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Autore: Cassidy_Redwyne    21/09/2013    4 recensioni
Quattro amiche diversissime fra loro, eppure inseparabili, vengono a conoscenza del prestigioso liceo di St. Elizabeth. In cerca di una nuova sistemazione scolastica, le ragazze decidono di iscriversi, del tutto ignare di ciò che le attende all’interno dell’istituto.
L’aspetto e il comportamento degli studenti, infatti, sono davvero bizzarri, per non parlare di quei quattro affascinanti ragazzi in cui le protagoniste si imbattono durante i primi giorni di scuola… si tratta di un colpo di fulmine o di un piano magistralmente architettato alle loro spalle?
Tra drammi adolescenziali e primi batticuori, le quattro sono pronte a smascherare una volta per tutte il segreto che si cela fra le mura del misterioso istituto.
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ero terrorizzata. Sola, chiusa in una sottospecie di ascensore senza alcuna via d'uscita, con il pensiero che, da un momento all'altro, l'aspetto con cui convivevo da quattordici anni a questa parte sarebbe cambiato.

Ad essere del tutto onesta, l'idea di alzare di qualche centimetro e mettere su un po' di tette non è che mi dispiacesse più di tanto, ma scacciai quel pensiero frivolo con la stessa rapidità con cui l'avevo concepito. Ero stata chiusa in un ascensore che, a quanto pareva, avrebbe modificato il mio aspetto, senza avere la minima idea del perché lo stessero facendo, e che diavolo!

Le pareti intorno a me cominciarono improvvisamente a risplendere di un azzurro sempre più chiaro, che ben presto divenne così luminoso da costringermi a chiudere gli occhi.

Trattenni il fiato quando percepii un vago calore pizzicarmi le piante dei piedi, nonostante le scarpe, e poi risalirmi lungo le gambe. Avvolse il torace, la schiena e le braccia e, man mano che saliva verso l'alto, il calore ed il pizzicore divennero sempre più intensi, quasi insopportabili, finché non percepii la pelle del viso dolere come se mi ci stessero conficcando migliaia di spilli. 

Il mio intero corpo fu inondato da quel calore azzurrino, lo sentii accarezzarmi e pizzicarmi la pelle e penetrarmi fin dentro le ossa.

Non avevo il coraggio di muovere un muscolo e così rimasi immobile, come se mi avessero pietrificato, finché non udii uno sbuffo e mi azzardai ad aprire un occhio. Davanti a me, le porte della capsula si erano aperte di scatto.

Mi precipitai fuori barcollando, il cuore che mi martellava nel petto per la paura. Mi dovetti appoggiare a quella sottospecie d'ascensore per non crollare a terra. Ansimando, alzai lo sguardo sulle mie amiche.

«Kia!» esclamò Beth. «Come è stato?»

«Be', ecco, proprio come...»

«Risparmiaci uno dei tuoi paragoni, per favore» tagliò corto Angie. «Piuttosto... KIA!» gridò, facendo un passo indietro per rimirarmi meglio.

Scoccai loro un'occhiata confusa. Mi stavano fissando con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, tutte e tre con la stessa espressione incantata stampata sul volto.

Stupita da quelle reazioni che a dirla tutta mi sembravano un po' esagerate, mi voltai verso uno degli specchi e, in linea con l'atteggiamento delle mie amiche, mi lasciai sfuggire un piccolo grido. I pensieri frivoli per un momento ebbero la meglio, mentre mi rimiravo: ero alzata parecchio, la mia pelle scura era ancora più lucente e finalmente ero dotata di un discreto davanzale. Wow.

Ma, dopo un momento, una domanda fece vacillare la mia iniziale euforia: perché? Perché lo avevano fatto? Quale scuola ritocca l'estetica dei propri studenti?

Mi voltai verso Gérard, disorientata.

«Scusi, ma perché mi ha appena...»

«È la nostra procedura» tagliò corto lui, lasciandomi di sasso. «Non sono autorizzato a dire altro.»

Quindi il custode mi indicò la porta con un'occhiata, peraltro piuttosto seccata. Mi stava invitando ad andarmene in modo neanche troppo velato.

«Ma non è possibil...»

«La prossima» mi interruppe Gérard, parlando a voce più alta per sovrastare le mie parole. «Rivers Arianna?»

Fissai Gérard con un'ondata d'odio, ma il custode non mi stava degnando di uno sguardo, gli occhi fissi sul foglio contenente le generalità di Arianna.

«Vi aspetto in corridoio» borbottai rivolta alle mie amiche, afferrando la mia valigia con un gesto di stizza e uscendo a passo di carica dalla stanza.

Ribollivo dalla rabbia al pensiero del comportamento sgarbato ed evasivo del bidello ma, mentre aspettavo nel corridoio insieme al ragazzo – che sembrava averla presa con molta più filosofia di me – all'irritazione ben presto si affiancò la curiosità di vedere come sarebbe stato l'aspetto "migliorato" di Arianna. Lei, dopotutto, era già perfetta di suo.

Quando la mia amica uscì dalla capsula, infatti, udii Gérard borbottare qualcosa circa il malfunzionamento della macchina: dopo un paio di calci e una serie di imprecazioni sempre più colorite, il custode si dovette infine rendere conto che, oltre ad aver fatto una figura di merda con le mie amiche, Arianna non aveva alcun bisogno di essere migliorata.

Quando uscì in corridoio, trascinando la sua valigia, ne ebbi conferma. Arianna non era cambiata di una virgola: era sempre alta, snella e graziosa anche se un po' minuta, con i suoi lisci capelli castani dai riflessi biondi, le gambe lunghe e la solita espressione impassibile stampata in faccia di fronte ad ogni circostanza.

«Sono preoccupata per questa storia» mi confidò, avvicinandosi.

Era un po' difficile da credere, visto che il suo volto era il ritratto dell'imperturbabilità.

Arianna aveva parlato a bassa voce, probabilmente per non farsi udire dall'altro ragazzo che, dal canto suo, non sembrava indifferente agli effetti che la macchina aveva avuto – o non aveva avuto – su di noi, sebbene cercasse di non farlo notare, sforzandosi di tenere gli occhi fissi sul pavimento.

«Anche io» risposi, quindi, sempre sussurrando.

Attendemmo in un silenzio inquieto che anche Angie e Beth fossero entrate nella capsula e, una volta conclusa l'operazione, che Gérard richiudesse a chiave la porta di quella misteriosa stanza. A quel punto, Beth si azzardò a chiedergli la nostra prossima destinazione.

«Le vostre stanze» rispose secco Gérard, precedendoci lungo il corridoio.

«Non dovremmo incontrare la preside?» osò chiedergli Arianna e ammirai il suo coraggio.

«La preside è molto impegnata, al momento» tagliò corto lui, guardandola storto.

«Loquace» commentò Angie sottovoce e mi trattenni a stento dallo scoppiare a ridere.

Superate le classi deserte, il custode ci condusse nuovamente nell'atrio che, per la seconda volta quella mattina, mi colpì per la sua magnificenza.

Stavolta eravamo diretti alla scrivania, l'unico elemento piazzato nell'atrio che, come ci tenne a farci sapere Angie, andava a cozzare con l'architettura dell'ambiente e secondo lei creava quasi un senso di stordimento.

Mi guardai intorno, mentre attraversavamo l'atrio, i nostri passi che rimbombavano sul pavimento deserto, e ne approfittai per dare una sbirciatina all'esterno, attraverso il vetro del portone d'ingresso. Nel giardino non c'era più un'anima, segno che quei meravigliosi ragazzi erano già tutti entrati e, dal momento che anche le classi erano vuote, ipotizzai che fossero nei dormitori.

Lanciai un'occhiata curiosa alla scala. Che gli alloggi fossero ai piani superiori?

Gérard nel frattempo aveva raggiunto la scrivania, dov'erano radunati un gruppetto di custodi con in mano dei caffè. Una di loro, una donna dai lunghi capelli grigi raccolti in uno chignon, si affrettò a poggiare il bicchierino sulla scrivania e si sporse in direzione di Gérard.

«Questi sono i nuovi arrivati» spiegò il custode, indicandoci con un'occhiata. «Avete già i numeri delle loro stanze?»

La donna annuì al collega e spostò lo sguardo su di noi.

«Benvenuti!» esclamò, rivolgendoci un sorriso amichevole. Allora i bidelli non erano tutti dei mostri in quella scuola, pensai, sollevata.

La custode nel frattempo ci aveva dato le spalle e aveva preso a rovistare tra le chiavi, appese al muro con un pannello di sughero che mi ricordò vagamente quello di una reception.

«Allora, le stanze...»

Trovato finalmente quello che cercava, la custode si voltò nuovamente verso di noi.

«Questa è per il ragazzo. Camera numero 29, primo piano.»

Il nuovo arrivato si fece avanti, un po' timoroso, e afferrò la chiave che la donna gli stava porgendo.

«Dividerai la stanza con altri tre ragazzi del primo anno, se non sbaglio proprio della tua classe, la D» lo informò lei, per poi indicare la scala accanto a sé. «Da questa parte.»

Ci avevo visto giusto, allora! Con un fremito di impazienza, attesi che la bidella si rivolgesse a noi, mentre il ragazzo si dirigeva sulle scale, dove udimmo lo scarrozzare della sua valigia per un bel po'.

«E questa per voi, la 17. Sempre al primo piano» mormorò la custode, allungando la chiave nella nostra direzione. Mi sporsi per afferrarla.

«È una camera da quattro, quindi non avrete sorprese.»

Dopo averla ringraziata, facemmo per incamminarci sulle scale, più che liete di separarci da quel bidello a dir poco inquietante, ma Gérard non aveva ancora finito.

«Vi ricordo che la vostra sezione è la C e che le lezioni iniziano alle otto in punto.»

Il custode strinse gli occhi. «Puntuali

Annuimmo come soldatini e ci lanciammo sulle scale, incespicando nei gradini, sotto lo sguardo attonito di Gérard. Nella nostra rocambolesca fuga, però, non avevamo messo in conto le nostre valigie, pesanti come macigni, che ci rallentarono non poco nell'impresa.

«Ma un ascensore?» protestò Beth, a metà delle scale, asciugandosi il sudore dalla fronte.

«Quale, quello che ci ha appena fatto diventare delle bombe sexy?» fece Angie di rimando.

Quando infine mettemmo piede nel corridoio, non sarei stata in grado di salire un solo gradino di più e ringraziai il cielo che la nostra stanza fosse solo al primo piano.

Trovammo senza difficoltà la porta della nostra camera e, mentre infilavo la chiave nella toppa, diedi una rapida occhiata a quella di fianco alla nostra, la 18, da cui provenivano delle urla selvagge e concitate voci maschili.

Aggrottando le sopracciglia, mi scambiai un'occhiata dubbiosa con le mie amiche e poi tornai ad armeggiare con la serratura. Quando quella scattò, spalancai la porta con un gesto solenne e finalmente potemmo entrare.

Superata la soglia, rimanemmo un attimo immobili nel piccolo ingresso.

La camera si stagliava davanti a noi, ampia e spaziosa, illuminata da una grande finestra con due tende color verde bottiglia ai lati.

Chiusi la porta alle mie spalle e feci qualche passo in avanti, trepidante, osservando rapita ogni centimetro quadrato della stanza: era tutta in legno – il parquet, il soffitto, nonché i letti, l'armadio adagiato in un angolo e i comodini – e sembrava l'interno di un cottage.

«È bellissima!» esclamai, guardandomi intorno.

I letti, dalle allegre coperte a scacchi, erano sistemati contro i quattro angoli della stanza, ognuno provvisto di abat-jour. Sulla parete di sinistra, tra i due letti, c'era uno scaffale vuoto, ad eccezione di una scatola tonda, di colore azzurro, e di un piccolo televisore; su quella destra, oltre all'armadio, c'era una porticina che si rivelò l'ingresso di un minuscolo ma attrezzatissimo bagno.

«WOW!» gridò Beth, buttandosi sul letto con un tuffo. La vidi sprofondare tra le coperte e dopo un momento riemerse, con i capelli tutti spettinati, dicendo: «Ok, vi informo che il letto è comodo.»

Angie si avvicinò alla finestra con gli occhi che le brillavano e pensai che volesse guardare giù ma, dopo aver scostato le tende, la ragazza si mise a controllarne il tessuto con occhio critico.

«Le tende sono a posto» decretò infine, dopo un'attenta osservazione.

Noi tre non replicammo, limitandoci ad un'occhiata allibita.

«Niente male» mormorò Arianna, che in quel momento si stava affacciando alla porta del bagno. «Davvero niente male.»

Oltre all'entusiasmo, però, notai una sfumatura diversa nel suo tono di voce: confusione. Anche lei, come me e probabilmente le altre, non riusciva a togliersi dalla testa il dubbio su quello che ci avevano appena fatto.

Per distrarci, decidemmo di mettere in ordine ed in mezz'ora – ero stupita dalla nostra stessa celerità – avevamo già deciso i letti senza scannarci e disfatto le valigie, il cui contenuto era stato ordinatamente riposto nell'armadio.

Dal momento che mancava ancora una mezz'ora abbondante all'inizio delle lezioni, Angie ebbe la brillante idea di mettersi a trafficare con il televisore.

«Il pulsante di accensione si dovrebbe illuminare se collego questo filo a... CAZZO! Perché caspita non va?!» sbottò, mentre impugnava le prese per la centesima volta, dopo una lunga sequela di moccoli e tentativi vani. 

Niente, la televisione non sembrava proprio volerne sapere di accendersi.

Beth, spaparanzata sul suo letto, mi lanciò un'occhiata preoccupata. Probabilmente anche lei, come la sottoscritta, temeva che di lì a poco ci saremmo ritrovate in compagnia di un'amica folgorata, con i capelli ancora più ricci di quanto già non li avesse.

«Kia, perché non vai a sentire se qualcuno di un'altra stanza può aiutarci?» propose Arianna, guardando Angie, che continuava a borbottare da sola china sul televisore, con un misto di pietà e sottile repulsione. Più o meno come se stesse facendo l'elemosina ad un vecchio barbone con le pulci.

«Va bene» mormorai, con un'alzata di spalle. Non avevo niente da fare, dopotutto, ed ero curiosa di conoscere i nostri nuovi vicini di stanza. Urla selvagge a parte, s'intende.

Uscita in corridoio, mi parai di fronte alla camera numero 18, adesso silenziosa, e bussai alla porta, ripescando nella mente qualche frase di circostanza da usare non appena qualcuno mi avesse aperto. Ciao, sono una nuova studentess...

«ADAM, CHE CAZZO VUOI ANCORA?»

La porta si spalancò di scatto e qualcuno mi diede un violento spintone, facendomi ruzzolare all'indietro sul pavimento.

«Ahi!» protestai, portandomi una mano alla testa con un gemito.

Sforzandomi di ignorare il dolore, alzai lo sguardo su colui che mi aveva così gentilmente aperto, pronta a dirgliene quattro.

In piedi di fronte a me si ergeva un ragazzo alto ed atletico, dai riccioli neri e gli occhi altrettanto scuri, che mi stava fissando con espressione mortificata.

«S-scusami!» balbettò, paonazzo. «Ti ho fatto male?»

Doveva essersi trattato di un malinteso, ma ero troppo occupata a fissare imbambolata il volto di quel tizio per potermi concentrare su qualsiasi altra cosa. Con un rantolo, mi accorsi che lo conoscevo: era quel gran pezzo di ragazzo che mi aveva strizzato l'occhio all'entrata della scuola!

Oddio. Abbassai gli occhi, rendendomi conto di essere ancora immobile a terra, con l'espressione di un branzino stampata in faccia, e di non averlo ancora degnato di una risposta.

«T-tu... I-io...» balbettai, prendendo aria come se fossi in preda all'asfissia.

Complimenti, Kia. Lo hai illuminato.

«Va tutto bene?» chiese lui, sporgendosi verso di me e allungandomi una mano. «Devo portarti in infermeria?»

Mi morsi la lingua, trattenendomi a stento dal dirgli che avrebbe potuto portarmi ovunque volesse, anche perché con tutta probabilità quella frase, che nella mia testa suonava così bene, nella realtà sarebbe parsa più come una serie di mugolii soffocati, come se mi stessi strozzando con qualche cibo.

Dai, magari dopo ti fa la manovra di Heimlich e ti sfiora con quelle braccia...

Dopo aver mentalmente preso a ceffoni il mio cervello, riuscii a mettere in fila qualche parola di senso compiuto.

«No, grazie. Sto bene» bofonchiai, abbassando lo sguardo sulle scarpe e lanciandogli un'occhiata di sottecchi.

A giudicare dalla sua espressione perplessa, il ragazzo non doveva aver riconosciuto in me l'anima gemella scorta per un nanosecondo attraverso l'inferriata, ma fu comunque piuttosto cavalleresco.

«Ci conosciamo?» chiese, appoggiandosi allo stipite della porta e rivolgendomi un sorriso amichevole. «Non ti ho mai vista in giro.»

Mi ritrovai a desiderare intensamente di essere quello stipite e rifilai un secondo ceffone immaginario al mio cervello.

«No» mi affrettai a dire. «Sono una nuova studentessa e...»

Esitai. Dove diamine erano finite le frasi di circostanza di cui dovevo servirmi? Maledetto, maledetto cervello.

Alla fine, anche se con grande difficoltà e altrettanti mugolii, riuscii a spiegargli il motivo per cui mi ero arrischiata a bussare alla sua porta.

«Certo che ti aiuto! Vieni un attimo dentro» disse lui in tono affabile, facendosi di lato per farmi entrare nella sua stanza.

Lo fissai sbattendo le palpebre, non certa di aver capito bene.

«Io? Dentro? Non tu?» balbettai e fu un autentico miracolo se lui riuscì ad afferrare qualcosa dalle mie frasi sconnesse, dalle quali probabilmente pensò che dovessi essere semianalfabeta.

«Non c'è bisogno» mormorò lui, scrollando le spalle. «Ti spiego come vanno sistemati i cavi e poi tu lo riferisci alla tua amica.»

Non volendo sembrare ulteriormente cerebrolesa, mi affrettai ad obbedire ed entrai all'interno della camera, passando pericolosamente vicino al ragazzo.

«Sei nella 17, hai detto...» stava commentando lui. «Forte, siamo vicini di stanza!»

Io non replicai. Ero rimasta senza parole. Pensavo che sarei stata in imbarazzo all'idea di trovarmi da sola con quel bellissimo ragazzo – nella sua camera da letto, per di più! – ma il caos che regnava all'interno della camera in questione aveva attirato tutta la mia attenzione, privandomi momentaneamente di ogni imbarazzo.

A giudicare dai letti, la camera era da due persone ma, vista la confusione, sembrava che fossero in quindici ad abitarci. E che fossero tutti e quindici piuttosto sciatti.

«Ah, non fare caso al disordine» si affrettò a dire lui ridendo. Forse doveva aver notato il mio sguardo allibito. «Il mio compagno di stanza è un casinista.»

In quel momento una profonda – e irritata – voce maschile, proveniente dal bagno, s'inserì nella conversazione.

«Chi sarebbe il casinista?»

«Non provare a negarlo, Night» borbottò il ragazzo sbuffando, per poi abbassare gli occhi sulla marea di oggetti che inondava il pavimento, come a conferma di quel che diceva.

«Vieni» esclamò poi, rivolgendosi a me. «La televisione è qui.»

Si avvicinò ad un angolo della stanza, dov'era sistemato lo stesso scaffale che avevamo anche noi in camera, con la medesima scatola azzurra e il televisore.

Il ragazzo si chinò dietro l'apparecchio e, deglutendo rumorosamente, mi chinai a mia volta, cercando di mantenere un minimo di distanza di sicurezza tra noi. Sentivo che, se l'avessi superata, non avrei più risposto dei miei istinti.

Mi sforzai di concentrarmi su ciò che il ragazzo stava facendo ma, dopo appena mezzo minuto, provai un istintivo moto di compassione nei confronti della povera Angie: in quell'intrico di fili e prese non ci capivo assolutamente un cavolo.

«Ecco qua» concluse il ragazzo, al termine di una lunga spiegazione della quale avevo capito sì e no tre parole. «Vedi la lucina rossa, qui a fianco? Se si illumina, significa che la televisione è funzionante.»

Annuii. Era quella fastidiosa luce vagamente paranormale davanti alla quale saremmo state costrette a mettere un cuscino tutte le notti, se avessimo voluto dormire in pace.

«Sì, quella che ogni notte ti fa credere che gli alieni siano atterrati per sbaglio nella vostra stanza» aggiunse, ridacchiando.

Lo fissai, chiedendomi se possedesse pure il dono della chiaroveggenza, e il riso mi sfuggì dalle labbra.

«Grazie» dissi poi, un po' più distesa. Sentivo che adesso sarei anche stata in grado di mettere tre o quattro parole in fila. Tre, magari.

«Figurati!» fece lui, sorridendo. «A proposito, non ci siamo neanche presentati. Io sono Shadow.»

«Io sono Kia» risposi, sistemandomi nervosamente i capelli dietro le orecchie.

Il ragazzo, infatti, aveva preso a fissarmi con uno sguardo piuttosto insistente e mi chiesi distrattamente se mi fosse improvvisamente spuntato un brufolo particolarmente schifoso in faccia o se lui mi trovasse interessante. In entrambi i casi, era una pessima notizia.

«Wow, che nome particolare!» commentò Shadow, sgranando gli occhi.

Senti chi parla, pensai, soffocando a stento un risolino.

«Be', allora ci vediamo, Kia» mormorò, salutandomi con un cenno, sempre con quello stesso sguardo intenso.

Borbottai un saluto frettoloso e mi lanciai verso la porta. Di colpo, avevo un gran bisogno d'aria. Forse mi ero solo immaginata quello scintillio d'interesse nello sguardo. Sì, era senz'altro così.

«Ah, Kia!» esclamò di colpo lui, quand'ero ormai sulla soglia.

Mi bloccai ad un passo dall'aprire la porta e voltai il capo con dolorosa lentezza.

«Sì?» pigolai.

«Lo sai che profumi di cocco?» esclamò, rivolgendomi un sorriso malizioso.

Spalancai la bocca come un pesce, senza fiatare, per poi richiuderla di scatto, così come la porta. 

Rimasi un attimo ferma sull'uscio, rossa di vergogna, e rivolsi uno sguardo titubante alla porta della camera, temendo per un momento che si sarebbe aperta all'improvviso, facendo uscire Shadow, la sua malizia e il suo sguardo adesso inequivocabilmente interessato.

Oh, merda. Ma la cosa peggiore di tutta la faccenda era che, viste le mie reazioni da decerebrata, non sembravo essere rimasta affatto indifferente al fascino di lui.

Ma poi, quand'è che diamine aveva avuto modo di annusarmi?!

Una volta tornata in camera, tentai di spiegare ad Angie quel che avevo visto fare a Shadow, ma ero stata un po' troppo concentrata a fissare il suddetto invece di seguire le sue indicazioni e impiegammo un'altra mezz'ora buona per far funzionare la televisione.

«Sono stati gentili nella 18?» domandò Beth, che si stava provando l'uniforme scolastica, la quale consisteva in una camicia bianca e in una gonna tartan al ginocchio. Le avevamo trovate nell'armadio della camera e, a quanto diceva il bigliettino sopra di esse, erano obbligatorie da indossare durante le lezioni.

«Sì. Due... ragazzi» dissi in tono vago e, al ricordo delle parole che Shadow mi aveva rivolto, divenni di colpo paonazza.

«Ragazzi?» Angie si voltò nella mia direzione, improvvisamente interessata.

«Già. Io ne ho visto solo uno, in realtà» borbottai, evitando il suo sguardo.

Angie nel frattempo continuava a fissarmi in attesa che le dicessi qualcosa di più e sospirai, capendo che non avrei potuto continuare a glissare sulla questione.

«Sì, Angie, è carino» sbottai infine, levando gli occhi al cielo. «Come, be', tutti i ragazzi di questa scuola. Contenta adesso?»

Mi avvicinai al televisore, sul quale era finalmente comparsa la fantomatica lucina rossa, e ripensai alla battuta che aveva fatto Shadow.

«Ed è anche molto gentile» aggiunsi in un sussurro, sperando che nessuna di loro mi avesse sentita.

Spostando lo sguardo dalla televisione allo scaffale che vi era accanto, la graziosa scatola azzurra che avevo notato anche in camera di Shadow attirò la mia attenzione, anche perché era l'unico suppellettile di tutto il mobile.

«Ragazze, sapete cosa c'è lì dentro?» chiesi, inclinando il capo.

Arianna alzò lo sguardo dalla sua valigia. «In realtà no.»

«Uh! Fa' vedere! Fa' vedere!» Angie comparve in un attimo di fianco a me, incuriosita.

Mentre anche Beth si avvicinava, io raggiunsi lo scaffale e sollevai il coperchio. Ma, quando vedemmo cosa c'era all'interno della scatola, un urlo ci sfuggì dalle labbra.

Preservativi.

Dozzine di preservativi.

E un foglietto bianco in bella vista con su scritto "Servitevi pure".

Il coperchio della scatola mi scivolò di mano e finì a terra con un tonfo sordo.

I collegi di solito proibivano il sesso nel dormitorio. Questo sembrava addirittura incoraggiarlo!

Alzai gli occhi e incrociai lo sguardo delle mie amiche, rimaste immobili e allibite come me.

«Siamo finiti in una scuola di maniaci» pigolai, lasciandomi cadere sul letto.

«AIUTO! MA PERCHÉ?!» gridò Beth, cadendo in ginocchio sul pavimento.

«Dobbiamo fuggire da qui!» esclamò Angie, guardandosi freneticamente intorno, prima di precipitarsi alla finestra. «SUBITO!»

Presto cominciammo a fare ipotesi assurde sulla scuola, con le nostre voci che si sovrapponevano in una cacofonia di urla, lamenti e grida isteriche. Ci avevano rese irresistibili senza alcun apparente motivo. C'erano ragazzi meravigliosi dappertutto. Avevamo trovato una scatola piena zeppa di preservativi e c'era scritto di usarli tranquillamente. Cos'altro...?

«Smettetela.»

La voce seria di Arianna ci zittì all'istante. Ci voltammo all'unisono verso di lei, la sola rimasta a fissare la scatola senza battere ciglio.

«Non è una scuola per maniaci o altre porcate» mormorò, chinandosi per raccogliere il coperchio che avevo lasciato cadere.

«Certo, è insolito, ma magari questo è solo un collegio dove l'amore non è proibito. Sono solo un po' più elastici, tutto qua.»

Il realismo di Arianna di solito ci faceva tornare alla realtà con delusione, ma stavolta era stato di conforto. Non che le credessimo al cento per cento ma, almeno per il momento, un appiglio il più possibile vicino alla realtà era d'aiuto.

«Be'» proruppi, scambiando un'occhiata con Beth ed Angie, anch'esse tranquillizzate dalle parole della nostra amica. «Resta comunque da capire come mai ci abbiano ridotte cos...

Non riuscii a concludere la frase, perché la voce di Arianna mi interruppe di colpo.

«Ah, un'altra cosa... Manca dieci alle otto.»

 

Uniformi, zaini, gonne e spazzole volavano dappertutto, nella confusione generale.

Non potevamo fare tardi. Non il nostro primo giorno di scuola!

In mezzo al delirio, qualcuno ebbe la brillante idea di bussare alla porta. Ci scambiammo uno sguardo irritato, mezze svestite. Chi diamine poteva essere?

Come per un tacito accordo, puntammo tutte lo sguardo su Beth, la più vestita tra di noi, che sbuffò e andò ad aprire controvoglia. Mentre mi sfilava accanto, con i capelli tutti arruffati, mi accorsi che aveva la camicia al contrario e soffocai a stento una risata.

In ogni caso, il suo colloquio fu breve. In un attimo era già di ritorno e posò il suo sguardo su di me con aria interrogativa.

«Kia» mormorò, indicando la porta semiaperta con lo sguardo. «Uno splendido tizio ti cerca...»

Conoscevo solo uno splendido tizio in tutto l'istituto – non che ce ne fossero pochi, comunque – quindi non fu difficile per me immaginare chi fosse.

«Deve essere il nostro vicino di stanza» spiegai, sotto gli sguardi indagatori delle mie amiche, mentre mi avviavo verso la porta, con un pessimo presentimento.

«Wow, Kia, non hai perso tempo!» commentò Angie, ridendo.

Per tutta risposta, le lanciai una scarpa.

Quando aprii la porta, come prevedibile, mi trovai davanti Shadow e cercai di mantenere un certo contegno di fronte alla sua presenza.

«Ciao Kia!» esclamò lui, tutto pimpante. 

Fece per appoggiarsi allo stipite della porta, ma si ritrovò ad abbassare la testa di scatto, evitando per un soffio la spazzola che Angie mi aveva lanciato di rimando. La osservammo colpire il muro dietro di noi con un tonfo, prima di cadere sul pavimento.

«Non farci caso» mormorai, tossicchiando. «Comunque... cerchi qualcosa?»

Con mio immenso sollievo, lui non ci mise molto a riprendersi dallo shock della spazzola.

«Volevo solo dirti che siamo nella stessa classe.» Fece un sorriso furbetto e aggiunse: «Ho fatto qualche ricerca. Terzo anno anche tu?»

Lo fissai spalancando la bocca. No, non era possibile!

«Terzo anno?» riprovò lui.

Dovevo essere rimasta a bocca teatralmente aperta per qualche attimo di troppo.

«Davvero?» esclamai, boccheggiando. «Sì, sono al terzo... allora ci vediamo di sotto!» riuscii infine a dire. Sarebbe stata dura averlo come compagno di classe, sia per i miei ormoni che per la mia integrità morale.

«A dopo!» concluse lui, salutandomi con la mano. 

Fece per avviarsi, ma poi parve ricordarsi della spazzola, rimasta nel bel mezzo del corridoio. La raccolse da terra e me la passò con un sorriso. Nel farlo, le nostre dita si sfiorarono per una frazione di secondo.

«Carino il reggiseno, comunque» bisbigliò lui strizzandomi l'occhio, prima di sparire giù per le scale.

Abbassai lo sguardo e mi sentii avvampare. Merda. Da un lato, la camicia dell'uniforme era rimasta impigliata nella spallina del reggiseno.

Rimasi immobile, pietrificata al pensiero di aver parlato fino a quel momento con un ragazzo con metà reggiseno in bella vista.

«Io volevo dirtelo..!» mi bisbigliò Beth all'orecchio, comparsa all'improvviso dietro di me. «Ma il ragazzo sembrava così impaziente...»

«BETH, VUOI MORIRE?!»

«Ragazze, sbrigatevi, sono le otto in punto!»

Spettinate e con metà bottoni delle camicie saltati, arraffammo gli zaini e ci lanciammo in una rocambolesca corsa giù per le scale. Una volta giunte nell'atrio, avevamo tutte e quattro il fiatone.

Ci affrettammo a chiedere alla bidella dove fosse la nostra sezione che, con nostra fortuna, si rivelò essere situata proprio dopo l'atrio, subito sulla destra.

Ci avviammo a passo veloce in quella direzione ma, dopo un momento, Beth, Arianna ed io realizzammo che Angie non era con noi.

Voltandoci verso l'atrio, la vedemmo ferma di fronte alle macchinette automatiche. Notando che la stavamo fissando ad occhi sgranati, lei agitò gli spiccioli che aveva in mano nella nostra direzione.

«La corsa mi ha messo sete» spiegò in tutta calma.

«Angie!» protestai, cercando di parlare a voce bassa, visto che la bidella di prima continuava a lanciarci delle occhiate perplesse. «Siamo in ritardo!»

Lei scrollò le spalle con noncuranza e, dopo un attimo, era già tornata a guardare la macchinetta davanti a sé.

Voltandomi verso le mie amiche, vidi che Beth stava scrollando le spalle, come se non avesse idea di cosa fare, mentre Arianna scuoteva la testa con aria rassegnata, con l'aria di chi, invece, aveva già assistito a quella scena un centinaio di volte. Inutile ricordarle che eravamo in un ritardo spaventoso, ci disse: se Angie aveva sete, Angie doveva avere una bottiglietta d'acqua.

Dopo averle lanciato un ultimo sguardo, ci rassegnammo a lasciarla sola e ci avviammo in classe.

 

Angie si parò davanti ad una delle macchinette situate nell'atrio, rigirandosi gli spiccioli fra le dita.

Mentre cercava con gli occhi il costo delle bottiglie d'acqua, provò la spiacevole sensazione di essere osservata. Nel riflesso nel vetro vide che un ragazzo, comparso all'improvviso dietro di lei, la stava fissando.

Lo sconosciuto aveva corti capelli castani scuri e magnetici occhi verdi, un naso che aveva tutta l'aria di essere stato rotto e un sorriso strafottente sul volto che Angie trovò fin da subito piuttosto irritante. Era la classica espressione da bulletto tormentato, che intimoriva i ragazzi più piccoli e che faceva arrossire le ragazzine. In entrambi i casi, per paura o per fascino, chiunque l'avrebbe lasciato passare avanti. Ma non Angie Stevens.

«Che cazzo hai da guardare?» l'apostrofò lei, voltandosi.

Si accorse subito che il ragazzo la sovrastava di almeno un palmo, ma non si lasciò intimorire e sollevò il mento verso di lui in segno di sfida.

Il sorrisetto del ragazzo si spense all'istante e i suoi occhi si strinsero.

«Ce l'hai con me?» mormorò poi, inarcando un sopracciglio. Sembrava sinceramente stupito dall'atteggiamento spavaldo di lei.

Angie si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, beandosi della confusione che gli balenava negli occhi. Credeva forse di spaventarla, con quell'aria da ragazzaccio? Aveva a che fare con stronzetti del genere tutti i giorni, a Dublino. Persino l'accento le ricordava un po' casa sua.

In ogni caso, Angie dovette ammettere che lo sconosciuto non ci mise molto a riprendersi dalla confusione. E a passare al contrattacco.

«Mi stavi coprendo la visuale» disse, senza darle il tempo di replicare. L'afferrò per la gola e la spinse contro il vetro delle macchinette, strappandole un gemito.

Angie boccheggiò in cerca d'aria e, dopo un istante che le parve lungo un'eternità, il ragazzo allentò la presa sul suo collo e la lasciò andare.

Tenendo gli occhi fissi a terra e inspirando a pieni polmoni, Angie deglutì: nel farlo, percepì un'acuta fitta di dolore alla gola e serrò istintivamente i pugni. Non riusciva a credere a ciò che quello stronzo le aveva appena fatto. Nel punto in cui aveva sbattuto il vetro, la nuca le bruciava da impazzire, ma era così arrabbiata che il dolore svanì insieme alla sete. Come si permetteva?

«La sai una cosa?» proruppe, alzando gli occhi su di lui. La voce le usciva un po' roca, ma non se ne preoccupò. «L'avevo visto dal vetro, che la tua era proprio una faccia da schiaffi. Anzi, da calci.»

Con uno scatto fulmineo, sollevò la gamba e lo prese in pieno volto con la scarpa, facendolo indietreggiare di qualche passo.

Il ragazzo si portò una mano alla guancia tumefatta, le dita viscide di sangue, e la fissò con autentico stupore. Non doveva essere abituato a incontrare ragazzi al suo livello, pensò Angie. Soprattutto, be', quando non erano ragazzi.

«Peccato che al naso ci abbia già pensato qualcun altro. Sono un po' gelosa» mormorò lei, facendogli il broncio.

«Brutta stronza.»

Dopo un attimo, il ragazzo l'aveva inchiodata di nuovo contro il vetro delle macchinette, sferrandole un pugno nello stomaco che la piegò in due.

Angie soffocò un gemito e urlò di rabbia, liberandosi dalla sua stretta e caricando il pugno. Voleva abbattersi sulla sua faccia e cancellargli quell'odioso sorrisetto una volta per tutte.

Erano entrambi troppo occupati a darsele di santa ragione per accorgersi della figura infuriata che stava venendo verso di loro.

«COSA STATE FACENDO?!» sbraitò, dividendoli.

Angie si trovò di colpo lontana dal suo avversario, che continuò a fissare in cagnesco, trattenendosi a stento dallo sputargli addosso. Una figura, infatti, si era improvvisamente intromessa tra di loro e la ragazza sbatté le palpebre: conosceva quel tizio. Era il custode che le aveva condotte alla macchina, un paio d'ore prima. Gérard.

«Harris, ancora tu?» Gérard si rivolse al ragazzo ed Angie notò che l'espressione del custode non sembrava più furiosa, quanto delusa.

L'odioso tipo si limitò ad abbassare lo sguardo a terra, senza dire una parola.

A quel punto, il custode si rivolse ad Angie. «E tu... la nuova arrivata?» mormorò, squadrandola da capo a piedi.

Angie pensò che la sua non dovesse essere esattamente la migliore delle presentazioni: l'uniforme era tutta sgualcita e sporca di sangue e, anche se non poteva vederli, sapeva che i suoi capelli in quel momento dovevano assomigliare ad un cespuglio. Si limitò a rivolgere a Gérard un sorriso sornione.

«Cominci bene» commentò lui, stringendo gli occhi. A quanto pareva, non era un individuo granché compassionevole. «Tutti e due in presidenza.»

Angie aprì la bocca per protestare, ma il custode non gliene diede il tempo. Li afferrò tutt'e due per il colletto della camicia e li trascinò lungo il corridoio, fino all'ufficio della preside.

In presidenza li attendeva una bella ramanzina, con tanto di punizione. Con una certa ironia, Angie realizzò che aveva conosciuto prima la preside dei suoi professori. Non era mai finita in presidenza così presto e, mentre la donna parlava, in Angie cresceva l'odio per colui che l'aveva fatta finire lì.

Tornò verso la sua classe a passo di carica, col sangue che le ribolliva. Si sentiva offesa e indignata, tutto per colpa di quell'odioso individuo. Ma non l'avrebbe passata liscia. Night Harris, così si chiama quel completo idiota, l'avrebbe pagata cara.

Ad Angie quasi venne un infarto quando vide che il ragazzo lo stava seguendo.

«CHE DIAVOLO VUOI ANCORA DA ME?» sbraitò, bloccandosi nel bel mezzo del corridoio.

«Non posso andare in classe, Gonnellina al Vento?» mormorò lui con sufficienza, superandola senza degnarla di uno sguardo.

«Come diavolo mi hai chiamat... CHE COSA?!»

Angie rimase a bocca aperta, paralizzata, gli occhi fissi sul ragazzo che continuava ad avanzare tranquillo verso la sua classe. La loro classe. 

Se solo non li avesse amati così tanto, in quel momento Angie si sarebbe volentieri strappata i capelli. Non solo quello stronzo le aveva appena affibbiato un assurdo nomignolo ma, a quanto pareva, erano entrambi al terzo anno, nella sezione C.

Angie si sentiva di colpo svuotata di ogni energia. Con aria sconsolata, si rassegnò a seguirlo a capo chino ma, un attimo prima di entrare, Night si appoggiò alla porta chiusa della classe e si voltò verso di lei, sbarrandole la strada.

Angie sbuffò, incenerendolo con lo sguardo. La tentazione di farlo fuori era irresistibile. Solo il pensiero che finire per la seconda volta in presidenza nel giro di cinque minuti non fosse esattamente un'idea saggia la convinse che la sua vendetta avrebbe dovuto attendere.

«Sappi che la pagherai» sibilò, scattando in avanti e cercando di raggiungere la maniglia, incurante del corpo di lui che si frapponeva fra lei e la porta. Si diverte così tanto a provocarmi?

«Lasciami entrare, idiota!»

«Non ho mai incontrato una ragazza come te, lo sai?»

Night continuava a fissarla con un'aria al contempo curiosa e divertita. All'improvviso si chinò su di lei, con un gesto repentino che la colse del tutto alla sprovvista.

Pensando che stesse per colpirla di nuovo, Angie trasalì e scoprì i denti, ma Night aveva altre intenzioni. Si fece così vicino al suo volto che per un attimo la ragazza pensò che lui l'avrebbe baciata e impallidì alla sola idea.

«Penso proprio che ci divertiremo» bisbigliò, rivolto alle sue labbra.

Rossa di rabbia, Angie allontanò la testa e fece per protestare, ma lui aprì di scatto la porta dietro di sé e i due furono costretti ad entrare in classe.

 

Ciao!

Eccovi il capitolo due, dove fanno la loro entrata in scena Night, personaggio chiave della nostra storia, e il suo vivace compagno di stanza, Shadow! Chiedo venia per i nomi vagamente trash: evidentemente la me tredicenne e le sue amiche credevano che dare ai ragazzi nomi di agenti atmosferici accrescesse in qualche modo il loro sex appeal. Boh, non so cosa ci fumassimo.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere!

Un bacio.

  
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