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Autore: Nitrogen    19/09/2013    8 recensioni
Chiesi di restare per vedere l’incendio nascere davanti ai miei occhi, per assistere al fuoco bruciare e rendere tutto cenere.
«Yan, siamo ancora in tempo per salvarlo se ci hai ripensato.»
«No, Maika, va bene così.»
«Sei sicuro?»
«Sì. È questo ciò che voglio.»
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Griefers.'
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«Io non volevo uccidere, ma è l'unica cosa che mi hanno insegnato ed è l'unica cosa che faccio.»
─Blaze/Yan


 
 

~Fire.


 
 
Il calore del fuoco mi bruciava gli occhi, ma non mi allontanai dalla casa che quella notte stava per diventare nient’altro che un cumulo indistinto di ceneri e macerie.
Osservavo la scena senza né entusiasmo né terrore, chiedendomi quale sarebbe stata l’espressione di chi era all’interno una volta compreso che nessuno lo avrebbe salvato da quella che i giornali classificarono come una semplice disgrazia.
Mi chiedevo se i miei procreatori, morti allo stesso modo non molto tempo prima, avessero capito che era giunta la loro ora o se nel loro caso fosse stata un’esplosione così improvvisa da averli fatti morire con il sorriso sulle labbra.
Tutti erano convinti che il destino non potesse essere tanto crudele da farmi assistere allo stesso spettacolo una seconda volta, eppure io ero lì, con i miei miseri undici anni sulle spalle a domandarmi perché il fuoco fosse la fine e l’inizio di ogni cosa mi riguardasse. Sia chiaro, non lo dico con tristezza nel cuore o qualunque altro sentimento particolare: trovavo solo bizzarra l’importanza che il fuoco aveva avuto nella mia misera esistenza fino ad allora.
Quando i miei genitori morirono ero troppo piccolo per rendermi davvero conto di cosa fosse accaduto, e di fatto mi limitai solo ad ascoltare ciò che una donna di cui non ricordo nemmeno il volto mi disse dopo qualche settimana dall’incidente:
“Per un po’ dovrai stare con degli amici di mamma e papà, ma vedrai che starai bene con loro.”
Le persone da cui mi portarono non le avevo mai viste prima. Non erano né amici né conoscenti dei miei genitori, erano solo una delle tante giovani coppie che passando per l’orfanotrofio provarono pena per me.
Avevano una casa bellissima in una zona isolata e quasi fuori città, completamente circondata da campi coltivati e abbastanza lontana dagli altri vicini da non doversi preoccupare di tenere il volume del televisore basso di notte.
Non c’era nulla da quelle parti, eppure a me piaceva molto stare lì, soprattutto perché ero particolarmente legato alle loro due gemelle di qualche anno più grandi di me, Kayleen e Kimberly: avendo solo sei anni quando mi adottarono, le mie giornate le passavo tra casa e scuola, e loro due - che non mi avevano mai visto come un estraneo - amavano giocare con me o semplicemente stare in mia compagnia. Eravamo inseparabili e ci volevamo bene, forse anche troppo.
Loro padre James, ma che io chiamavo “zio”, non amava particolarmente questo mio attaccamento per le due sorelle, e nemmeno quell’affetto materno e forse un po’ ossessivo che sua moglie Lauren provava per me.
Inizialmente anche lui sembrava contento della mia presenza nella sua casa, ma con il tempo era diventato sempre più ostile nei miei confronti, fino a sfogarsi in modi poco ortodossi contro di me quando Lauren era al mercato o da qualche amica.
Mi faceva ruzzolare giù dalle scale della cantina e chiudeva la porta a chiave con solo noi due all’interno, poi mi legava a una sedia e mi torturava fino a quando non mi sentiva urlare o non lo imploravo di fermarsi: aveva iniziato con semplici calci e pugni, insulti di ogni genere che però avevo imparato ad ignorare quasi subito, ma successivamente decise che solo in quel modo non bastava perché io avevo smesso di reagire e non gli davo più alcuna soddisfazione.
Un giorno uscivo con qualche dito rotto, un altro con tagli lungo tutta la schiena, altri ancora con bruciature lungo braccia o gambe, eppure a me non importava: erano l’unica famiglia che avevo, avrei accettato qualunque violenza pur di restare in quella casa.
Io avrei potuto resistere in quel modo per il resto della mia vita, ma non potevo permettere che anche Lauren, Kimberly e Keyleen vivessero quell’inferno. James era diventato incredibilmente violento, e ormai non si limitava più a sfogare la sua rabbia solo contro di me.
Io ero troppo piccolo per poter fare qualcosa o per essere ascoltato, inoltre loro tre non avevano alcuna intenzione di andare contro l’uomo di casa. E con il passare degli anni il mio unico desiderio era diventato sparire dalle loro vite per sempre, ma non credevo ci sarei riuscito davvero.
Torturato per l’ennesima volta il giorno del mio nono compleanno, corsi fuori in cerca di un po’ di pace lontano da quell’uomo che non smetteva di portare malessere in casa. Correvo per quella landa di campi sconfinata senza una meta ben definita nella testa, e non mi sarei fermato se non fossi improvvisamente inciampato nel bel mezzo di un campo di grano.
C’era qualcosa di strano, di totalmente diverso dal previsto su quel terreno.
L’aria solitamente fresca e pulita era satura del fetido odore del sangue di uno sconosciuto, lo stesso che in quell’istante aveva sporcato più di quanto già non lo fosse la mia maglia. Ero praticamente caduto su una piccola macchia di sangue, dalla quale partiva una scia che sembrava diretta verso il casolare una decina di metri più avanti.
Avete presente quella vocina che nei casi più disparati si fa sentire per dirvi cosa sarebbe giusto fare in un determinato momento? Io, non ascoltandola, mi ritrovai davanti un uomo seduto sul pavimento che tentava con una pinza chirurgica di togliere il proiettile che gli aveva perforato la gamba destra.
Non ero spaventato o sconvolto, osservavo la scena con un misto di interesse e stupore che non avevo mai provato prima.
Quando l’uomo alzò la testa e mi vide, poi, non mi cacciò via come credevo avrebbe fatto, ma mi fece cenno di avvicinarmi e io eseguii l’ordine senza farmelo ripetere.
«Dovrebbe andare all’ospedale, signore.»
«Mi piacerebbe tanto andarci, ma purtroppo non posso.» Con una smorfia di dolore sul volto, rimosse il proiettile dalla gamba e gettò l’arnese a terra. Aveva l’affanno e probabilmente non era solo stato sparato per come erano ridotti i suoi vestiti. «Sai, non sono ben voluto da queste parti e sarebbe una pessima idea andare all’ospedale. Finirei in carcere o qualcosa del genere dopo essere stato messo a posto.»
Era la prima volta che lo vedevo e per dire quelle cose non doveva essere affatto una brava persona. Qualcuno, al mio posto, sarebbe già scappato via urlando, ma io di quell’uomo non avevo paura, non credevo mi avrebbe fatto alcun male; istintivamente, sentivo che potevo fidarmi di lui e per fortuna non ero in errore.
«Cosa ha fatto di sbagliato?»
Lui inspirò profondamente. «Come ti chiami, ragazzino?»
«Yan.»
«E sai mantenerlo un segreto?»
«Certo!»
«Allora facciamo un patto.», propose sorridendo, «Se tu mi aiuti a ricucire la gamba, io ti dico cosa ho fatto di tanto terribile.»
Abbassai lo sguardo sull’arto ferito: non avevo mai fatto nulla del genere, ma la curiosità era tanta e io ero solo un bambino. Accettai dopo qualche istante di esitazione e lui ne parve entusiasta.
Pensai fosse un uomo molto forte perché mentre ricucivo la ferita sotto le sue indicazioni, lui si limitava a stringere i denti e ad emettere qualche suono appena udibile, quando poteva cercava anche di sorridere per non farmi preoccupare.
«Niente male, Yan. Hai un futuro come salvatore di vite.»
Posai gli arnesi nella valigetta del pronto soccorso dopo averli ripuliti e ricambiai il suo complimento con un sorriso. Per quanto io fossi stato bravo, non bastava quel poco per farlo stare meglio: era visibilmente stanco e allo stremo delle forze, avrei dovuto aiutarlo ancora se volevo rimetterlo in sesto.
«Lei non è di qua, vero?»
Scosse il capo e mi fece cenno di sedermi al suo fianco. «Sono qui per caso e per poco. Sto scappando dalla polizia perché ho… fatto del male a delle persone.»
«Le hai uccise?»
Notai l’indecisione sul se darmi conferma o meno, la sorpresa nel suo volto nel vedermi impassibile dopo aver formulato quella domanda.
«Non sei spaventato?»
«Tu mi faresti del male?»
«Solo se me ne daresti un motivo e non fossi ridotto così male già di tuo.», rispose dopo averci riflettuto qualche istante. Mi prese un braccio e lo guardò attentamente, passando le dita sui tagli freschi e le cicatrici ormai vecchie che giorno dopo giorno si susseguivano sul mio corpo e continuò a parlarmi: «Sembra che qualcuno ce l’abbia a morte con te, e suppongo anche ingiustamente. Sono i tuoi genitori a farti questo?»
«I miei genitori sono morti e le persone con cui vivo adesso non sono miei parenti… Zio James…»
«Ah, zio James.», mi interruppe come se avesse appena capito di chi stessi parlando. «E dimmi, zio James fa questo anche a qualcun altro? Che so, sua moglie, i suoi figli…»
Mi limitai ad annuire senza aggiungere altro. La sua mano destra ancora incrostata di sangue continuava a scivolare sui lembi di pelle visibili dalla mia maglietta, soffermandosi sui polsi segnati da righe violacee laddove era passata una corda o sulle bruciature che non sarebbero mai andate via.
«Vorresti che tutto questo finisse?»
«Le mie sorelle e mia zia non devono stare male.», risposi. «Loro dovrebbero essere sempre felici, come tutte le altre persone.»
«E tu? Tu non vuoi essere felice?»
Restai in silenzio, con il suo sguardo fisso su di me. Non avevo mai parlato a qualcuno di quello che pensavo sulla vita a cui ero stato destinato e faticavo a far uscire i pensieri che in tutti quegli anni avevo imparato a tenere per me.
«Se io non fossi mai andato da loro, adesso sarebbero felici.»
«Sei un bravo ragazzo, Yan.», disse tutto d’un tratto dopo avermi accarezzato il viso. «E devi sapere che ai bravi ragazzi è sempre concesso realizzare i propri desideri. Basta solo aspettare un po’, credimi.»
In quel momento non sapevo esattamente cosa volesse dire con quelle parole e semplicemente sorrisi di rimando alzandomi. L’unica cosa di cui ero certo è che parlare di come stavo, anche se poco, mi fece sentire meglio perché lui sembrava davvero capire come mi sentissi.
Dovevo in qualche modo sdebitarmi e l’unica cosa che mi venne in mente fu correre a casa e entrarvi senza che nessuno se ne accorgesse, prendere una coperta, un cuscino e dei vestiti rubati a mio zio per permettergli di passare la notte in un modo abbastanza piacevole.
Ma quando tornai la mattina dopo, lui era sparito nel nulla. Le coperte erano lì e tutto quel che mi aveva lasciato era un bracciale in oro di discreto valore, ancora macchiato di rosso come i suoi vestiti lasciati sul pavimento.
Non sapevo se l’avesse lasciato lì per caso o come segno di gratitudine, ma nelle settimane a venire non feci altro che pensare a lui e alle sue parole che somigliavano sempre più a una menzogna qualunque. Mi sentivo tradito e abbandonato da quello sconosciuto, l’ho odiato per tutto il tempo che rimasi in quella casa ad essere maltrattato insieme alle mie sorelle da James.
Ma una notte come tante mi svegliai di soprassalto: nessun rumore, niente di visibile nella mia camera, eppure ero inquieto, avevo come l’impressione di essere osservato. E infatti pochi istanti dopo aver varcato la soglia perché diretto al bagno, qualcuno alle mie spalle mise una mano sulla mia bocca e mi bloccò gli arti.
«Yan, calmo… Ti ricordi di me, vero?»
Quelle poche parole sussurrate sul mio collo placarono la paura di quel momento, e lasciai che quella morsa stretta e dolorante diventasse un abbraccio che mai avrei più dimenticato. In quel momento avrei voluto condividere l’idea di mostro che il mondo aveva di lui, ma sapere che era vivo mi aveva reso inspiegabilmente felice.
«Mi dispiace essere andato via quel giorno, ragazzino, ma non avevo altra scelta. La polizia avrebbe potuto trovarmi e non volevo metterti nei guai anche con loro.» Sciolse l’abbraccio e mi prese per mano, tirandomi a passo svelto dritto verso il piano inferiore, «Dimmi, hai fatto il bravo bambino mentre io non c’ero?»
«Sì!»
«E per questo motivo, adesso potrai realizzare qualche tuo desiderio.»
Lui sorrise sornione ed aprì la porta della cucina con fare teatrale. Quello che vidi al suo interno? Semplicemente una donna dai capelli rosso fuoco prendere a calci mio zio James, legato a una sedia con del sangue a rigargli il volto ormai violaceo.
Sul pavimento erano sparse corde, pistole, pugnali e non so quanta altra roba potessero avere le altre tre persone che in quel momento erano nella stanza e che, come l’uomo alle mie spalle e la donna appena vista, non conoscevo. La scena a cui stavo assistendo aveva dell’assurdo per me, e probabilmente anche per Lauren e le due gemelle rannicchiate in un angolo della stanza.
La donna assestò un ultimo calcio a James e si avvicinò, abbassandosi alla mia altezza per osservarmi. «È lui il bambino?»
«NON TI AVVICINARE A YAN, DISGRAZIATA!»
L’uomo alle mie spalle ignorò le urla di Lauren e rispose: «Sì. Che te ne pare?»
Lei iniziò a contemplarmi, avvicinandosi sempre di più al mio viso e facendolo ruotare a destra e a sinistra continuamente. Non capivo cosa stesse accadendo, ma se lui conosceva quella donna non c’era bisogno di preoccuparsi.
«Io sono Alice, una vecchia amica di Maika.», disse lei sorridente e indicandomi lo sconosciuto, «Per questa sera sarò la tua fata madrina, dunque chiedimi ciò che vuoi e io realizzerò ogni tuo desiderio. Se per esempio vuoi che venga dato un pugno a quell’uomo…» Alzò una mano e un ragazzo di circa diciotto anni, il più giovane dei tre, colpì James in pieno volto, dritto sulla mascella. «Vedi? Rev lo farà, senza nessun “se” e nessun “ma”!»
«Alice, ti ho già detto di non esagerare…»
«Ancora.»
Tutti nella stanza mi guardarono come se avessi detto un’eresia ma io non scherzavo. Dopo aver visto la violenza con cui quel ragazzo l'aveva colpito, desideravo che la persona che più avevo imparato ad odiare soffrisse almeno in parte quanto avevamo sofferto io, Lauren e le sue figlie.
«Ah! Io e questo pargolo andremo molto d'accordo, Maika!»
E Alice ordinò a Rev di torturare ancora James, ogni volta con più forza e divertimento di prima. Perché glielo si leggeva in volto che amava picchiare le persone e ridere della loro sofferenza, e forse lo si leggeva anche sulla mia.
Lauren, Kayleen e Kimberly osservarono la scena con un misto di ribrezzo e terrore che però a me non interessava: finalmente James stava pagando le sue colpe, finalmente stavo avendo la mia vendetta... Perché mi sarei dovuto preoccupare di loro?
Rev parve continuare in eterno, smise solo quando Kimberly trovò la forza di urlare. I miei occhi incontrarono i suoi per qualche frazione di secondo e le chiesi perché mai avesse avuto l'esigenza di farlo smettere.
Con le lacrime agli occhi e la voce tremante, lei rispose solo che era sbagliato.
Con quelle poche parole voleva dirmi che la violenza era sbagliata, che qualunque cosa fosse collegata ad essa, compresa la sete di vendetta che per la prima volta potevo appagare, era totalmente sbagliata, anche se più che motivata. Io non la capivo, quelle due parole per me erano totalmente prive di senso.
«Maika…»
Lui interruppe la mia richiesta sul nascere, come se sapesse già a cosa stessi pensando. «Portatele via, dove non c’è bisogno che ve lo dica.»
«Aspetta…»
«Tranquillo Yan. Tutto andrà nel verso giusto da oggi in poi. Concentrati su James, adesso.»
Tanto perché voi lo sappiate, io non rividi mai più le mie sorelle e Lauren: i due uomini che accompagnavano Alice e Maika le fecero uscire dalla porta principale e nessuno volle dirmi dove le portarono, non mi vollero dire nulla su come sarebbe stata la loro vita da quel giorno in poi; nemmeno cercarle in seguito e a distanza di anni servì a qualcosa. Ma in quel frangente, tra la rabbia repressa e il pugnale appena datomi da Rev, io non mi preoccupai di loro.
Con molta cura inizia a sfregiare il volto di mio zio così lentamente da gustarmi ogni suo singolo lamento, restando meravigliato per come il sangue scivolasse in modo tanto aggraziato lungo il suo collo e le sue scapole; i suoi occhi imploravano pietà a un ragazzino di undici anni che ormai non aveva più intenzione di farsi sottomettere, e notarlo non faceva altro che aumentare la mia voglia di ridurlo a uno straccio.
Sotto suggerimento di Alice tagliai via entrambi i lobi e finalmente James iniziò a piangere. Sapevo che mi sarei dovuto sentire in colpa, sapevo che umiliare in tal modo una persona era tutt’altro che ben visto dal mondo, ma a me piaceva così tanto vederlo soffrire che quasi non riuscivo a smettere.
«Potete bruciare la casa?», domandai senza togliere gli occhi dal terrore puro che mio zio personificava, «Vorrei che questo posto sparisse per sempre.»
Maika mi scrutò perplesso. «Cosa vuoi farne di lui?»
«Bruciatelo insieme alla casa.»
Guardai mio zio un ultima volta prima di uscire dalla casa con Alice, Maika e Rev alle mie spalle. Non mi sentivo dispiaciuto, non mi sentivo in colpa e mai avrei voluto uscisse da quella casa sano e salvo. Chiesi di restare per vedere l’incendio nascere davanti ai miei occhi, per assistere al fuoco bruciare e rendere tutto cenere.
«Yan, siamo ancora in tempo per salvarlo se ci hai ripensato.»
«No, Maika, va bene così.»
«Sei sicuro?»
«Sì. È questo ciò che voglio.»
E quello fu l’inizio della mia nuova vita macchiata costantemente di sangue altrui e non mio. Perché da quel giorno, anche se non l'avessi voluto, le mie mani sarebbero diventate le stesse di un assassino.

 


 

Note dell'autore
Niente, solita cosa. È da un po' che non aggiornavo e tornando a scuola questo è quel che sono riuscita a scrivere.
Mi rendo conto non sia il massimo, ma... Nulla, va bene così.
Ah. Sarebbe il caso voi leggeste anche "Colpo di Pistola", se volete davvero capirci qualcosa.
Spero vi piaccia.
Ja nee~

   
 
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