Prologo.
«Alzati! Ora.»
«Colombo, lasciami stare, non capisco che
diavolo vuoi!»
«Smettila di deprimerti ed alza il culo da quel
letto, dannazione.»
«M-ma..»
«Su! Solo perché non hai ispirazione non significa
che sei da buttar via.»
«Sarebbe una sottospecie di complimento questo?»
«Taci e tirati su.»
«Colombo, lasciami! Lasciami!»
«Zitto per una volta! Vai a farti una doccia,
muoviti.»
Iniziò tutto così, da un giovane biondo che si
preoccupava e da un giovane moro che aveva smesso di preoccuparsi; il resto è
molto più complesso.
Capitolo 1 - The Suicide.
Era li, davanti a quel pianoforte, le
dita lunghe ed eleganti posate sui tasti di esso. L'espressione sul viso del
ragazzo dai capelli neri era spenta, quasi vuota. Non sentiva, non provava,
l'apatia aveva preso il sopravvento. La musica era tutta la sua vita, la sua
anima, il suo cuore. Ed ora.. Ora tutto era un ricordo lontano perché lui non
sapeva più comporre, non sapeva più fare nulla. Si sentiva vuoto, come se una
parte di lui gli fosse stata strappata ed ora una ferita aperta sanguinava
ininterrottamente e niente.. Niente avrebbe potuto fermare quell'emorragia.
Essere un clone era difficile e complicato. Dovevi adempire ai tuoi compiti e
completare ciò che il tuo originale aveva lasciato in sospeso prima di morire.
Ma come si poteva raggiungere la perfezione se ci si sentiva persi? Se ci si
sentiva inutili? Mozart. Il superiore, il perfetto, il magnifico Mozart era
perso e non riusciva più a scrivere, a suonare. Si sentiva morto dentro,
completamente morto.
Una sera come le altre, l'autunno alle porte e l'aria frizzantina entrava
dalla finestra lasciata aperta. Una melodia usciva da un giradischi,
un'inquietante Requiem. Il pianoforte fatto di neon sul lato sinistro della
stanza e sul soffitto era acceso. Illuminando la stanza di una flebile luce
biancastra, ma non abbastanza intensa da riuscire a coprire l'enorme camera.
Una figura si muoveva lentamente in quella semi-oscurità che dava i brividi, e
quasi andando a ritmo con la musica sistemava una sedia sotto al lampadario e
creava un cappio con il suo lenzuolo di seta nero ed argento. Si mise in piedi
sopra quella sedia, il ragazzo, allacciando ben stretto il cappio attorno al
collo. Era pronto, era deciso. Nessun rimpianto. Nessun ripensamento. L'avrebbe
fatto, era l'unica cosa da fare. Erano giorni che pensava a quel gesto, a cosa
fare per riuscire a sentirsi vivo, una persona davvero utile al mondo, a sé, al
suo originale. Più andava avanti e più si rendeva conto che non era nulla in
confronto al vero Mozart, che la delusione che stava dando al suo nome e a sé
stesso non era più sopportabile; ad ogni nota che cancellava da un pentagramma,
quando scriveva, un pezzo di sé veniva lentamente staccato dal corpo e
diventava cenere, bruciato dalla sua stessa delusione e da quella del resto del
mondo; perché in fondo -quando si parlava della musica- a lui importava il
pensiero altrui, anche se non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura,
nemmeno in fin di vita. Perché adesso si parlava proprio di quella, della sua
vita. La vita che oramai sembrava non volerlo più, non volergli dare ciò che
gli spettava, l'ispirazione che cercava per dare un senso a quel suo mondo che
adesso non ne aveva più uno. Lui viveva per lei, per quella dolce melodia che
usciva dal pianoforte, per quella sinfonia che si creava su un pentagramma che
poi veniva fatta uscire da uno strumento, lui viveva per la musica. E se essa
gli veniva strappata via senza neanche dargli il tempo di reagire, di cercare
un appiglio per tenerla a sé? E se essa gli veniva portava via come ad un
bambino può esser portata via la madre alla nascita? Lui si sentiva morto,
morto dentro nel profondo, lui non riusciva più a vivere a trovare una
motivazione per continuare a respirare, lui non era più desideroso di
continuare a inspirare ed espirare, lui non ce la faceva più.
Dal fondo della stanza un disco in vinile si muoveva nel giradischi e da
esso continuavano ad uscire fuori un insieme di note, quelle note che lui
sapeva a memoria, quelle note che più e più volte aveva fatto uscire dal
pianoforte e che avrebbe saputo suonare anche ad occhi chiusi, quelle note che
le sue dita riconoscevano come terra madre, quelle note che erano del suo
originale; una delle sue marce preferite, quella. Tuonava nella stanza con
quelle note acute e poi gravi. Ed eccola lì, di nuovo, un'ombra che si muoveva
in quell'oscurità e in quel rumore di silenzi e sospiri; era lui, il nostro
Mozart. Era deciso, era intenzionato a togliersela quella vita che oramai non
aveva più senso senza la sua ispirazione, senza che lui desse una soddisfazione
al mondo creando qualcosa che fosse degna del nome che portava, della figura
che rappresentava il suo originale. Lui non era degno di continuare a solcare
quella terra se non era capace di scrivere una sinfonia, una misera melodia che
fosse all'altezza del suo 'dio'. Dunque era arrivato il momento, il fatto era
prossimo, l'accadimento era lì, poco distante. Si sarebbe tolto la vita,
sarebbe stato ucciso dalle sue stesse mani, quelle mani che per lui erano
tutto, che erano la parola del suo dono, del suo talento, quelle mani con cui
esprimeva le sue emozioni -quelle che a voce non sarebbe mai stato capace di
buttare fuori-, quelle mani che toccavano il pianoforte come se fosse il viso
di un bambino, con delicatezza e cura, quelle mani che accarezzavano i tasti
con leggiadria, quelle mani che per lui erano il simbolo di ciò che oramai non
sarebbe mai stato. Si passò un'ultima volta le mani tra i capelli, poi con un
colpo secco lasciò cadere la sedia che fece un rumore soffocato quando sbatté
contro il pavimento e perse i sensi. Per un attimo si sentì più vivo in quel
momento di pre-morte che in tutta quella sua vita da clone. Sentì la porta
aprirsi ma poi nient'altro, solamente rumori sordi che si alternavano, infine
il nulla. L'oscurità lo prese a sé, l'unica cosa che riuscì a scorgere furono
due occhi color miele che, impauriti, lo fissavano.