Anime & Manga > Makai Ouji: Devils and Realist
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Autore: Ita rb    24/09/2013    1 recensioni
Dal testo: Il suo sguardo era torvo, forse un po’ malinconico, ma senz’altro particolare e non dissimile dalle tonalità striate dell’acquamarina: una vera e propria coda di pavone che dal verdino diveniva un intenso azzurro ceruleo nelle scannellature vicine alla pupilla.
[...]
Lo vide ghignare appena, sornione, oltre il margine della tazzina di porcellana. «Mi piace tentare, prima di negare il premio», ammise debolmente, schernendolo quasi, facendogli intendere bene quali fosse la sua posizione in merito a molte situazioni – dopo tutto era lui il famoso serpente.
Occhi che sanno scrutare oltre la figura misteriosa di Samael.
Genere: Angst, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Samael
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note: Salve a tutti, ho voluto scrivere questa storia con uno scopo preciso, vale a dire dare un ruolo tangibile, o quantomeno una personalità ferrea, a un personaggio che in molti neppure considerano parte integrante dell’anime/manga di Makai Ouji. L’ho osservato attentamente, l’ho studiato fin quando non mi è saltata alla mente un’idea; allora ho capito chi fosse in realtà e il parallelismo con quella figura mi ha fatto andare in estasi (?) – ebbene sì, lo ammetto, gongolo dinanzi a quest’essere.
Ho voluto cimentarmi in un connubio di circostanze, presentando il reale protagonista della fan fiction attraverso gli occhi di qualcuno vicino a lui che, però, non compare da nessuna parte ed è quindi un mio OC. Non ci saranno strane scene spinte, come s’intende dal rating, meno che mai relazioni o accenni tali; perciò stento a credere che Chisisi possa essere paragonato a qualche figura di minaccia per il fandom, lol ~
Io sono l’anti-MarySue per eccellenza, il che comporta anche i corrispettivi maschili delle stesse e nel caso del suddetto Chisisi non c’è pericolo, posso assicurarvelo sin da subito – in caso contrario lanciatemi una molotov e capirò il concetto X°
Tornando a noi: volevo mettere delle note a piè di pagina e credo lo farò per spiegare bene alcuni punti e parole un po’ inconsuete. Nel frattempo vi premetto che ho usato un tema già trattato in un'altra mia fan fiction (di un altro fandom), vale a dire il deserto e i jinn.
Non è che io non abbia fantasia, semplicemente sono certa, a modo mio, che Samael possa comparire lì ~ sicuramente mi sbaglierò, ma dopo tutto non sappiamo molto su di lui e ho fatto del mio meglio.
Se qualcuno si chiede come appaia pressappoco Chisisi, per qualsivoglia motivo (?) ho trovato un prestavolto: LINK.
Spero che l’esperimento vi piaccia!
Xoxo
 
 
I ricordi, per quanto consistenti siano, restano pur sempre tali.
 
Quando lo vide, al di là delle dune aspre del deserto, sembrò quasi un miraggio ai suoi occhi; non riusciva a muovere un muscolo nella sua direzione, eppure qualcosa lo spingeva a farlo, pur ribellandosi alla stanchezza delle membra temprate dalle lunghe giornate passate a vagabondare sotto al sole cocente, senza un minimo riparo. La testa sembrava andare in ebollizione e forse, se solo avesse avuto più potere su se stesso, allora avrebbe compreso che quell’essere splendente assomigliava per lo più a un miraggio che a una figura reale e tangibile.
Si chiedeva a quali terre appartenesse, così come quale fosse il motivo della sua presenza lì, ma non riuscendo a sollevare il mento dalla sabbia arroventata, poteva soltanto sentire la pelle fremere e bruciare contro di essa; allorché, avvicinandosi lentamente a lui, quella strana creatura si accovacciò su se stessa, lasciando che la stoffa chiara dei pantaloni frusciasse appena quando vi poggiò contro i gomiti.
Il suo sguardo era torvo, forse un po’ malinconico, ma senz’altro particolare e non dissimile dalle tonalità striate dell’acquamarina: una vera e propria coda di pavone che dal verdino diveniva un intenso azzurro ceruleo nelle scannellature vicine alla pupilla.
Lo fissò a tal punto da marchiarlo a fuoco nella sua coscienza, stupendosi della bellezza ricurva delle sue ciglia bionde; allorché comprese che quella creatura non poteva essere un miraggio, perché la sua voce, pur non uscendo nitida dalle labbra socchiuse e fine, sembrava rimbombargli nella testa in modo ultraterreno.
«Vuoi unirti a me?»
Quella domanda non fece che echeggiare un po’ nella sua mente, mentre si spronava a raggiungere il significato lampante della stessa che, nonostante tutto, gli sfuggiva.
Non l’aveva mai visto prima di allora e non sapeva neppure quale fosse il suo nome, però, allo stesso tempo, aveva un’incredibile voglia di allungare la mano per sfiorarlo, accontentandosi quasi di un lembo di tessuto, se non fosse riuscito a raggiungere la pelle nivea di quell’essere. Provò a farlo, muovendo un poco la mano, vedendola vibrare con la coda degli occhi scuri, fin quando, irrimediabilmente, questa non cadde nuovamente al suolo, sollevando uno sbuffo di sabbia rossa.
«Sei un jinn1?» Riuscì a chiedere a stento, sentendo la sua gola gracchiare un poco, incartapecorita dalla terribile sete che lo stava logorando. Da giorni si era ritrovato senz’acqua nel deserto più oscuro che esistesse al mondo, laddove, spesso, venivano condotti uomini come lui solo per essere dimenticati e puniti.
«No,» mormorò in risposta, sfoderando una fila di denti bianchi e perfetti, al di là delle labbra nivee: erano perle, una accanto all’altra, e brillavano così come i suoi capelli, tanto chiari d’assomigliare ai raggi del sole allo zenit «ma se preferisci credere che lo sia, se questo basta a convincerti affinché ti unisca a me, allora potrò essere il tuo jinn per qualche tempo.»
Era fresco il suo tocco sulla cute, leggero, così come le lunghe dita affusolate che carezzavano la chioma corvina e scomposta – così si disse, prima di mormorare qualcosa, perdendo i sensi di fronte a quella creatura tanto strana e affascinante.
 
Il loro contratto non era stato propriamente dei più ortodossi: Samael non si era presentato a dovere e tutt’ora stentava a farlo, se non strettamente obbligato dalle circostanze – ma preferiva che fossero altri a farlo per lui, indicandolo con una mano tesa e proponendolo come migliore fra tanti, eppure superficialmente identico a molti. Era strano, un po’ cocciuto, ma senz’altro caparbio; le sue idee sembravano essere le migliori, seppur in un primo momento incomprensibili, e quello sguardo magnetico che tanto l’aveva catturato un tempo, adesso era ancora più silenzioso di allora, più concentrato volendo: sapeva nascondere dentro di sé chissà quali macchina menti oscuri al resto degl’Inferi.
La sua carica, in fondo, gli permetteva questo ed altro, essendo lui uno dei Sette; ma ciò che proprio non andava giù a Chisisi2 era il modo in cui trascorreva le giornate, impicciandosi dei fatti altrui come non avrebbe dovuto e facendoli propri in silenzio, al di là di un ghigno leggero.
«Ecco qui», proruppe d’un tratto il moro, fermandosi accanto al duca dell’est con in mano un vassoio rigorosamente dorato, forse un po’ troppo pacchiano a suo avviso; allorché decise di avvicinarlo al tavolo riccamente decorato che l’altro aveva davanti, facendo in modo che slittasse in avanti senza problemi, prima di porgere di fronte agli occhi chiari del jinn una tazza vuota di fine porcellana.
«Aromatizzato al gelsomino, con chiodi di garofano…» fece questo, socchiudendo lo sguardo e lasciando che l’olfatto prendesse il sopravvento, suggerendogli cosa fosse contenuto nell’infusore ancora non abbassato «… ottima scelta, Chisisi.»
Erano leggeri i loro scambi di battute, forse anche troppo frivoli a volte, ma il moro conosceva a memoria ogni espressione dell’altro, così come la sua vera natura; nonostante i ricordi lo facessero assomigliare a un jinn del Rub‘ al-Khali3, questo aveva presto imparato a riconoscere ciò che di vero o falso si trovasse in una simile supposizione: come lui ne esistevano tanti altri, o forse pochi – non sapeva dirlo con esattezza, dal momento che non ne aveva incontrati molti. Sapeva soltanto che, di quando in quando, uno o due esemplari dei Sette si faceva vivo con qualche scusa per conversare con lui di fronte a una buona e particolare tazza di tè aromatizzato; allora comprendeva quanto fosse importante lasciarli soli al di là della pesante porta-vetrata che chiudeva alle sue spalle per eclissarsi nelle stanze più adatte a lui: quelle della servitù.
Gli era stata promessa una tripletta di desideri, quel giorno lontano di chissà quanti secoli prima, e si può dire che nessuno di quelli era stato reso vano, considerato il fatto che Samael si era impegnato personalmente per realizzarne uno a uno; ma la noia di quegli attimi era sciamata presto e perfino la punizione più turpe data al suo aguzzino per mano del demone non era stata succulenta come aveva immaginato in principio. D’allora lui era stato il più silenzioso di tutti i servitori, nonché il più fedele, perché l’incarico assegnatogli dal duca dell’est era tanto importante quanto caratteristico.
Nessuno dei suoi più stretti simili aveva mai pensato di fare una cosa del genere, perfino Astaroth aveva reso duca Dantalion, dopo aver stretto con lui un patto in grado di trasformarlo in nephilim; eppure a lui non era toccata la medesima sorte, anzi, non era dissimile dal conosciuto e rinomato Baphomet, nonostante le sue pietanze non riuscissero a eguagliare neppure la bontà di quelle di Leonard, lo chef maggiordomo della famiglia di Baalberith.
Era presentato come uno di loro, ma nonostante ciò continuava a mantenere un nome a sé stante, non dissimile da quello che aveva avuto in vita. In quel deserto, Chisisi era morto e risorto come se nulla fosse, non cambiando affatto dalla sua condizione, pur vivendo notevolmente a lungo e in luoghi fino ad allora sconosciuti.
L’Inferno era magnifico sotto alcuni punti di vista, ma anche diabolico come vuole la tradizione. A ricevimenti stracolmi di nobiltà e potenze, si susseguivano guerre intestine tra famiglie per quello che era il trono più ambito di tutto il regno: quello di Lucifero.
Non l’aveva mai incontrato, neppure una volta, ma Chisisi aveva come la sensazione di conoscerlo bene grazie ai racconti del demone che l’aveva reso suo simile. Samael, di fatti, parlava spesso di lui, ma sempre in termini vaghi, seppur dettagliati al contempo; pareva desiderare qualcosa di grande, pur non mostrandola completamente agli occhi di nessuno, neppure a quelli scuri e pregnanti del fidato maggiordomo – perché sì, Chisisi non era altro che quello, in fondo: nessuno gli aveva fatto credere diversamente, né si era prodigato per elevarlo in alcun modo.
«Miele», disse soltanto la voce bassa del duca dell’est, facendo rabbrividire il maggiordomo che, dal canto suo, aveva come avuto l’impressione di essere stato scoperto – spesso aveva quella sensazione accanto a lui, era come se fosse convinto che l’altro sapesse scrutare nell’ombra e carpire ogni copra prima ancora che questa venisse palesata; così, in quel momento, provò l’impulso di voltarsi per fuggire dal suo sguardo indagatore che, nonostante le apparenze, non fissava davvero la teiera tradizionale delle terre arabiche, bensì proprio lui che gli era di fianco.
Non disse nulla in un primo momento, aprendo semplicemente un contenitore di ceramica dipinto per far sì che il demone vedesse ciò che vi era racchiuso al suo interno e dopo averlo scrutato appena lasciò che un cucchiaino affondasse nel composto, soppesandolo, mentre un rivolo dorato colava verso il basso. «Nient’altro?» Chiese in tono armonico, per nulla intimidatorio od offensivo, cosa che fece sorridere l’altro, lasciando che la curiosità lo spingesse a osservarlo un po’ dalla sua posizione seduta e comoda.
«Sei buffo», esordì convinto, portando il cucchiaino al di sopra della tazza in ceramica, prima di voltarlo per far sì che il miele vi cadesse sul fondo, fintanto che l’errouh4 si preparava bene nella teiera di metallo. «Vorresti chiedermi qualcosa, eppure non lo fai…» ghignò sardonico, lasciando che poi il cucchiaino si posasse sulle sue labbra, catturandone la dolcezza dall’incavo «… non lo fai mai.»
«Dovrei chiedervi qualcosa?» Domandò Chisisi con fare meditabondo e un po’ dubbioso, allungandosi appena verso la teiera per sollevare lo stantuffo, così come il tè che aveva messo in infusione l’altro giusto qualche minuto prima – il tempo riusciva a essere scandito bene nella sua mente, ne percepiva distintamente i rintocchi e quando scadevano i minuti sapeva agire prontamente per non farsi richiamare all’attenzione dal duca dell’est.
Lo vide muovere una mano con fare scostante, sospirando poco dopo con un’espressione turbata e annoiata al contempo, seguita da una strana smorfia sulle labbra fine e sensuali. «No, sarebbe inutile, dopo tutto», disse, lasciando che il maggiordomo si occupasse di posare via il filtro s’un piattino ghirigorato, prima di chiudere nuovamente la teiera, rendendola a lui disponibile per la prima tazza aromatizzata. «Mi chiedevo solo quale fosse il motivo che ti spinge a rimanere in silenzio quando sei accanto a me», insistette, ironicamente, conoscendo alla perfezione il suddetto motivo; eppure volle attendere comunque una risposta dal nephilim.
«Il fatto stesso che sia inutile parlarne», convenne appena, con un tono leggero e scocciato tanto quanto il suo, mentre gli versava un po’ del liquido giallognolo nella tazza già zuccherata con il miele, vedendo schizzare piccole stille di sole contro le pareti curvilinee quando il getto finiva contro la conca del cucchiaino.
Samael scosse il capo, continuando a osservare le azioni dell’altro pur rimanendo con lo sguardo fisso, cosa che il nephilim trovava quasi raccapricciante – era strano immaginarlo come un vero e proprio occhio onniveggente, ma era così che lo aveva subito identificato quando, dopo aver espresso i tre sciocchi desideri legati ancora alla sua vita mortale, si era lasciato sfuggire le occasioni vere e tangibili nel mondo cui era approdato per puro caso. «Questa è solo una scusa, Chisisi», sbottò il biondo, muovendo una mano per raggiungere la sommità del cucchiaino, carezzandola, prima di serrarla tra indice e pollice che, nudi, erano stati liberati poco prima dai lunghi guanti chiari della sua divisa caratteristica «e io detesto chi tergiversa troppo, perché sta a significare che è in grado di macchinare qualcosa di diabolico.»
«Siamo negl’Inferi, non dovreste stupirvi di chi macchina qualcosa di diabolico», ghignò l’interpellato, scostandosi da lui affinché potesse concentrarsi sulla bevanda e così fu: Samael chinò lo sguardo, concentrando quelle iridi color pavone sulla superficie mossa della speziata tisana.
Scostò d’un tratto lo sguardo dall’infuso per posarlo sulla figura al suo fianco che, improvvisamente, mutò espressione a causa sua e di quella muta sfida. «Dovrei stupirmi se a farlo fossi tu», sibilò nella sua direzione, tendendo le labbra in un ghigno malevolo che fece rabbrividire il nephilim fin quasi a fargli dimenticare le sue reali intenzioni. «Dimmi, è forse la tua condizione che ti va troppo stretta?»
«Se anche fosse, non credo che voi cambiereste le carte in tavola, arrivati a questo punto», sospirò poco dopo, lasciando che le pupille del biondo di allargassero un poco nel vederlo tanto vicino; così si perse a sua volta nei suoi occhi cangianti e lasciò che fosse proprio lui a interrompere il contatto quando, soddisfatto del risultato che il calore aveva sortito sul miele, non sollevò il cucchiaino per guardarlo appena e portarlo nuovamente alle labbra.
La sua lingua guizzò rosea sul metallo placcato in oro, così come quello della teiera che sbalzato, prendeva la forma di scene antiche, simili a quelle ritratte in chissà quale e lontana terra. «Temo di no, hai ragione», convenne subito il duca dell’est, prima di posare il cucchiaino sul piattino cui era adagiata la tazza con il tè. «Però, vedi, è terribile non sentirselo dire», grugnì appena, fingendosi dispiaciuto e amareggiato, mentre soffiava piano sulla superficie chiara della tisana che presto raggiunse le sue labbra, bagnandole e donandogli un po’ di rosea vita in più che guizzò subito alle gote scavate.
Chisisi si allontanò un po’ dal tavolo, dopo aver sollevato il vassoio dorato con l’infusore e il piattino di troppo, lasciando di fronte al duca dell’est il necessario per altre tazze future – sapeva che questo adorava bere le sue tisane fin quando la teiera non era completamente vuota. «Se ve l’avessi detto, allora vi sareste subito annoiato, perché non avreste cercato una spiegazione plausibile per tutti questi anni», disse, sorridendo appena, convinto delle sue stesse parole.
«No, non per troppi anni, in fondo…» fece l’altro, sollevando le spalle con noncuranza «… ho solo aspettato il momento giusto per dirtelo», continuò, socchiudendo gli occhi e sorseggiando poco dopo un po’ di tè; allora, dopo averlo allontanato dalle labbra di qualche centimetro, sospirò rinfrescato e rinvigorito – non si era sbagliato in un primo momento: quel mix era davvero squisito se unito e il nephilim diveniva sempre più bravo negli accostamenti, sebbene ormai li conoscesse tutti a memoria.
«Adorate le entrate in scena di classe», borbottò il giovane poco dopo, lasciando che lo sguardo del biondo lo rimproverasse al di sopra della tazza che aveva portato nuovamente alle labbra; allora si mise a osservarlo ancora una volta e lo trovò delizioso come allora, seppur diversamente: aveva una gamba accavallata sull’altra e il gomito scompostamente sorretto dallo schienale della sedia, cosa che nessuno avrebbe mai sospettato, perché pubblicamente sapeva mantenere il più rigoroso ed elegante degli atteggiamenti – ma Chisisi aveva imparato a diffidare delle apparenze: non a caso, sebbene egli fosse apparso come un jinn del Deserto Arabico, si era poi rivelato un demone.
Lo vide ghignare appena, sornione, oltre il margine della tazzina di porcellana. «Mi piace tentare, prima di negare il premio», ammise debolmente, schernendolo quasi, facendogli intendere bene quali fosse la sua posizione in merito a molte situazioni – dopo tutto era lui il famoso serpente5.
«Non avrei mai comunque ottenuto alcun premio.»
Samael sollevò il dito indice della mano libera, scuotendolo negativamente per attirare l’attenzione del maggiordomo che, dal canto suo, si limitò solo a serrare le dita attorno ai margini del vassoio dorato. «Questo è un premio sufficiente», spiegò, dando abbastanza adito ai suoi pensieri che, sapeva, prima o poi sarebbero dovuti giungere a destinazione nonostante la testardaggine altrui che non era poi dissimile dalla propria almeno su quel punto di vista. «L’eternità nelle tue mani di profanatore e ladro: non credi sia abbastanza?» Chiese in fine, concedendosi appena un lieve accenno alla vita che aveva trascorso come mortale il suo nephilim prediletto – nonché, probabilmente, l’unico dal momento che Chisisi non conosceva altri suoi parenti che fossero disposti a raccontare le gesta del demone in quanto benefattore.
«Non se messa a paragone con altre libertà», lo contraddisse, inconsciamente, l’interpellato, sentendosi ferito dalle parole del duca che, dopo aver sollevato appena le sopracciglia, terminando la tazza di tè, la riempì di sua sponte senza attendere che fosse il maggiordomo a farlo per lui.
«Avevi solo tre desideri…» disse «… e li hai espressi dal primo all’ultimo con un’ingordigia tale da farmi rimpiangere di averti reso ciò che sei», fece con tono greve, vedendolo sussultare con la coda dell’occhio, mentre posava la teiera e affondava un nuovo cucchiaino nel recipiente col miele che era poco distante da lui; allorché ridacchiò sommessamente, beffandosi di lui una seconda volta: «Stavo scherzando, dopo tutto non potrei bere tè come questi, se solo non ti avessi reso nephilim
Deglutendo, Chisisi si trovò a pensare ciò che fino a quel momento l’aveva assillato, ma con la differenza che le parole sembravano fuoriuscire madide dalle sue labbra tese come orde di violino, indignate quasi: «Ed essere un nephilim della famiglia di Samael, il duca dell’est, non mi rende sufficientemente idoneo al titolo di candidato per l’elezione a reggente?»
«No», convenne subito il suddetto, storcendo il naso, mentre assaporava in contrasto il sapore del gelsomino con il vino rosso che tingeva appena il tè di un colore più intenso, ma non fastidioso – era un po’ come osservare una goccia di sangue nel mare limpido e sconfinato. «Essere così sciocco non ti rende sufficientemente idoneo, perché se solo sapessi osservare meglio, capiresti tante di quelle cose che neppure immagini», disse ancora, sollevando le spalle con fare noncurante, sorseggiando il tè dopo aver mosso appena il cucchiaino, lasciandolo poi cadere sul tavolo, accanto al piccolo piatto di porcellana, come se nulla fosse.
«E quali sarebbero?» Domandò dubbioso, mentre si avvicinava al tavolo per prendere quella posata che pocanzi aveva risuonato nel salotto del duca dell’est.
«I cani si sbranano tra di loro per un pezzo di carne», disse assorto, fissando il contenuto vitreo e brillante al contempo della tazza. «Ponendo il fatto che tale pezzo di carne sia il trono e l’eredità di Lucifero, tu saresti solo un cane pronto a mordere a tua volta i simili che ti circondano e che ambiscono allo stesso, maledettissimo, pezzo di carne…» fece, con un ghigno beffardo, rivolgendosi poi verso di lui «… però, se solo tu sapessi attendere che arrivi qualche macellaio una seconda volta, mentre tutti si sbranano per il primo pezzo di carne, saresti il primo a raggiungere l’intero pasto.»
Chisisi sospiro, portando il cucchiaino sul vassoio che ancora teneva tra le mani, lo stesso che si soffermava s’un suo fianco, mentre la mano libera ne reggeva l’estremità opposta. «Questo mi mette in secondo piano», si lamentò appena, prima di andare incontro all’espressione corrucciata del demone.
«È corretto mantenere un basso profilo, perché nessuno ti azzannerà mai se solo ti confonderà con uno stolto», fece semplicemente, senza curarsi dell’espressione confusa del nephilim. «Differentemente, se davvero ciò che è dentro di te è solo una zucca vuota e non l’anima che ho visto nel Rub‘ al-Khali, allora non serve che io vada oltre.»
«Sarei uno stupido?»
Lo guardò ancora qualche istante, lasciando che la sensazione morbida di quella coda di pavone gli guizzasse contro, prima di rivolgersi altrove, lontano, contro la parete adiacente che sembrava solo un muro fittizio per l’orizzonte ambito. «Se volassi alto come loro tre, sì», sussurrò.
«E perché mai?» Lo spronò, sentendosi come fremere, vicino alla risposta desiderata che in cuor suo ambiva da secoli.
«Perché conoscere tutto, muovendo le fila da dietro, senza essere additati come responsabili, è ancor più affascinante che sedersi s’un trono di spine.»

 
Si aggirano indisturbati, solo per essere scorti dal rimpianto.
 
Camminava a fatica su quelle dune, consapevole dei suoi crimini e di quanto avidi fossero stati; la clemenza, quella vera, non l’aveva mai neppure sfiorato e in quel caso, quando tutto sembrava essere andato per il verso giusto nelle sabbie alla foce del Nilo, la disdetta era più vicina di quanto avesse mai potuto credere.
Un auriga che gli saltava al collo, pronto a ucciderlo, sarebbe stato la soluzione più veloce ed efficace, ma il sovrano di quelle terre sapeva essere tanto giusto quanto pungente – e profanare il luogo di riposo dei suoi avi non sarebbe stato di certo il modo migliore per accattivarsene il favore; eppure, a lui bastava semplicemente che il denaro scorresse liquido tra le sue dita meschine.
Era confinato lì, lontano dalla propria casa, se mai ne avesse avuta una: solo e perduto nel deserto  cui nessuno osava fare ritorno; poi, come d’incanto, dopo giorni di follia e amara contesa con se stesso, era stato Lui a incontrarlo per caso: un jinn dalla pelle chiara e il sorriso felino, con la veste riccamente decorata in oro e tintinnanti orecchini impreziositi che gli pendevano dalle orecchie aguzze.

 
Ma se tutto fosse soggettivamente connesso all’oggettività, allora non esisterebbe né l’una, né l’altra.
 
 
1 I jinn sono anche detti djinn, in arabo jānn e in italiano geni. Fanno parte della religione preislamica e musulmana come entità soprannaturali, intermedie tra mondo angelico e umanità, ma hanno per lo più un carattere maligno, seppur in certi casi possa apparire come benevolo o protettivo.
2 Nome egiziano maschile che significa segreto.
3 Rub al-Khali (الربع الخالي), detto Il quarto vuoto, è il secondo più grande deserto di sabbia del mondo e ricopre il terzo più meridionale della Penisola araba. È una zona disabitata cui nemmeno i beduini hanno accesso – ne sfiorano solo i margini, di fatti; l’escursione termica è molto pesante e va dagli zero gradi di notte ai sessanta sopra lo zero nel pieno mezzogiorno.
In questo posto si trovano animali quali aracnidi e roditori e piante appartenenti alle succulente, differentemente dalle altre zone del Deserto Arabico che comprendono anche gazzelle, oryx, gatti delle sabbie, e lucertole Uromastyx – gli sciacalli, invece, sembra si siano estinti a causa dell’uomo e della caccia, così come l’hayaena hayaena e il mellivora capensis.
4 In arabo equivale a anima del tè e consiste nella parte calda dell’infuso che generalmente mischia il capofamiglia durante le riunioni o le cene importanti.
5 Il serpente che tentò Eva: da qui la frase di Samael che ho coniato Mi piace tentare, prima di negare il premio.
   
 
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