutella ma c’è anche chi la odia, eppure nessuno li ha mai costretti a mangiarla per farli “diventare normali”.
Ma questi sono discorsi che Adrian è destinato a non capire mai, sono cose che solo i razzisti riescono a concepire e lui non è uno di quelli. Si sta guardando in giro mentre pensa a tutto ciò e i suoi occhi cadono sul cellulare.
Un Nokia, il suo vecchio Nokia, sopra alla scatola con il caricabatterie accanto. Forse volevano venderlo? Non lo sa, ma si avvicina e prova ad accenderlo: è scarico. Sua madre l’ha lasciato scaricare e una volta ritrovato lo ha messo via, Adrian quindi lo prende e lo mette in carica. Infila prima il caricatore nella presa sul muro e poi lo collega al dispositivo, del quale subito si accende lo schermo. Un sorrisetto gli si disegna sul viso e aspetta che la schermata iniziale scompaia per vedere se qualcuno lo ha cercato. 62 messaggi, più della metà risalenti al primo mese, qualcuno al secondo e altri più recenti. Sono stati in cinque a cercarlo, i suoi migliori amici. Il gruppo con cui usciva sempre, e tutti gli SMS sono uguali.
“Dove sei”, “perché non rispondi”, “cosa è successo”. A quanto pare, Ivan non ha detto a nessuno che suo figlio è stato mandato nella casa degli orrori, non ha detto a nessuno che suo figlio è un frocio di merda. Questo frocio di merda, però, sta avendo una scarica d’adrenalina, di coraggio, e ha appena deciso che non si farà mettere i piedi in testa di nuovo. Ha, probabilmente, una settimana di tempo per scappare, prima di tornare in quelle condizioni. Decide di scrivere a Martyn, il suo compagno più fedele e sentire cos’ha da dire.
Si incontreranno la notte stessa e Adrian scapperà.
Dopo aver inviato l’ultimo SMS imposta la sveglia all’una e quarantacinque e abbassa un po’ il volume, per non farlo sentire ai suoi genitori. Sente i passi di suo padre e posa il telefono a terra, mettendosi sul letto a gambe incrociate, come se non stesse facendo nulla. Quando entra il più grande,gli dice di mettersi a letto perché l’indomani dovrà alzarsi presto e gli porge il suo pigiama. Anche quello hanno conservato. Il sedicenne lo prende e se lo infila, non facendo più caso ai segni che ha sulle gambe e sul resto del corpo, sdraiandosi subito dopo tra le lenzuola.

Resta a fissare il soffitto per tutta la notte, senza chiudere occhio tranne che per un’oretta e mezzo. Verso l’una di notte si alza, quindi e comincia a preparare la borsa. Infila dentro un paio di pantaloni, biancheria intima, magliette, tanta roba per un borsone da calcio. In una sacca di stoffa, quelle che si usano per portare le scarpe da ginnastica, infila il caricabatterie del suo telefono (dopo averlo staccato da questo) e la posa sul materasso. Dopo averla posata apre l’armadio e vi si infila dentro, aprendo il cassetto dove tiene la biancheria intima e scavando tra tutti i capi, fino a trovare un doppio fondo. Lì ha del denaro, soldi che risparmiava per incontrarsi con Oscar, magari con una scusa. Purtroppo non lo sente più, chissà che fine ha fatto… Magari un giorno riuscirà a parlargli ancora, ma per ora è meglio pensare al presente. Infila tutto là dentro ed è già passata mezz’ora. Sbuffa e, facendo attenzione a non far rumore, scende giù in cucina. Apre il portapane e ne prende un po’, portandoselo su, in camera da letto.
Dopo aver finito di preparare tutto aspetta che il ragazzo arrivi e quando lo vede nel giardino di casa sua si sporge sul davanzale. Lo chiama per nome, bisbigliando e lui se ne accorge; a quel punto gli fa segno di stare in silenzio e si infila le scarpe.
Prende la borsa e se la mette su una spalla, tenendo la sacca con l’altra mano, mentre esce nel corridoio. Si mette a gattoni sul pavimento, percorrendo il corridoio fino ai gradini, che scende accovacciato su sé stesso. L’ultimo, però, è infame e Adrian inciampa, cadendo per terra e facendo così rumore.
Gli viene quasi un infarto quando sente la porta della camera aprirsi, dopo che si è nascosto dietro la poltrona, proprio nell’angolo tra il muro e le scale.
Osserva la madre in camicia da notte che apre il frigorifero per prendere un bicchiere d’acqua e se ne va, dopo aver bevuto, mentre si scioglie i capelli e li lega di nuovo.
Ecco, deve stare più attento. Riesce ad uscire solo per miracolo, e quando apre la porta da un’ultima occhiata a quella casa che non vedrà mai più, con una leggera malinconia.
Eppure, una volta fuori, si sente più libero. Il pensiero di dire addio allo psicologo, alle torture, al sangue e a tutto il resto lo fa sentire… Strano. E altrettanto strano è incrociare lo sguardo del suo amico, che lo vede magro e con i capelli folti invece che corti; nota lo stupore nei suoi occhi quando quello si accorge che Adrian è cambiato.
“Ma che diamine ti è successo?”, chiede Martyn, bisbigliando nel buio. Non può dirgli nulla… Non subito, deve sapere come potrebbe reagire lui.
“Ah… Te lo spiego dopo.”
Non dice altro e, tutto rannicchiato su sé stesso, corre verso la fine della strada. Martyn lo segue, gli posa una mano sulla spalla e lui sobbalza, allontanandosi. Tutti i contatti fisici che ha ricevuto fino ad ora sono sempre stati brutti e… Fa strano, venire toccati senza secondi fini.
“Ho bisogno di parlarti.”

Non parlano molto.
Adrian comincia con il chiedergli velatamente cosa ne pensa degli omosessuali, giusto per farsi un’idea sulla sua reazione e a quanto pare dovrà stare zitto. L’amico sembra infastidito da quelle domande al tal punto da diventare irritabile, quindi il più piccolo non chiarisce neanche i suoi dubbi, su quel “repentino” cambiamento fisico.
Restano lì per qualche minuto, forse un’ora o due e alla fine Martyn deve andare. Si salutano come se nulla fosse, anche se non si vedranno mai più. Che brutta storia.
Dopo essere rimasto solo su una panchina del parco vicino casa sua, si sente ancora perso. E’ come se il freddo della sera diventasse più pungente e lui, con addosso abiti leggeri, si rannicchia sul legno sporco e scheggiato per passare la notte.
Solo che non riesce a dormire.
Chi riuscirebbe a dormire in condizioni simili? Il pensiero di non aver dato un vero e proprio addio a tutti i suoi amici, il pensiero di avere due genitori che non lo amano, che non lo accettano per quello che è; il pensiero di aver passato gli ultimi sei mesi in condizioni pietose e che probabilmente si ritroverà quasi peggio.
Si ritroverà ben presto senza cibo, senza una casa, senza abiti e senza nessuno su cui contare. L’unica compagnia che ha in quel momento sono le stelle. Le stelle e la luna, che nonostante le luci artificiali fuori al cancello del parco si vedono quasi nitidamente. Le conta per un po’, poi ne vede una sfrecciare attraverso la volta celeste. Ne ha viste solo due, cadenti, in vita sua e non ha mai espresso un desiderio. Ora invece chiude gli occhi e pensa, ripete più volte la stessa frase: “Vorrei ritrovare il mio arcobaleno”.
   
 
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