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Autore: Justonelook    23/09/2013    1 recensioni
Dal testo: "Ania voleva essere tutto, ma non riusciva, e piuttosto che essere chiunque, preferiva essere niente."
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ania.

 
“Porca troia!”
Quel cazzo di freddo pungente l’aveva fatta rabbrividire e sentiva già il naso pizzicarle pronto per uno starnuto.
Dopo una settimana di sole e cielo sereno era uscita senza giacca non prendendosi nemmeno la briga di controllare fuori.
Ora che ci faceva caso vedeva che densi nuvoloni grigi avevano coperto ogni cosa, i raggi del sole quanto gli ultimi piani dei palazzi più alti. Probabilmente avrebbe piovuto.
Prima che il gelo potesse entrarle in circolo nel sangue aveva già cambiato idea riguardo alla sua passeggiata pomeridiana e stava pigramente risalendo le scale di marmo che conducevano al secondo piano di un noioso condominio, con un’anonima porta di un comune appartamento familiare, nel quale la ragazza entrò calciando lo zerbino.
Chiuse a chiave la serratura sotto lo sguardo divertito del fratello che le aveva consigliato di coprirsi prima di uscire e che lei, puntualmente, aveva ignorato.
“’Sta zitto.” Disse lanciandogli un’occhiataccia mentre sgattaiolava in cucina.
Prese la prima sedia scricchiolante che si trovò a portata di mano e la usò come scala per aprire le ante più in alto, che la sua scarsa statura le impediva di raggiungere.
Prese la caffettiera e la riempì, la mise sul fuoco e mentre aspettava andò in camera sua. Le piaceva quella stanza. Le piaceva perché la sentiva sua e di nessun’altro. Aveva cercato di renderla il più possibile unica, e credava di esserci riuscita. Sperava che la gente entrandoci avrebbe riconosciuto il suo tocco in ogni dettaglio.
La partete affianco al letto pieno di cuscini era stata riempita con mano tremante dalle sue citazioni preferite.
”Carpe  diem.” Diceva una, e spesso guardandola sperava di poter rispondere: “L’ho fatto.”
Qua e là sul muro si potevano scorgere fotografie della sua infanzia e la libreria già colma di libri sembrava pregare perché altri si aggiungessero alla collezione.
Ania si levò le scarpe con un gesto meccanico facendole volare diritte verso la scrivania al lato opposto della stanza.
In men che non si dica calzini, maglietta e pantaloni si unirono in un mucchio sul letto sfatto, per il quale sua madre, più tardi, si sarebbe certamente infuriata.
Si stiracchiò le dita dei piedi intorpidite sul fresco parquet e distese le braccia gustandosi quei pochi secondi di seminudità che la facevano sentire libera.
Tirò fuori dalla cassettiera un paio di calzettoni neri, pesanti e lunghi, le arrivavano fino al ginocchio, e da un cassetto più in basso un maglione color crema che la copriva fin poco sotto il sedere.
La sensazione della lana a contatto diretto con la pelle nuda era abbastanza piacevole, si sentiva come in un morbido e caldo abbraccio, uno di quelli di cui lei sentiva di avere un gran bisogno.
Si affrettò ai fornelli avvertendo l‘aroma del caffè stuzzicarle l’olfatto.
Una volta presa la sua tazza e versatoci dentro la bevanda calda, aggiunse una goccia di latte e un po’ di zucchero. Il caffè troppo amaro non e piaceva, ma neanche troppo dolce, così le prima volte che lo aveva provato per lei era stata un’impresa trovarele giuste dosi, ma oramai andava d’abitudine.
Sapeva che le combinazioni migliori, quelle in cui due sapori differenti si uniscono tra loro in perfetta armonia, erano sempre difficili da scovare, e inneffetti, pensava la stessa cosa dei rapporti umani.
Strinse con entrambe le mani la tazza e sentì quel calore rassicurante diffondersi per tutto il suo corpo.
Tornata in stanza si accoccolò nella maniera più comoda possibile sulla sedia della scrivania, guardando la strada fuori. Aspettava che iniziasse lo scrosciare della pioggia.
Ania si sciolse i capelli dalla treccia con cui li aveva raccolti, scostandoli su un lato, ed essi le ricaddero morbidi sul seno.
Erano lunghi, arruffati e annodati, troppo sottili perché le cose andassero diversamente. Aveva troppa paura di tagliarli in una di quelle acconciature quasi maschili che le piacevano, se poi li avesse voluti far riscrescere sarebbe dovuta passare per un taglio intermedio, e lo avrebbe odiato.
Al contrario che per il sapore del caffè, riguardo ai capelli non accettava le mezze misure, per lei erano o lunghi o corti, o tutto o niente. Le vie di mezzo sono per gli indecisi, lei non voleva esserlo. Lei era tzunami o mare piatto, non onda. Era tempesta o sole accecante, non nuvoloso. Nero o bianco, mai grigio. Ania voleva essere tutto, ma non riusciva, e piuttosto che essere chiunque, preferiva essere niente.
Quando finì il suo caffè si rese conto che le gocce avavano cominciato a scendere e stavano piano piano formando delle pozzanghere nel giardino e nelle buche sul marciapiede. Restò a osservare la pioggia inzuppare il terreno e lavare le macchine. Non aveva nient’altro da fare.
Con calma si alzò dalla sedia e aprì la portafinestra per affacciarsi in balcone. Sporse un braccio oltre il bordo protetto dai piani superiori fino a quando la sua pelle non iniziò a coprirsi di minuscole goccioline fredde e umide.
Aveva voglia di scendere in strada senza ombrello. Stare lì sotto a prendersi l‘acqua lasciando che questa le lavasse via ogni pensiero, ma si sarebbe presa un raffreddore. Non che le importasse più di tanto di ammalarsi in realtà, ma avrebbe significato restare a casa per almeno un paio di giorni sotto stretta sorveglianza di sua madre, e no, di questo non aveva voglia.
Rientrò in stanza chiudendosi dietro la portafinestra. Si stava alzando il vento e voleva evitare il fastidioso concerto delle porte che sbattono, da esso causato.
Tirò su col naso,‘sta a vedere che quel maledetto rafreddore le sarebbe venuto comunque, e si gettò sul letto, accanto ai suoi vestiti, assicurandosi di mantenere un contatto visivo con la pioggia scrosciante.
Si accartocciò come una pallina di carta stagnola, piegando le gambe contro il petto, in modo da infilarle sotto il caldo maglione.
Si schiacciò con la schiena contro il muro ad un lato del letto, quella posizione la faceva sentire al sicuro. Immaginava di essere abbraciata da una ragazzo, nessuno in particolare, solo qualcuno che la stringesse nel sonno, perché si sentisse protetta, perché si sentisse meno sola.
Per un po’ fissò con sguardo perso la libreria davanti a lei, immaginandosi sussurate all’orecchio parole che nai le erano state dette, da un perfetto sconosciuto, che gliele cantava come una ninna nanna. E così, sognando come sempre, come tutti, ciò di cui più aveva bisogno, si addormentò, con il cuore caldo, cullato dalla dolcezza delle sue stesse fantasie.
Fu svegliata da delle grida, i suoi genitori litigavano, di nuovo, non c’era da stupirsi in fondo, sembrava essere il loro passatempo preferito. In realtà Ania sapeva benissimo che neanche per loro era un divertimento discutere per ogni cosa, ma era davvero stanca di ascoltarli. A volte le capitava di chiedersi come mai non l’avevano ancora fatta finita, ma cacciava subito via il pensiero.
Tentò di rimanere ad occhi chiusi, sperando di riaddormentarsi, di riacchiappare il sogno, ma è inutile, lo sanno tutti. Oramai era sveglia, tanto valeva alzarsi.
Con un lungo sbadiglio prese la tazza che aveva lasciato sulla scrivania e trascinando i piedi andò in sala.
“’Sera.” Disse per annunciare la sua presenza.
“Ehi, perché dormivi? Non stai bene? Ecco, vedi, a stare sempre scoperta…”
“No, mamma, sto bene, avevo solo sonno.”
“Ecco, appunto, se tu la notte dormissi anzi che mandare messaggi fino a chi sa che ora…”
Fantastico. Dieci minuti, era tornata da massimo dieci minuti e già si lamentava.
“E quella vedi di metterla in lavastoviglie.” Concluse sua madre gettando un’occhiataccia alla tazza.
Ania mugulò in assenso.
Obbedì agli ordini, dopodichè prese la bottiglia d’acqua e bevve qualche sorso a canna, nascondendosi dietro la porta del frigorifero, sperando che i suoi non la notassero. Stava per tornare al suo amato letto quando fu bloccata per un aiuto in cucina.
“Sì, un attimo, torno subito.”
“Sempre ‘un attimo’, mai una volta che tu dica ‘subito’, ma che devi fare? Stai qui, no?”
“E un secondo t’ho detto, torno subito, mi metto le ciabatte che poi papà rompe.”
Corse in camera per controllare il telefono: 2 messaggi.
Ottimo, per quanto ne avesse voglia non poteva neanche rispodere, come minimo il suo cellulare sarebbe volato giù dalla finestra. Lo mise in tasca e tornò in cucina, ancora senza ciabatte, sotto lo sguardo nervoso della madre.
Dovette aiutarla tutta la sera a cucinare, apparecchiare e sparecchiare, mentre a suo fratello, in quanto “il più piccolo”, non fu chiesto di muovere un muscolo.
Quando fu finalmente scarcerata riuscì a leggere i messaggi, uno era di una sua amica, ma l’altro, oh, l’altro era di Ale.
Ale, o meglio, Alessandro, era un suo amico, più o meno, il loro era uno di cui rapporti a cui è difficile dare una definizione, e allora non gliela dai, li vivi e basta, così come vengono, perché tanto, anche se avessero un nome, resterebbero incomprensibili.
Era un semplice messaggio di saluto a cui lei rispose con altrettanta semplicità. Lui le aveva scritto ore fa. Si chiedeva se avrebbe guardato il telefono prima di andare a letto, se le avrebbe risposto, forse no.
Due ore, come previsto, nessuna risposta. Era stanca quella sera, più del solito, senza un preciso motivo, magari semplicemente perché non c’era lui a tenerla sveglia.
Si mise a letto e come ogni volta, ad occhi chiusi, i pensieri peggiori fecero a gara per farsi notare, ma mentre nella testa la rissa continuava, solo uno le trapanava anche il cuore: quella sera non lo avrebbe sentito. Non si sarebbero scritti per ore per poi darsi la buonanotte e andare avanti ancora senza la reale intenzione di smettere. Avrebbe dovuto aspettare l’indomani mattina per svegliarsi con il suo buongiorno. Era la tortura più dolce di tutte.
Le loro conversazioni serali erano le migliori, le più sincere e oneste, quelle con cui si stavano piano piano scoprendo, un passo alla volta, perché a diciassette anni Ania la fretta voleva farsela scivolare addosso.
Com’era bello averlo trovato, e quanto amava il modo in cui riusciva a scrivergli senza troppe censure. Era sempre stato difficile per lei aprirsi, c’erano sempre delle cose che tentava di nascondere, delle parti di sé che non voleva mostrare, ma con lui poteva ammetere di aver avuto una crisi, senza sentirsi una stupida, poteva elencargli i mille motivi per cui stava piangendo, e lui le avrebbe fatto una battuta per farla ridere. Sembrava ascoltarla davvero ogni volta che ne aveva bisogno, e lei avrebbe ascoltato lui anche per tutto il giorno se solo glielo avesse chiesto.
Aveve imparato a conoscere le sue debolezze, le sue ansie, sapeva cosa lo faceva arrabbiare e cosa ridere. Le era sembrato tanto diverso, ma ascoltandolo lo aveva scoperto indifeso e perso quanto lei, e spogliandolo della sua sbruffonaggine si era sorpresa di quanto fossero in realtà simili. Allora aveva deciso che era bellissimo, nascosto sotto strati e strati di sicurezza, e che di lui avrebbe preso tutto, persino gli scatti di rabbia e il modo in cui la prendeva in giro, anche la sua passione esagerata per il calcio e la sua incapacità di tenere la bocca chiusa, avrebbe preso tutto, sempre.
S’addormentò, sperando di essere il suo ultimo pensiero e così facendo, lui fu il suo.
7:00. Sveglia di merda. Con gli occhi socchiusi indagò sullo schermo luminoso del telefono in cerca del messaggio che sperava di aver ricevuto. Eccolo lì, come sempre, lo lesse con un sorriso.

- Scusa, l’ho letto troppo tardi, buongiorno dolcezza :)
 
Quello era tutto scemo, le tre, il giorno dopo c’era scuola e lui alle 03:17 era ancora sveglio a risponderle.
Ovviamente le avave dato il buongiorno sapendo che lei avrebbe letto la mattina dopo, che stupido, tanto valeva aspettare. Fu fulminata dal pensiero che nel bel mezzo della notte lui era sveglio a pensarla, questo sì che la faceva stare bene.
Si preparò sbrigativamente per uscire. Bevve mezza tazza di latte e impiegò non meno di cinque minuti, chiusa in bagno, solo per cercare di tracciarsi una perfetta linea nera sulla palpebra, con scarsi, scarsissimi risultati.
Per poco non dimenticava lo zaino e le chiavi, ma alla fine riuscì a uscire di casa ancora assonnata e a caricarsi sul tram in direzione del liceo.
Si infilò le cuffie nelle orecchie immergendosi nella musica.
Il mezzo pubblico era pieno, come ogni giorno, erano quasi tutti studenti della sua scuola, ma poco iportava, lei era troppo timida per unirsi al gruppo e parlare con tutti. Quelle canzoni erano il suo pretesto per non starli a sentire.
La giornata a scuola passò lenta e monotona come ogni altra. Le fu restituita una verifica, il voto non la stupiva, nello studio, come in ogni altra cosa, era sempre nella media.
“Nella media”,  detestava quelle due stupide parole, la facevano sentire una qualunque, la facevano sentire nulla.
Eppure era vero, non esisteva qualcosa in cui lei eccellesse particolarmente, niente per cui lei fosse un esempio da seguire, tranne una cosa forse, lei sapeva voler bene.
Ania era così, Ania era emozione, e quando conosceva una persona, se quella cercava di scoprirla e di lasciarsi scoprire, lei vi si affezionava, e allora non esistevano più “troppo” ai suoi occhi.
Non succedeva spesso, le era capitato due volte per il momento, ma ogni tanto si innamorava, ed era la fine. E altro che amare con tutto il cuore, lei amava con i polmoni, che boccheggiavano in cerca di ossigeno, amava con gli occhi, che lo vedevano in ogni dettaglio. Amava con le mani tremanti e le ginocchia deboli, con le unghie mangiate e la pelle d’oca. Amava con il mal di pancia e le labbra secche, amava con il naso in cerca del suo profumo e con quel pazzo del cervello, che le regalava immagini impossibili. Amava con la sua voce registrata nella testa, e magari amava male, ma se lei amava, amava con tutto.
Quella maledettissima ultima ora ovviamente non finiva più, cazzo, i secondi sembravano secoli. Cercò di scrollarsi dalla testa il pensiero di Alessandro per seguire la lezione, ma sapeva che era impossibile, l’idea di vederlo tra pochi minuti la rendeva già abbastanza nervosa, non l’avrebbe aiutata rendersi conto di non essere in grado di risolvere anche uno solo dei problemi di matematica assegnati dalla professoressa.
Con suo grande sollievo la capanella suonò e nel giro di venti secondi si trovò immersa nella massa di gente che, seguendo il corridoio, scendeva le scale, giù fino all’atrio e fuori oltre il cancello.
Odiava tutta quella gente, detestava abbastanza le persone in generale, specialemente quelle che non conosceva, e le folle le facevano paura. Se li sentiva addosso tutti i loro sguardi, pronti a giudicarla, le rimbombavano in testa mille e mille volte amplificati i loro sussurri che le ricordavano ogni suo difetto.
A volte circondata da gente sconosciuta le capitava di senirsi la testa esplodere, aveva paura di avere una crisi isterica, il caos e il disagio le affollavano la mente, era fuori posto, costantemente. Per fortuna tra poco sarebbe stata con Ale, lui le avrebbe tenuto stretta la mano per tutto il tempo e nessuna occhiata l’avrebbe più spaventata, perché il mondo non avrebbe più visto solo lei, goffa, patetica e imbarazzante, ma loro, e loro due, oh, loro insieme erano bellissimi.
Ania incassò altri due o tre spintoni e fu fuori.
Un secondo prima stava cercando Alessandro tra la folla e un attimo dopo lui la stava stringendo forte, scoccandole un bacio sulla guancia. Si fece piccola piccola tra le sue braccia e desiderò scomparire dentro quella stretta per rinascere nuova, migliore grazie a lui. Era uno di quegli abbracci che ti tolgono il fiato, e non perché sono forti, ma perché sono della persona giusta.
Con la testa incastrata nell’incavo del suo collo, voleva restare così, voleva sentirsi parte di qualcosa, parte di lui, di loro, non voleva essere sola, ma tutti gli abbracci si sciolgono. Lui però non la lascio, e continuò a tenerla stretta a sé con un braccio mentre raggiungevano il resto del gruppo.
Il gruppo consisteva negli altri nove idioti con cui uscivano quasi tutti i giorni, tranne lei e altri due andavano tutti nella stessa scuola e quel giorno la erano venuta a prendere per andare a pranzare insieme.
Li aveva conosciuti quasi tutti due anni prima, all’oratorio estivo, le cie era voluto un sacco di tempo per aprirsi ed essere spontanea con loro, ma alla fine aveva imparato a conoscerli, sapeva con chi era meglio scherzare e con chi poteva mostrarsi più sincera, con chi poteva sfogarsi la sera, chi le avrebbe dato un abbraccio e chi un sorriso, e ora voleva loro un bene infinito, ne voleva a ciascuno di loro.
La cosa migliore del passare la giornata con Ale non era mangiare seduti vicini condividendo il cibo, e neanche andare in giro mano nella mano sentendosi le guance ardere per il rossore, ma lo era stare nel prato del parco, sdraiati, abbracciati.
A volte restavano lì, mezzi addormentati, respirando insieme, vicini, altre invece si facevano dispetti, e il solletico, e poi si davano leggeri baci sulle guance per farsi perdonare. Giocavano come due bambini, e lei amava tornare piccola con lui.
Parlavano anche con gli altri ovviamente, ma restando incastrati, tutti pensavano che quei due fossero una coppia perfetta, ma nessuno glielo aveva mai detto, e loro neanche lo sapevano quanto sembravano innamorati.
Quello che però Ania sapeva era cosa provava lei. Si domandava spesso se a diciasette anni si potesse davvero provare l’amore, credeva di sì, lei comunque quel sentimento lo chiamava così. Continuava a chiedersi se per lui fosse lo stesso.
Ale la confondeva, certe volte pensava che la volesse baciare, altre volte aveva la sensazione di infastidirlo, poi però le loro mani si cercavano. Adorava il modo in cui lui cercava sempre un pretesto per prendergliela, rubarle un fiore che lei aveva colto, prendere un oggetto che stava per toccare lei in modo da avvicinarsi alla sua mano e poi stringergliela forte. Era come se l’idea di tenerle la mano e basta, senza un motivo, lo imbarazzasse, e Ania lo trovava adorabile, così ogni volta che si sfioravano lei si innamorava di più.
Alessandro le sussurrò qualcosa all’orecchio, un commento idiota su un loro amico e lei scoppio a ridere, invasa dai brividi e dalla pelle d’oca che lui le aveva provocato. Dio, aveva una voglia di baciargliele quelle fottutissime labbra.
Se solo non fosse stata l’idiota che era lo avrebbe fatto, gli avrebbe iprigionato il viso tra le mani e lo avrebbe baciato, con forza e paura, ma era codarda e si detestava per questo.
Era una paranoica, non riusciva ad agire senza pensare, lei doveva analizzare ogni singolo dettaglio, e i problemi lievitavano nella sua testa. Come avrebbe reagito? I loro amici che avrebbero detto? Se si fosse tirato indietro? Sarebbe più riuscita a guardarlo? Avrebbe perso la sua amicizia? E se fosse andata male? E non ci riusciva nemmeno a pensare: e se fosse andata bene?
Era sempre una tortura tornare a casa dopo quei pomeriggi di felicità. Si salutarono tutti quanti.
“Ci sentiamo dopo.” Le disse Alessandro facendole l’occhiolino mentre allungava il collo verso di lei per ricevere il suo bacio.
Ania gli sfiorò appena la guancia con le labbra e si scostò, immaginandolo mentre insoddisfatto la catturava nella sua stretta per baciarla sul serio, ma lui non fece nulla e se ne andò.
Come ogni volta finiva la sua giornata sperando che l’indomani sarebbe stato migliore. Che nervi. Era stufa di aspettare. Avrebbe voluto non essere così debole. Ma da dove lo tirano fuori le altre ragazze il coraggio di agire?
Casa. Aveva meno di un’ora prima dell’inizio della solita routine. Solite lamentele di sua madre. Solito aiuto in cucina. Solito messaggio di Ale che avrebbe dovuto aspettare.
La prima cosa che fece, come sempre, fu mettersi comoda, nel suo caldo maglione.
Rannicchiata sotto le coperte approfittò della pausa per leggere. Catapultata in un altro universo, quello della carta e dell’inchiostro, trovò l’amore di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto, l’amore di cui cantano i cantanti e scrivono i poeti.
I libri erano la sua linfa vitale, la sua fuga, bastava il loro profumo per farla stare meglio.
Insieme alla musica e agli abbracci niente al mondo le dava più speranza di una buona lettura.
Il modo in cui gli scrittori riuscivano ad intrecciare ogni suono con armonia la affascinava, aveva imparato, crescendo, che la capacità di usare bene le parole era il potere più grande di tutti.
“Ania!”
Chiuse il libro e il suo mondo scomparve, la pausa era finita.
Quando riuscì a tornare in camera sua era finita la cena ed era riuscita a convincere sua mamma che le girava troppo la testa per sparecchiare tutto.
Il telefono vibrò, però, che precisione.
 
- Ciao bella :)
 
- Ehi bello :)
 
- Come va?
 
- Tutto bene, mi annoio, te?
 
- Benissimo direi :)
 
Cazzo, ma perché le tremavano le mani?
 
- Benissimo? Come mai? c:
 
- Beh, ecco, volevo dirtelo oggi, poi non ho avuto occasione…
 
Cosa? Che? Come? Respirare, l’importante è ricordarsi come respirare.
 
- Mi sto sentendo con una, siamo usciti qualche volte ;)
 
Ah. Fantastico. Il petto di Ania ebbe un fremito e fu invasa dal dolore. Usciva con un’altra ragazza.
Sicuramente era più bella di lei, lo erano tutte, e più magra, ovviamente, prababilmente aveva i capelli ricci, e abbracciava meglio, e aveva quelle bellissime labbra carnose che tutti vogliono mordere.
Ma come aveva potuto essere così sciocca? Come aveva potuto illudersi? Lei non era mai abbastanza per nessuno. Lui non faceva eccezione.
Si sentì un’idiota. Si sarebbe picchiata se solo fosse riuscita a muovere un muscolo. Rilesse gli ultimi due messaggi e la rabbia e la frustrazione la colpirono come una frusta. Che stronzo. Quante palle, non aveva avuto occasione? Cristo, avevano passato il tempo vicini, poteva dirglielo in qualsiasi momento. La verità era che persino lui aveva avuto paura all’idea di parlargliene faccia a faccia, e lei lo sapeva.
Era un vigliacco. Avrebbe voluto che lui la vedesse in quel momento. Desiderava che il dolore le sfondasse gli occhi per tuffarsi nei suoi. Voleva farlo sentire uno schifo, inutile, come lei. Voleva che lui soffrisse perché tutto ora la feriva, stava male, e non poteva evitarlo.
 
- Ah, bello, sono felice per te :) ma chi è? La conosco?
 
- Nono, è della mia scuola :D
 
- Caaapito
 
- :)
 
- Senti, scusami, ma mi gira la testa, e vorrei dormire, ci sentiamo :)
 
- Sisi, tranquilla, ci vediamo domani, buonanotte bella :)
 
Ti odio stronzo. E quel “bella” ficcatelo per bene su per il culo.
 
-Buonanotte Ale :3
 
Merda, doveva pure vederlo il giorno dopo, non poteva farcela.
Per un po’ rimase bloccata com’era. Tremava, ma non era ancora riuscita a versare una lacrima. Era quasi peggio, voleva sfogarsi e non ci riusciva.
Pensò di essersi immaginata tutto, ogni gesto, ogni sguardo. Pensò che forse era stata lei una sognatrice e non lui uno stronzo, ma poi tornò a odiarlo.
Maledisse tutte le volte che, come una stupida, aveva desiderato avere un suo bacio a colazione anzi che una tazza di latte.
Le passò persino per la testa l’idea che forse era colpa sua, che se non fosse stata una vigliacca, se solo lo avesse colto quel fottutissimo attimo, magari le cose sarebbero andate diversamente.
Doveva esserci lei al posto di quella. Non era così che dovevano andare le cose.
Idiota, idiota, idiota. Poteva essere suo, invece era rimasta ferma, come sempre, aspettava chi sa cosa, e aveva visto il mondo cascarle addosso. Aveva permesso che i suoi sogni venissero infranti, impotente, come uno spettatore al cinema.
Eppure quella era la sua vita, e avrebbe davvero potuto cambiare le cose, prima. Oramai era troppo tardi. Troppo tardi per tutto. Tardi per averlo. Tardi per baciarlo. Tardi per non lasciaro andare. Era troppo tardi per loro.
Il pensiero del loro ultimo abbraccio fu troppo, e con la gola che graffiava scoppiò in un pianto liberatorio.
Si fermava, cercava di regolarizzare il repiro, ma poi ricominciava. Una. Due. Tre volte, e ogni volta stava peggio, ogni crisi le smontava un pezzo di autostima.
Riuscì a calmarsi solo dopo un paio d’ore, quando oramai sentiva essere rimasto di lei solo un involucro vuoto.
Con la coperta si asciugò le lacrime e si addormentò con il viso ancora rosso e gonfio per il pianto, sapendo che la notte ne avrebbe cancellato i segni.
Il giorno dopo si presentò a scuola con il migliore dei suoi sorrisi omologati.
Chi sa come, quel giorno, sembrava a tutti più solare e felice del solito. Perché questo era quello che aveva imparato a fare meglio, a indossare un sorriso al posto delle lacrime, a mascherare con la gioia il dolore, perché è questo che fanno le ragazze di giorno: fingono.

 
 
 
 
Salve c:
Ecco, beh, in realtà non so bene cosa dire, era tantissimo tempo che non entravo su efp, quasi un anno direi, non so come mai io l’abbia abbandonato per così tanto tempo, ho lasciato in sospeso anche tutte le storie che stavo leggendo e ripensandoci mi spiace un sacco, erano stupende.
In questo periodo sono successe tante cose, e ho perso la mia ispirazione, letteralmente, la persona a cui pensavo prima, ogni volta che scrivevo non è più nella mia testa (meno male), ora non penso a nessuno, e forse questo mi impedisce di scrivere qualcosa di davvero appasionato. Comunque mi sono impegnata, e ho cercato di continuare con la scrittura, questo è il risulatato, non è un gran risultato, ma non importa.
L’ho caricato su questo sito perché voglio un parere, serio e costruttivo, voglio capire che cosa non va, per questo spero che chi leggerà vorrà perdere un po’ del suo tempo per recensire questo racconto.
Personalmente non lo trovo molto bello, e a volte penso che l’ultimo stacchetto finale sia esageratamente melodrammatico, ma anzi che cancellarlo ve lo riporto come l’ho scritto.
Credo di aver concluso, e perdonatemi se sono stata lunga, non ho il dono della sintesi.
Ringrazio chiunque abbia letto.
Un abbraccio,
me.
  
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