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Autore: Cornfield    19/09/2013    3 recensioni
"Ma perché preferisci rimanere qui, tutta sola?"
L'altra alzò le spalle con noncuranza.
"Preferisco i giocattoli alle persone."
***
Ho solo cercato di fare qualcosa di diverso, sappiatelo.
Genere: Fluff, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il cuore di ognuno non batte allo stesso modo.

 

Il motto è solo una bugia 
Dice " La casa è dov'è il tuo cuore" 
Ma che vergogna 
perchè il cuore di ognuno non batte allo stesso modo 
Battiamo tutti fuori tempo.

Jesus of Suburbia-Green Day (Part II) 



                                                                         




Il sole brillava vivacemente alto nel cielo, con i raggi che picchiavano il volto delle persone infastidite e sommerse dal loro stesso sudore maleodorante. La maggior parte di loro camminavano con le braccia perennemente chiuse, nella speranza che gli amici non notassero l’acqua park nascosta sotto la propria ascella. I bambini invece si rallegravano all’idea di passare un’altra giornata a contemplare l’amabile brezza mattutina e ad arrampicarsi sulle coste frastagliate della parte sud della cittadina, mentre i genitori, ignari di tutto, sorseggiavano il loro thè freddo al limone in giardino.
La signora Massoud infine, cucinava le sue speciali crocchette di pollo, quelle crocchette che si sbriciolavano con un solo morso e che riuscivano ad addolcire momentaneamente anche i sensi del suo scorbutico marito Dubus. Prima di chiamarlo a tavola, scrutò insospettita l’orizzonte. Una coltre grigia e cupa si prospettava aldilà del bosco, ma per ora non sembrava essere minacciosa. Prese la decisione così di lasciare momentaneamente la postazione della cucina per dirigersi in giardino e stendere il bucato.
Di solito odiava dover ritrovarsi faccia a faccia con i mutandoni di Dubus, piuttosto sgualciti e ancora puzzolenti, ma quel giorno aleggiava una specie di armonia e beatitudine nell’aria: l’avvento della primavera. Così, mentre frugava con la mano in modo meccanico nel cesto pieno di roba, appoggiava il suo vestitino rosso accesso sul filo sottile e lo appendeva grazie alla morsa d’acciaio delle mollette, canticchiava una musichetta che gli era entrata in testa ormai da giorni; confondendosi con i canti docili degli uccelli.
Dopo pochi minuti finì la sua commissione e si lasciò sfuggire un sospiro di soddisfazione, osservando fieramente i panni che con una folata di vento sembravano per un attimo volare via veloci.
Rientrò in casa, chiamò suo marito e gli porse il suo piatto fumante di pasta, ma l’altro, volendo soltanto divorare le crocchette, si avventò subito su di esse, imboccandone almeno una decina in un solo colpo. La sua faccia si dipinse improvvisamente di un’espressione di disgusto.
“Che cosa è questa cosa Massoud? Fa schifo!” Mugugnò arrabbiato e con la bocca piena, spargendo pezzettini di cibo dappertutto.
“Ma sono le tue crocchette che ami mangiare da sempre! Cos’hanno che non va oggi caro?”
“Sono insipide e amare! Fanno letteralmente cagare!” Detto questo sbatté il pugno di ferro sul tavolo facendo sobbalzare la povera moglie.
“Ma come ti permetti?! Io spendo tutto il mio tempo a cucinarle e tu mi ripaghi con queste affermazioni sconce? Tu non mi apprezzi mai abbastanza, ecco! Faccio i salti mortali ogni dannatissimo giorno e tu neanche una volta che mi dicessi grazie!”
E mentre i due sposi discutevano “civilmente”,  un’ombra scura si stagliò sul loro steccato di legno che recintava il giardino. L’ombra, che apparteneva ad un ragazzotto dal fisico slanciato, lo scavalcò facilmente con molta agilità e si diresse verso i panni stesi. Con un solo gesto e l’autorevolezza di un commissario di polizia raccolse il vestitino rosso, la camicia osé, i pantaloncini fluorescenti, perfino le mutande di pizzo che appartenevano a Massoud.
Dopodiché si mise addosso tutti gli oggetti appena rubati, ridendosela a crepapelle. La finestra del bagno era aperta, così ne approfittò per specchiarsi e gongolarsi nei suoi nuovi vestiti. Lo specchio tuttavia era piuttosto malandato, con la cornice rovinata e il vetro distorto. Ma al ragazzotto andava bene lo stesso, perché infondo quello specchio era un po’ l’anima di se stesso: sbilenca, storta, ferita.
 Improvvisamente, un rumore sommesso lo fece riportare alla realtà e con uno scatto felino si precipitò a saltare lo steccato… ma una parte del vestito finì impigliato, facendolo cadere rovinosamente sulla legna posta ammucchiata in un angolo e producendo un suono frastornante. Entrambi i coniugi si affacciarono inquieti dalla porta.
Il ragazzo subito si rialzò senza perdere altro tempo e corse a perdifiato tra le ramificazioni della cittadina.
“Oddio Dubus, un ladro, un assassino mi ha rubato tutta la biancheria! E anche i vestiti! Prendilo Dubus, rincorrilo!”
“Non sono un cane stupida! Ora chiamiamo la polizia. E finiscila di piagnucolare.”
Il ricercato intanto avanzava tra la gente e i loro sguardi curiosi, facendo di tanto in tanto un’inaspettata visita alle altre case e prendendo “in prestito” reggiseni che potevano contenere almeno un paio di angurie, tacchi alti, foulard francesi, occhiali osceni…  Saltava quindi da un tetto all’altro con tale sicurezza da rischiare addirittura che gli si rompesse un ginocchio. Anzi, non saltava. Danzava.
Danzava docilmente in quel connubio di odori, sapori e parole e sghignazzava vivacemente dei suoi furti appena compiuti. Spariva in pochi attimi, si muoveva come un ballerino furtivo, estasiando i sensi. E poi spariva ancora e si godeva le reazioni delle persone derubate. Era l’ombra che correva sempre più di te, il mascalzone del quartiere, il minuto sfuggente, il fantasma inesistente, l’uomo che non esiste, l’uomo che sembra una donna, l’uomo dalle mille maschere e da una certezza: sparire. E quello era il suo spettacolo al quale non assisteva nessuno.
Ma come sappiamo, tutti gli spettacoli hanno una fine.
Mentre si accingeva così a prendere una maglietta piuttosto striminzita dal terrazzo di una vecchietta, il ragazzo sentì una stretta che non gli permetteva di fuggire. Un brutto presentimento cominciò a farsi strada tra la sua mente. Deglutì.
“Non sarebbe il momento di trovarti un altro hobby amico mio?”
Il commissario di polizia, stringeva prepotentemente le sue braccia, quasi a volerle rompere.
“Non è un hobby, amico mio, è uno stile di vita.”
“Interessante. Erick, ammanetta questo coglione.” E l’altro obbedì, abbastanza disturbato dalla situazione.
“Ma è… la prima volta che fa una cosa del genere?” Chiese quasi timoroso.
“No, è abbastanza conosciuto nel quartiere per le sue bravate. Arnold Layne, così si fa chiamare a quanto pare.”
 
Una cella angusta accolse Arnold quella mattinata di maggio. Umida, fredda, con la muffa che l’aveva proclamata come fissa dimora e l’umidità incontrastata. Il letto, insieme al water manomesso, era l’unico oggetto presente. Quattro tacche erano incise sul muro incrostato. Probabilmente l’autore era stato scagionato pochi giorni dopo, oppure si era semplicemente stancato di contare i giorni che fluivano velocemente davanti i suoi occhi e che ormai non gli appartenevano più.
Arnold c’era abituato a quel marciume. Ci finiva almeno due volte al mese. Ma quella volta sembrava particolarmente afflitto. Non sarebbe riuscito più a sopportare un altro giorno lì dentro, eppure riusciva sempre a farsi catturare da quei dannatissimi omaccioni in divisa. Dopotutto sì, era soltanto un hobby. Ognuno non è libero di danzare liberamente per la città? Ognuno non può praticare il proprio hobby quotidiano? No, secondo la gente che lo derideva.
Arnold era un ragazzo di ventiquattro anni, magrolino, con le ossa che sporgevano dal resto del corpo, le lentiggini che punteggiavano il suo viso, i capelli  abbastanza lunghi, folti e biondi, i denti da castoro ed un’innata agilità. Un tipo normale, verrebbe da dire. Ma appena scoprivano cosa praticava quasi ogni giorno, sembrava che gli altri lo rinchiudessero in una fottuta cella immaginaria. Imprigionato in una cella di ferro ed immaginaria. Non c’era via d’uscita dunque.
Ma mentre rimuginava sul suo stato sociale, il ragazzo fu catturato da due occhi azzurri intensi che appartenevano ad una bambina di dodici anni al massimo, nel corridoio. Quegli occhi che probabilmente avranno visto così tanto il cielo da catturarne il colore.
Anche la bambina sembrò notare Arnold il quale la fissava estasiato e gli sorrise. Ma lui non rispose con un altro complice sorriso, si era dimenticato di sapere come si sorride. Seguì poi un lungo gioco di sguardi fra i due.
A quanto pare lei era la figlia del commissario, visto che teneva stretta saldamente la sua mano e rispondeva con prontezza “Sì papà” ad ogni sua raccomandazione.
“Ora vieni in ufficio, piccola mia. Questi pazzi potrebbero farti del male.” Pronunciò il padre con un velo di cinismo.
“Arrivo subito, dammi un minuto.”
E prima che Arnold potesse anche solo formulare un pensiero, si ritrovò gli occhioni della bambina a poco più di qualche centimetro di distanza. Armeggiava tranquillamente un oggetto luccicante in mano che infilò nella serratura: una chiave. La bambina stava liberando Arnold.
Un misto di gratitudine e incertezza si dipinse sul suo volto.
“Anche io rubo in realtà. Rubo i sogni degli altri.” Rispose lei alla faccia parecchio confusa dell’altro, che dopo la frase pronunciata, si ritrovò ad essere ancora più inquieto.
Il rumore di una porta fece sobbalzare la bambina, che fece segno ad Arnold di seguirla senza fare domande. I due così sgattaiolarono velocemente dal carcere tramite corridoi segreti e tubature strette, mentre mettevano in mostra la loro innata agilità. E anzi, la piccola sembrava addirittura essere esperta nelle fughe.
Poco dopo, la brezza li accolse in modo leggiadro, accarezzando le loro guance sudaticce.
“Ora ti porterò in un posto speciale, dove passo la maggior parte del mio tempo.”
“Aspetta… Posso sapere il tuo nome?”
 “Mi chiamo Emily.”
 
Attraversato facilmente “l’invalicabile” muro recintato dal filo spinato, i due avventurieri si ritrovarono all’estremità di un bosco folto e losco. Emily senza chiarire spiegazioni si immerse nella natura incontaminata e Arnold come di consueto la seguì entusiasta. Non aveva idea del perché stesse a fianco di una bambina di dodici anni, sembrando un pedofilo maniaco con gravi problemi psichici, la seguiva  e basta. E gli piaceva.
Il rumore che producevano ad ogni passo assomigliava a migliaia di ossa frantumate, il ruscello  scorreva placidamente creando una melodia inconsueta e rilassante, l’odore pungente dei pini penetrava nelle narici senza permesso e delle nuvole inaspettate scandagliavano il proprio furore tramite una tiepida pioggerellina. Eppure avevano aspettato per così tanto tempo, pensò meditabondo Arnold.
Le nuvole avevano aspettato per così tanto tempo. Prima guardinghe, aldilà dell’orizzonte a cui l’occhio umano poteva penetrare, poi pian piano sempre più vicine tramite gli ordini di Eolo. E poi infine si erano accasciate su quel pezzo di cielo, furenti col mondo, nere di rabbia e bianche d’orgoglio. Invece eccole lì, a scaricare i loro sentimenti tramite quattro gocce che rigano il viso. Nient’altro. Nonostante siano state letteralmente spinte con prepotenza dal vento, senza che loro chiedessero nulla, trattenevano tutto con circospezione, timorose ed impaurite. Ma se Arnold fosse stato una di quegli oggetti fluttuanti sarebbe immediatamente scoppiato in un gioco di suoni e colori provenienti dai fulmini, scaricando tutto con un’alluvione pressocché ostile, che allagasse tutti i campi e tutte le case in circolo, mentre i mortali si sarebbero dimenati nell’acqua e con un sussurro impercettibile avrebbero imprecato aiuto. E lui sarebbe rimasto sempre lassù, dove gli umani credono di aver messo piede, a ridersela delle loro sventure, mentre con un altro movimento avrebbe scagliato fiumi in piena. Ogni goccia caduta per ogni peccato macchiato da ogni persona. Una strage. Un’amara distruzione. La fine. Tutto sarebbe finito così. Se l’avesse voluto.
“Arnold, mi segui?” La voce dolce di Emily lo risvegliò dai suoi pensieri cruenti.
La pioggia aveva definitivamente finito di battere, le nuvole si erano arrese.
La bambina intanto continuava a farsi strada piuttosto eccitata, spostando di tanto in tanto qualche ramo sporgente per far evitare al suo nuovo amico eventuali piccole ferite.
Non aveva condotto mai nessuno nel suo posto segreto, fino a quel momento.
Dopo altri cinque minuti, le loro teste sbucarono dal folto di un cespuglio, ritrovandosi in una radura spaziosa e illuminata dalla luce filtrata del sole.
“Emily, ci siamo persi?”
“No, è questo è il posto di cui ti parlavo.” Rispose lei delusa dal poco entusiasmo del ragazzo.
Arnold si guardò intorno, cercando di percepire la specialità di quel posto, ma invano. Tutto ciò che riusciva a sentire era il suo impercettibile disagio nel trovarsi lì. Poi, finalmente, i suoi occhi catturarono un sacchetto bianco posto dietro ad una piantina, nascosto fin troppo malamente. Lo prese in mano con circospezione.
Emily sorrise.
“Bene, hai trovato la mia busta dei giocattoli.”
“Cosa?”
“E’ una busta dove custodisco tutte le mie cianfrusaglie. Dammela, ti faccio vedere.”
E con fare esperto, la piccola la strappò dalle mani di Arnold e ci infilò la sua manina esile.
“Ogni giorno vengo qui. Da sola. E mescolo i vari giochi presenti qui dentro, fino a pescarne quattro. E con questi quattro giochi ci invento una storia.”
E così, dal cappello magico, fuoriuscì una bambola di pezza la quale al posto degli occhi possedeva due bottoni, un treno giocattolo dilaniato dal tempo, un leone in posizione eretta ed un aeroplano con un un’ala attaccata diligentemente tramite lo scotch.
“Ti va di giocare insieme a me?”
All’improvviso Arnold si sentì in preda ad un calore incontenibile, forse a causa degli occhi di Emily che cercavano uno spiraglio di approvazione.
“Certo.”  Riuscì a dire alla fine, estasiato.
“Certo che mi va.” Poi si sforzò anche di sorridere. Ma il sorriso cadde nel vuoto.
I due si sedettero fianco a fianco sul prato esile, mentre l’erba solleticava i loro piedi, bramosi di cominciare il loro viaggio.
“Emily. Ma perché preferisci restare qui, da sola, nel bosco?”
L’altra alzò le spalle con noncuranza.
“Preferisco i giocattoli alle persone.”
Detto ciò, prese in mano la bambola, imitando una voce stridula:
Ciao Simba. Mi chiedevo se tu vorresti venire al ballo con me.
Arnold si trovò disorientato, finché la bambina non gli pose il leone e lui lo raccolse.
Oh.. ehm.. Perché no…
“Con una voce adatta per favore.”
Il ragazzo di schiarì la voce divertito.
Mi piacerebbe molto venire al ballo con te… Po… Polly. Sai ballare?
Ovvio che so ballare, sono una principessa. 
Una bellissima principessa devo dire!
E tu sei un bellissimo leone. Che ne dici di portarmi al castello in groppa?
Come vuoi. Tutto per te.
Simba e Polly così si avviarono gloriosamente verso la fortezza che avrebbe ospitato il più grande ballo dell’intero regno.
Ho cambiato idea amore mio. Voglio prendere quel treno.
E perché?
Perché voglio andare da Harry Potter. Voglio fare le magie. Andiamoci Simba, andiamoci!
Ma non hai bisogno di altre magie. Ne hai già una nel tuo cuore.
E con questa magia si possono fare molte cose?
Moltissime cose. Ogni cosa tu voglia.
Allora voglio un aeroplano gigante!
E la piccola principessa fu subito accontentata, con un aereo magenta che trionfante, sovrastava la sua testa.
E’ bellissimo Simba, è bellissimo!
Lo so.
Ora vorrei due occhi al posto di questi schifosi bottoni!
Vediamo… due occhi… due occhi. Dove possiamo scovarli? Ah, trovati!
Arnold posò per un attimo il leone sul prato e, scherzosamente, fece per prendere gli occhi di Emily con un gesto. Emily rise fragorosamente.
E d’improvviso una curva si dipinse sul volto dell’altro. Un sorriso. Un vero sorriso. Un sorriso sincero, non fasullo e di silicone. Arnold aveva imparato a sorridere.
“Hai un bellissimo sorriso, Emily.”
“Forse intendevi dire Polly.”
“No, mi riferivo proprio a te.”
“Hai sentito Polly? Arnold si è innamorato di me!
E chi non si innamorerebbe di te!
Mormorò Simba, tuttavia un po’ geloso.
Bene… e ora. E ora voglio una scimmia!
Questa è facile, se vuoi puoi prendere il padre di Emily!
Emily si accasciò a terra, ridendo a crepapelle e respirando a fatica.
E la storia continuò così, mentre Polly continuava insistentemente a chiedere ogni tipo di oggetto indesiderabile, rubando i sogni altrui, fantasticando sui possibili viaggi che i due innamorati potevano intraprendere, e prendendo in giro le principesse vanitose e perfettine.
Desidera qualcos’altro, mia signora?
Sì. Solo un’altra cosa. Vorrei che Arnold abbracciasse forte forte Emily e che non la lasciasse più andare.Ad Arnold gli si strinse il cuore e rimase immobile a causa dell’affermazione. E allora Emily fece il primo passo e cinse con le sue manine il bacino del ragazzo, appoggiando la sua testa sulla spalla dell’amico. Un paio di lacrime cominciarono a rigare il viso del ragazzo, che commosso, rispose all’abbraccio, un po’ forse goffamente.
E i loro corpi si mischiarono in un’unica anima, mentre il calore di ognuno si faceva strada tra le ossa fredde, da tempo desiderose di un contatto umano.
I loro respiri calmi e docili scandivano il tempo, mentre l’imbrunire si avvicinava.
Non si sarebbero mai staccati da quella posizione perché ormai si completavano, come un puzzle senza scatola, o appunto un’anima senza corpo. Entrambi avevano il sogno nascosto di un abbraccio, quel sogno forse ancora una volta rubato da quella birbantella di Emily. O forse il sogno di un abbraccio è di tutti. Sì, è di tutti. E’ patrimonio dell’umanità.
Tutti hanno bisogno di un abbraccio, tutti hanno bisogno di un paio di braccia che possano stringerti delicatamente il corpo, cullandolo fino alla felicità. Tutti hanno bisogno della felicità. E la felicità ha bisogno di un abbraccio.
Forse in realtà la nuvola non era piena di vendetta, forse semplicemente piangeva. Piangeva per la commozione.
“Arnold…” Sussurrò la bambina in un soffio di vento.
“Dimmi principessa.”
“Secondo te… Insomma… Tu rubi vestiti da donna mentre io, qui, ogni giorno, vengo da sola a giocare. Secondo te… siamo pazzi?”
“Sì Emily, siamo pazzi. E siamo speciali.”
A quel punto lei si strinse ancora di più al suo compagno di pazzia, e promise che non lo avrebbe lasciato.
Mai più.
 
Poco più in là una folta chioma, che si mimetizzava perfettamente con i cespugli circostanti, stava fissando entrambi curiosamente. Lì aveva seguiti fino al loro ingresso nel bosco. Aveva cercato più volte di avvicinarsi a loro, ma a causa della sua timidezza, continuava semplicemente a camminare cauto fra gli alberi, procedendo nello stesso sentiero.
Finalmente però, si era deciso una volta per tutte di presentarsi. Fece un passo in avanti, e poi un altro, ritrovandosi completamente scoperto. Emily e Arnold però, parevano ignorarlo, continuando a fondersi.
Syd barcollò verso di loro e si sedette a fianco della bambina. Una fitta nausea stava cominciando a penetrarli in bocca, una sensazione davvero sgradevole accompagnata ad un improvviso giramento di testa. Quella sera aveva ingurgitato fin troppe pillole di droga.
Syd cominciò a piangere.
Arnold ed Emily erano solo frutto della sua dannata immaginazione, del suo trip, era frutto della droga. Non erano veri. Eppure lui riusciva a sentirli affianco a loro. Così distanti ed incredibilmente vicini.
Sfiorò delicatamente la bambina, la quale finalmente si accorse di lui, sorridendogli. E proprio come successe ad Arnold, anche lui di riflesso sorrise, mentre un paio di lacrime salate gli rimasero in bocca.
No, quella non poteva essere una visione. Perché non aveva mai avvistato un qualsiasi oggetto che in uno dei suoi viaggi lo sorridesse. Quello a cui stava assistendo, era tutto reale.
Era tutto reale, concreto, vivo. Era nella sottile striscia della finzione della realtà. O forse tutto è finzione. Forse tutti indossiamo delle maschere finte.
Forse tutti andiamo a delle finte scuole, facciamo finti compiti, guardiamo una tv finta. Forse la vita è la finzione in persona, un ennesimo sogno rubato.
Ed i sogni si sa, non finiscono mai, anche dopo essersi svegliati. Ce li elaboriamo meccanicamente nella nostra mente, costruendoli come se fossero i nostri preziosi bambini, aggiungendo qua e là qualche particolare che lo renda più entusiasmante ed infine entrarci dentro, di pancia. E rimanerci lì, per sempre.
Ed è quello che Syd avrebbe fatto. Sarebbe rimasto in quell’estasiante sogno finché il suo cuore non avrebbe cessato di battere. Ma la verità è che il suo cuore non avrebbe mai cessato di battere.
“Il cuore di ognuno non batte allo stesso modo. Battiamo tutti fuori tempo.”
E’ vero. Il suo cuore in particolar modo batteva in modo completamente diverso rispetto agli altri. Perfettamente fuori tempo. Sperfettamente sensibile.
Il sole era ormai calato, lasciando posto al lato oscuro.
Emily e Arnold, erano ancora lì, abbracciati.
E Syd posto di fianco.
“Puoi unirti a noi, se ti va.” Sussurrò il vento.
E Syd non se lo fece ripetere due volte, cingendo con le sue mani tremanti entrambi gli amici. Facendo parte di quell’abbraccio che avrebbe sempre voluto.
Ora i cuori di tutti e tre, sì, battevano fuori tempo rispetto gli altri, ma non per loro. Perché i battiti del loro cuore erano perfettamente sincronizzati, tutti e tre battevano alla stessa medesima intensità.
Seguendo il metronomo della pazzia.
E della purezza.

 
 
Note:
Beh salve lol. Non ho granché da aggiungere. Ho cercato di essere più originale del solito, anche se tutto ovviamente ricade su di lui... Emily in realtà avrebbe dovuto avere 16,17 o più, ho modificato la sua età per rendere il tutto il più awwoso (?). Ah e l'immagine sovrastante è uno degli ultimi quadri di Syd in cui si può scorgere almeno una figura completa.
E niente, spero vi sia piaciuta.
Una recensione, anche piccola, è ben accetta.
  
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