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Autore: MaidOfOrleans    20/09/2013    3 recensioni
Pensieri incoerenti di un cervello esausto (il mio) sull'inizio e sulla fine di un amore di plastica, di quelli che ti scavano dentro con il coltello ma non sono in grado di restituirti calore.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GIUGNO
 
Le notti di quasi-estate sono gonfie di sesso.
L’aria spessa, greve come un lenzuolo bagnato, disegna perle di sudore sui colli delle ragazze, sulle loro gambe, scoperte dalle gonne leggere e ancora pallide di una patina di inverno metropolitano. I muscoli dei ragazzi sono famelici, tesi, e guizzano sotto magliette che sembrano prigioni di cotone.
Ogni gesto è lento ed erotico. La birra scorre lungo le gole nude, dita sottili stringono una sigaretta, spinte, prese in giro, semplici pretesti per sfiorarsi. Mano su coscia, mano con mano. Una schiena si offre, indifesa, ad unghie color corallo, mi avevi promesso i grattini, presto altre dita, maschili, scivolano lungo la colonna vertebrale. Chissà come si scoperebbe bene su ‘sto divano, si ride. Le gambe di tutti intrecciate in un unico nodo. Il desiderio accende ogni respiro, è giugno, Torero, portami via.
 
Nevica fango estivo sulle mie costole. Che il sudore appiccica e non ho neanche voglia di lavarmi, di cambiarmi la maglietta, che devo ripetermi ogni giorno che non serve licenziarsi dalla vita. E’ comunque un contratto a termine. Che cosa vogliono da noi le loro bocche inviolate. Sono pomeriggi asfittici che uno dovrebbe tipo stare sui libri. Ci vediamo almeno un’ora in piazza a cazzeggiare. Poi boh, se avessimo il tempo e i soldi ti porterei un giorno al mare. A parlare di tutto. A non dire niente. Per capire cosa cazzo sta succedendo. Tu dici che sono razionale e sparo certe frasi che ci resti lì. I nostri respiri sono inquinati dalla nicotina mentre ci razioniamo le sigarette, che io non ho spicci e il tuo portafogli è vuoto. Forse mi sto tipo innamorando di te, ma spero proprio di no, perché sarebbe inutile nonché del tutto idiota. All’università si sopravvive con ettolitri di caffè e leggere dipendenze dai farmaci da banco. Se mi addormento subito stanotte ho davanti quasi otto ore. Le tapparelle sono chiuse come le gambe delle tizie che piacciono a te. Se avessi il coraggio ti chiederei di guardarmi. Però non ce l’ho, quindi spengo la luce cianotica e me ne resto sdraiata e mi ricopro della polvere fiacca dell’orizzonte.
 
Prima di addormentarmi penso a te. Però la cosa mi fa sentire in colpa e cerco di distrarmi biascicando ai libri chiusi e alle persiane. L’impressione che le poche luci della città mi abbiano mangiato il cuore. Nell’ascensore cubico brulicavano insetti così sgradevoli che ho tipo fatto di corsa cinque piani a piedi. O forse non erano sgradevoli per niente, sono solo io che palpito come un cerbiatto in gabbia. Tu dici che l’unica cosa che ti fa paura è il mare aperto, e io vorrei far cambio e incatenarti al mio terrore della solitudine. Dormo con una maglietta troppo grande che vorrei fosse tua e invece era di mio nonno. Che mi manca, e parlo alla sua foto come le vedove dei telefilm americani. L’università che ci succhia il sangue dalle vene collassate. I paradisi chimici irraggiungibili. La tua assenza. Ritrovare in un cassetto la voglia di respirare.
 
LUGLIO
 
Poi boh, un giorno ci baciamo per caso e nessuno di noi due sa chi cazzo sia stato a cominciare. O, ancora più importante, a smettere. Piove, e l’odore dell’asfalto bagnato sale al cervello come una strofa dei System of a Down. Noi, parti meccaniche. Mescoliamo i nostri organi e bruciamoli con il tabacco e il gin da quattro euro. Copriamoci gli occhi con fazzoletti strappati. Corriamo nelle foreste di casermoni, dove qualcuno di sicuro spaccia anime e noi ci perdiamo sempre nella nebbia che puzza di fiume. Andremo per mano a vomitare dietro le macchine. La pelle è organica e brucia. Tu sei cellule.
 
Mendico baci ai tuoi occhi nel buio effimero del mio portone. Mi disegno sulla pelle sogni che mi faranno venire il cancro perché li traccio con il pennarello indelebile. Sarebbe stato bello trovare un tuo messaggio al risveglio, ma posso stare senza. Sono stata senza tutto, anche la nicotina. Mettersi tre sveglie a orari senza senso. Perdere le guerre con se stessi. Volerti bene per ciò che sei e odiarti per ciò che potresti essere. A volte l’aria è così calda che mi schiaffeggia l’anima. Poi mi è entrata qualche schifezza negli occhi, e forse anche nel cuore. Lo zucchero è un veleno e il cioccolato se lo dai ai cani li uccide. Può darsi.
 
I nostri baci, farfalle mistiche. Labbra su labbra le leggi di Bjot-Savart che sfioro in punta d’unghie la tua schiena e quando ti scosti sono contenta del sangue che ti corre agli zigomi come un respiro arrugginito. Che se ti perdi puoi seguire la stella polare. Che se mi vuoi saprai sempre dove tornare. In balcone con dodici sigarette da maneggiare come fossero razzi, sai che cazzo succede se mia madre se ne accorge. Chiamarti per svegliarti come prima cosa al mattino, sanguinare cinismo e valvole in una tazza di latte intatta. Attendere e volere. Immaginare. Che dietro le tapparelle pulsa il mondo. Non ho bisogno di guardare per trovare sotto la maglia le tue costole. Non ho bisogno di vedere i frammenti argillosi del mio cuore. Cazzo dicono tutti. Sono acqua.
 
Tu guardi lei io mi guardo dentro e vedo solo sangue come cazzo si fa a vomitare il cuore.
 
Che poi non vuoi me e vuoi lei, un cliché come un altro. Mi libro in volo su altri oceani. I pezzi di cuore e il fegato un poco fanno male. Bere finché ce n’è, forse anche per dimenticare. Le finestre aperte sputano in strada luce elettrica e brandelli di frasi, non saprei come dirti che mi trema l’esofago. L’afa di questa notte limbica che ci lecca la nuca. Sanguinando si perdono miliardi di cellule. La fantasia che accende l’orlo delle tue mutande. I maxi concerti i palchi e le star compaiono solo in caso di catastrofi naturali. Le tendopoli nelle arterie. Volerti. Volere disperatamente non volerti. Una volta c’era della luce, ma la lampadina si è fulminata, e chi cazzo la ricompra più.
 
AGOSTO
 
Stupirsi di essere diventate così brave a sopravvivere. Odore di ricordi già distanti sui pianerottoli. Le esistenze immobili. Non amarsi.
 
Che quando finisce tutto cadiamo preda di qualcosa che forse si chiama Sindrome di Fortapasc. Non sappiamo che farne delle nostre giornate. Gocciola il calore di agosto sulla pelle e sui nostri cuori. Se si vendesse il sudore al grammo. Se si vedesse un grammo di cielo. Oltre ci sono solo paraventi. Forse anche paraurti, ma non i nostri, non abbiamo la patente e neanche i soldi per comprare le macchine. Voi labbra su labbra e i miei organi interni che sembrano un mojito pestato. Che poi magari è come un tatuaggio, sangue e dolore e sotto il disegno che volevi da tutta una vita. Magari.
 
Uccido i moscerini che mi si sono posati addosso con un dito macchiato di nicotina e quasi senza unghia. Che poi certe cose non si dicono, ma un pezzo di vita con te l’avrei passato volentieri. A costo di sentirmi la scena di un brutto film. A volte, in una città semivuota che odora di cassonetti, mi sento tipo morire. Tipo che il cuore collassa sullo stomaco e alla fine si crepa così. Puzzo di sigarette e umiliazione. Nevicassero almeno coltelli.
 
SETTEMBRE
 
Quando uno crede di non avere più vene capaci di sanguinare e poi si sbriciola come porcellana in ventitré pezzi taglienti. Quando il cuore si restringe e diventa come quello dei colibrì che fa tipo quattrocento battiti al minuto. Quando i dotti lacrimali ormai sono rinsecchiti e non si aprono nemmeno più con la musica commerciale. Quando il desiderio di svanire è più forte di quello di vivere. Quando almeno una volta tutti abbiamo desiderato di morire a vent’anni. E tornare indietro di quarant’anni per andare a letto con Mick Jagger. Tornare indietro di sei mesi per capire come si fa a non farsi mangiare vive. Togliere questi vestiti appiccicosi di ricordi e scappare in un’esistenza in cui non ci sei tu.
Come mai, ma chi cazzo sarai.
 
OTTOBRE/NOVEMBRE
Lo spleen delle giornate come questa. Quando si va tutti a dormire in un ammasso di muscoli e ossa, e mai prima delle sei del mattino. Alzarsi con la schiena che grida e una trivella dietro l’occhio destro e preparare il caffè a dodici persone. Lavarsi mani, capelli e faccia nelle pentole perché funzionasse almeno due ore ‘sta cazzo di caldaia. Ciondolare in una tuta che una volta era un pigiama. O viceversa, tanto chissenefrega. A un’ora imprecisa e comunque non istituzionale mangiare un chilo di pasta con l’olio e nient’altro, per il semplice motivo che c’è solo olio in casa. Buttare un chilo di bottiglie vuote. Buttare anni di vita per colpa del catrame che ci naviga nelle arterie. Avere paura di perderti, o forse di perdermi, e stemperarla nei commenti che si possono fare sotto la pioggia alla stazione. Ci diverte giocare alle puttane tossiche, ai cani investiti. Buttarsi sul divano con il ponte levatoio alzato e abbassarlo di colpo al solo tocco delle tue mani. Avere freddo come se fossimo in Svezia o ad un raduno di democristiani. Perdere la voce inseguendoti e le speranze fermandomi.
In giornate come questa sembra facile anche portare le nostre viscere a rottamare e fare a pezzi le illusioni con gli attrezzi dell’officina che nessuno di noi ha mai visto. Sembra facile vivere, e anche se sappiamo che non è così per una volta vogliamo farci fregare.
In giornate come questa ti tengo per mano e mi manchi.
Comunque, dovunque mi manchi.
 
 
 
  
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