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Autore: Carmen Black    22/09/2013    10 recensioni
Bella è una ragazza di quindici anni che si ritrova a dover traslocare in un altro paese a causa del lavoro del padre. L'ultimo saluto e le ultime lacrime le riserva al suo ragazzo Edward e a malincuore va via, lasciandolo alla sua vita.
Ma il destino non sempre è crudele e anche a distanza di tanti anni, quando sono diventati ormai un uomo e una donna adulti, li farà ritrovare...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Jasper Hale | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Beige
 
Beige è sporco, come a volte si trasforma qualcosa che tocco.
Beige come lo sfondo della mente quando non riesci a scacciare una sensazione opprimente.
Beige come la luce che ti illuminava quella sera, un angelo accorso per salvarmi, sembravi.
 
 
 
 

Non riuscivo a credere ai miei occhi.
Il respiro mi si era congelato nel petto e la bocca si stava spalancando sempre di più.
Ed ecco che la punizione per il mio orribile comportamento era arrivata cogliendomi impreparata, nonostante la stessi aspettando ormai da parecchio.
L’abitacolo dell’auto di Edward era diventato soffocante, le mie dita poggiate mollemente sulla maniglia della portiera erano paralizzate.
Riley era al di là del finestrino, con le occhiaie vistose e la giacca abbottonata malamente, come se lo avesse fatto di tutta fretta.
Solo poche ore prima gli avevo lasciato un messaggio in segreteria avvisandolo di volergli parlare. Sì, ero immersa nella vasca da bagno quando lo avevo fatto e subito dopo ero corsa da Edward all’Hurricane, dimenticandomi completamente di lui. Nemmeno avevo considerato la possibilità che venisse a cercarmi in anticipo rispetto all’appuntamento che gli avevo dato per l’indomani.
In qualche modo riuscivo a percepire la rigidità di Edward al mio fianco, ma ero troppo agitata per accertarmi di che espressione avesse davvero.
«Bella?», Riley mi richiamò. Sembrava confuso. Batté due dita sul finestrino arricciando le labbra. «Bella, scendi da quest’auto».
Deglutii e annuii mordicchiandomi l’interno di una guancia. Sperai con tutto il cuore che non scoppiasse un putiferio per via della presenza di Edward, perché a quel punto non sarei stato in grado di perdonarmelo.
Aprii la portiera facendomi coraggio. «Ciao Riley», dissi più tranquillamente possibile, evitando di fare trasparire il mio nervosismo.
«Che cosa ci fai in giro a quest’ora?».
«Sono andata a bere qualcosa con dei colleghi».
«E quello chi diavolo è?», ringhiò indicando Edward con il mento, strizzando leggermente gli occhi. Aveva la fronte imperlata di sudore nonostante il freddo pungente e strascicava le parole.
«Lo hai già conosciuto nel mio ufficio, non ricordi?», abbozzai un sorriso ma se avessi potuto avrei inghiottito il mio stesso cuore. Stavo per morire d’infarto.
Avevo sperato di uscire da quella storia  senza sporcarla più del dovuto, purtroppo però avevo la netta sensazione di essermi giocata quella possibilità.
Riley mi ignorò e barcollò appoggiandosi al bordo superiore della portiera. «Ehi tu, che cosa vuoi dalla mia ragazza?».
«Le ho solo dato un passaggio», replicò Edward inespressivo, ma notai che stringeva il volante, le sue nocche erano sbiancate.
«Solo un passaggio? E perché non te ne vai?».
«Riley…», feci per prendergli il gomito e lui si divincolò cadendo quasi per terra. Si riprese subito e mi afferrò le braccia strattonandomi. «Vai a letto con quel tipo, eh! Dovevo immaginarlo!».
Era ubriaco. Ubriaco perso. Il sentore dell’alcol nel suo alito era inequivocabile insieme al suo aspetto trasandato e al suo atteggiamento inusuale.
«Le ho solo dato un passaggio», ripeté Edward apparso al mio fianco dal nulla. «E le stai facendo male», continuò con tono piatto indicando le sue mani strette intorno alle mie braccia.
«Vattene via! Perché sei ancora qui!», sbraitò con occhi iniettati di rabbia.
«Perché sei ubriaco».
«Io non sono ubriaco, vattene!».
Conoscevo bene Riley e sapevo che se Edward avesse continuato a stare lì, sarebbe esploso più di quanto non stesse già facendo. Dovevo fare in modo di evitarlo. Di evitare almeno quello.
«Edward è tutto okay, davvero», cercai di dire.
Lui in risposta mi gettò un’occhiataccia che mi fulminò all’istante.
«Hai sentito che cosa ha detto la mia ragazza? Leva le tende, amico. E levati dalla testa anche tutte le idee che ti sei fatto su di lei».
«Riley, basta», gli toccai una spalla e lui si passò il dorso della mano sulla bocca, drizzando la schiena. «Adesso andiamo in casa e chiudiamo qui questa sceneggiata», conclusi.
Mi attirò a sé con uno strattone facendomi rischiare di cadere su quei tacchi che avevo indossato. «Bene, andiamo».
Cercai le chiavi nella borsa e gliele passai. «Ti raggiungo subito, dammi un minuto per salutare Edward».
Riley gettò un’occhiata furtiva prima a lui e dopo a me, poi si voltò di spalle. «Sto già contando i secondi, muoviti», bofonchiò a stento.
Nel momento in cui si voltò di spalle per raggiungere il portone dell’edificio, i miei occhi e quelli di Edward si incontrarono subito. Avevo immaginato di leggerci rabbia, gelosia e disappunto e invece no, non c’era niente di tutto ciò. Era solo preoccupato.
Avrei voluto tanto abbracciarlo forte, stringerlo a me e non allontanarmi mai più da lui.
Teneva le mani nelle tasche posteriori dei jeans e anche se faceva un freddo cane ed era senza giacca, non sembrava avvertire freddo.
«Edward, mi spiace. Non doveva andare a finire così».
«No, di sicuro».
«Ora devo andare», dissi gettando un’occhiata furtiva verso Riley e vedendolo fermo, poggiato contro il muro a fissarci.
«Bella, è ubriaco».
«Lo so…».
«E lo stai portando nel tuo appartamento in quelle condizioni?».
«Non preoccuparti, lo conosco, non mi farà del male».
«Be’ per come ti ha stretto poco fa, non si direbbe affatto…».
«Edward fidati di me», sussurrai impaziente stringendomi le braccia al petto.
«Io di te mi fido. Di lui no».
«Gli parlerò, gli dirò che voglio concludere la nostra storia. Dovevo incontrarlo domani, ma adesso che è qui, non rimanderò ancora».
«Tu non farai un bel niente», ringhiò. «Non sai come reagirebbe in quelle condizioni e non voglio che ti faccia del male», strinse i denti. «Maledizione, stammi a sentire».
«Va bene», cedetti per non farlo preoccupare. «Farò come mi chiedi e aspetterò che gli sia passata la sbronza. Hai ragione tu».
Edward annuì un po’ sollevato e si accinse a tornare in auto. «E digli di tenere le mani a posto se non vuole che gli spezzi le dita una a una».
Espirai forte con un senso di vertigine che mi fece spostare il peso da un piede all’altro.
Mise in moto e andò via lasciandomi un gran vuoto dentro. Nonostante Riley fosse a qualche passo da me e avevo rischiato per un pelo un casino di quelli epici, non riuscivo a smettere di pensare a Edward e a come già mi mancava. E a come mi sentivo stranamente inutile e vuota senza averlo al mio fianco.
Io e Riley entrammo nell’edificio in silenzio, passando dalla reception dove Aro sonnecchiava su una poltrona. Senza svegliarlo salimmo in ascensore fino al mio appartamento.
Mentre camminavamo sulla moquette che conduceva al mio appartamento sentivo un peso che mi schiacciava lo stomaco. Come avrei fatto a resistere fino al giorno dopo, rimandando il discorso che dovevo fargli? Il discorso con cui lo avrei lasciato definitivamente?
Girai la chiave nella serratura ed entrai in casa, accendendo la luce. All’interno era tutto in ordine fatta eccezione di un paio di pantofole lasciate di fronte al divano. Le tende erano tirate e i libri impilati negli scaffali in ordine di grandezza.
Lasciai la borsa e il cappotto all’appendiabiti e poi mi girai verso Riley che si passava distrattamente una mano fra i capelli e si lasciava ricadere sul divano con un tonfo.
 «Quando esci con me non indossi mai quelle scarpe», asserì indicando malamente i tacchi che indossavo.
Mi strinsi nelle spalle. «Stasera mia andava. Senti Riley perché non vai in bagno a fare una doccia, eh? Sei ubriaco e ti farà bene».
Mi gettò un’occhiata in tralice allargando le braccia sulla spalliera.
Le luci dorate del lampadario accentuavano il suo incarnato pallido, le sue occhiate e le pupille dilatate.
«Dio, ma quanto hai bevuto?», non riuscii a trattenermi dall’esclamare.
«Un po’», disse divertito. «E tu quanto ti sei divertita con quello lì? È per quello che mi vuoi lasciare, eh? Non sono stupido, Bella».
«Riley, sei ubriaco…», mi voltai di spalle aprendo una credenza della cucina e afferrando un bicchiere. «Ascoltami, vai a fare una doccia e riposa».
«Non dirmi quello che devo fare», ruggì fra i denti.
Mi versai dell’acqua e ne bevvi un paio di sorsi. Per quanto mi sentissi agitata, in un modo che non capivo stavo mantenendo la calma.
«E va bene, come vuoi».
«Ho sentito il tuo messaggio in segreteria», disse stropicciandosi il viso. «Non voglio più rimandare questa faccenda, mi sta logorando. Ora dimmi ciò che devi».
«Non mi sembra…».
«Parla!», mi ammonì alzandosi di scatto dal divano. Barcollò per un attimo e non appena ritrovò l’assetto giusto si cacciò il giubbino sbattendolo su una sedia vicina. «Mi sono stufato. Stufato! Stufato di te e della tua dannata insicurezza. Stufato di me che ti vengo dietro da anni. Parla!».
Lo guardai col battito del cuore accelerato e quelle parole che ormai conoscevo a memoria, le parole per lasciarlo, bloccate sotto la lingua.
«Come vuoi».
«Dannazione! Finalmente!», si mise le mani sui fianchi. «Anzi, prima voglio sapere che cosa c’è tra te e quello che ti ha riaccompagnato. Non ho intenzione di passare per l’imbecille della situazione, intesi?».
«Mi ha solo riaccompagnato, te lo ha detto anche lui», mentii.
«Mi lasci in un limbo a disperarmi per capire il perché di questa cazzo di crisi improvvisa e poi esci con i tuoi amici e ti fai riaccompagnare da uno sconosciuto che si permette anche il lusso di mettere bocca su come ti tocco!».
Strinsi la foglia che portavo intorno al collo con un gesto involontario. Più trascorrevano i secondi e più Riley si infuriava e si avvicinava. Barcollante o no, lo stava facendo.
Non trovai nulla da dire e arretrai di un passo incontrando l’acquaio dove mi appoggiai.
«Proprio a poche settimane dal matrimonio, perché!? Perché questo cambiamento!? Perché dopo aver quasi ultimato i preparativi del matrimonio!?».
«Perché ho capito di non amarti», sussurrai reprimendo le lacrime.
Anche se lo stavo lasciando, volevo bene a Riley e mi detestavo per le pene che gli stavo infliggendo. Ma aspettare ancora significava altre menzogne e altre sofferenze. Era ora di dire definitivamente basta.
Riley socchiuse gli occhi, le labbra storte in una smorfia disgustata e incredula. «Non mi ami», soffiò piatto. «E da quando?», scoppiò in una fragorosa risata prima di azzerare la distanza che ci separava e stringermi le braccia come aveva fatto poco prima in strada.
«E da quando lo sai?», mi urlò contro strattonandomi. «Da quando non mi ami? Lo sapevi prima di illudermi, prima di accettare di sposarmi? Eh, lo sapevi?».
«Mi stai facendo male! Riley, lasciami!».
«Mi fai schifo!», mi urlò in faccia con gli occhi scuri iniettati di rabbia e i lineamenti deformati da quel sentimento tanto forte. Poi mi tirò uno schiaffo colpendomi la guancia e parte delle labbra.
Sgranammo gli occhi all’unisono, increduli.
Me lo meritavo… ne ero più che consapevole, come ogni persona che sa guardare bene dentro di sé e sa che cosa è bene che gli accada. Nonostante ciò era l’ultima azione che avrei mai immaginato di vedere Riley compiere. L’ultima.
«Scusami Bella, io non…».
Sentii le lacrime bagnarmi le ciglia e poi scendere giù, roventi sulle guance. Mi divincolai dalla sua presa ancora salda e andai verso l’entrata afferrando velocemente il cappotto e la borsa.
«Dove stai andando, Bella? Aspetta! Scusa!».
Con un groppo in gola uscii di casa incespicando più volte sui gradini, viste le lacrime che mi offuscavano gli occhi.
Uscii nella notte, il freddo mi colpì il viso come una lama, le narici invase dall’odore tipico di New York, smog e umidità.
Camminai a passo frettoloso sul marciapiede desolato, costeggiato da decine di  auto in fila. Al primo angolo svoltai poggiando la schiena contro il muro.
La guancia mi pulsava e sulle labbra avevo il sapore del sangue. La gola mi si era rinsecchita e lo stomaco era in tumulto come se una mano gigante lo stesse rivoltando dall’interno.
Mi portai le mani sul viso e iniziai a piangere sommessamente nel bel mezzo della notte, sotto a un cono di luce emanata da un lampione, a ridosso di un muro sporco. Sembrava la scena di uno stupido film di infimo ordine.
Il mio pianto ininterrotto non era a causa solo del ceffone, però. Era scaturito da giorni e giorni di tensioni accumulate, di desideri repressi, di bugie su bugie. Quel pianto sapeva di tristezza e liberazione, di pentimento per le azioni commesse e di amore.
«Bella…».
«Ti prego vai via», singhiozzai coprendomi ulteriormente il viso. Dovevo avere un aspetto orribile, il trucco sbavato, il naso rosso e un taglietto sulle labbra.
«Bella sono io…».
«Lo so, Edward».
Mi toccò la spalla. «Guardami».
«Perché non sei andato via? Perché sei qui? Non voglio che tu mi veda così».
Edward mi prese entrambe le mani e me le scostò dagli occhi portandosele vicino al petto ed io immersi subito il viso nel bavero del cappotto, strizzando gli occhi.
«Che cosa è successo?», chiese piano sfregandomi le mani nelle sue.
«Quello che doveva succedere…».
«E perché sei corsa via in quel modo?».
Scossi la testa tirando su col naso. Il fatto che Edward non fosse andato via, che fosse rimasto lì, come un angelo custode a vegliare su di me, mi faceva sentire il cuore leggero. La donna più felice del mondo. Ma come potevo essere felice se stavo facendo soffrire un uomo? Alla mia meschinità non c’era fine.
«Bella, guardami».
Presi un profondo respiro sentendo la lingua incollata al palato e le labbra secche. Alzai il viso e incontrai i suoi occhi.
Con la luce del lampione che si irradiava dall’alto, Edward sembrava avere un alone intorno, un misto tra il bianco e il dorato, beige. Forse era davvero un angelo.
Ma no, che sciocca, ovvio che non lo era. Perché se fosse stata una di quelle creature i suoi occhi non si sarebbero incupiti a quel modo e la sua bocca dalle forme morbide appena accentuate non si sarebbe storta in una smorfia d’ira. «Che cosa ti ha fatto?».
«Niente Edward, per favore…».
«Ti ha colpito?», trattenne a stento un urlo ispezionandomi il labbro spaccato. «Ti avevo chiesto di non parlargli in quelle condizioni, Bella!».
«Non ne ho potuto fare a meno, ha insistito».
«Ora gli faccio vedere io», ringhiò lasciando ricadere le mie mani nel vuoto.
«No, per favore!», lo implorai riafferrando bloccandolo. «Portami via di qui. Adesso».
Strinse i denti trattenendosi a stento. L’eco delle nostre voci si disperdeva per la strada desolata, gli unici spettatori inconsapevoli erano i palazzi circostanti, alti e bui e un gatto maculato che si leccava pigramente una zampa dall’alto di una scala antincendio.
Mi guardò a lungo pensando chissà cosa, con gli occhi azzurri e intensi che si perdevano nei miei come a volermi leggere dentro. Mi strinse forte a sé, baciandomi forte la fronte. «Come vuoi tu amore mio. Andiamo via».



Angolino Autrice

Ciao a tutti e buona domenica! Vi annuncio che il prossimo capitolo sarà l'ultimo della prima parte della storia, poi inizierò a postare la seconda parte con una gamma di colori differenti ^_^
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto i complimenti e mi supportano sempre <3
Come vi ho detto la scorsa volta, vi lascio il link per scaricare l'antologia in ebook, dove c'è una mia shot che ha vinto il concorso. Non è niente di eccezionale, ma sono felice che sia stata scelta :D. La mia storia si chiama Un Occhio Per La Vita THE JOURNEY
Poi visto che mi sono fissata con Teen Wolf, vi lascio il link di un'altra shot su Derek, se vi piace il genere fateci un salto!LUCE 
Alla prossima, un bacione!
  
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