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Autore: Hyarviel    28/03/2008    1 recensioni
un vecchio racconto scritto in memoria di una notte memorabile. di una persona memorabile. l'ho ripreso in mano a distanza di anni. per cercare di scremare il dolore che avevo dentro. e che lo rendeva imperfetto.
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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sed mulier cupido quod dicit amanti
in vento et rapida scribere oportet aqua.
ma ciò che dice la donna all’avido amante
è da scrivere nel vento e nell’acqua che scorre.
(Catullo)
Scrivere la storia è un modo di sbarazzarsi del passato.
(J.W von Goethe)


Come l’acqua che scorre
il lavandino che gocciola, il vento che filtra dalla finestra
il mio sangue gocciola, il tuo sapore in gola, le lenzuola che evocano immagini brucianti, livide, contrasti pesanti. bianco e nero.
la mia mente che gocciola, fili, pezzetti, volti immaginari, sguardi
c’è qualcosa che entra, qualcosa che esce, qualcosa.

Non smetterò mai di torturare la mia musa
cercando le parole / non almeno finché non potrò cantarle
a voce alta.
caratteri totalitari.


Comincerò con il raccontare la neve
un nero guerriero che sbatte le ali spargendo piume, bianche ed enormi, su tutta la città.
la neve ha avvolto il giorno, il giorno lunghissimo, cullandolo in un abbraccio materno malato, natalizio; la neve ha portato l’azzurro riflesso sulle cose, il cielo bianco e l’enorme voglia di un abbraccio uguale, ma caldo, per scaldarmi dentro, fuori.

Poi dirò della rabbia
frenante, fremente, leggera sotto pelle
sbucava poi forse soltanto all’inizio, prima di affossarsi negli angoli, quasi sparire, per la forza del bianco.

Entrambe le cose, la rabbia ed il bianco, la neve, mi hanno portato la cecità
gli occhi chiusi, la fiducia, il camminare in un posto pericolosissimo tra le braccia di un angelo poco convinto – che tuttavia non mi ha lasciata andare.
Il perdere la vista, la vista a breve termine, è stato un regalo insperato, che mi è stato fornito dalla ragione per proteggermi.
Ringrazio dunque di chiunque sia stata l’idea
di immergermi nell’acqua profonda pesante
perchè giuro che sarei impazzita / non avrei retto l’impatto (nell’aria)

Ma ancora non ho detto nulla, in realtà, non ho raccontato per esempio di essermi svegliata malissimo, incazzata, stanca, ancora che volevo solo dormire e rigirarmi nel letto e non aver promesso a Biagio di vederlo quella mattina.
anche se mi sono fatta una doccia, ciò non ha affatto migliorato il mio umore.

Mi ricordo la Ale, in un impreciso tempo addietro, che passeggiando nel freddo e ascoltando i miei discorsi su quei tre, mi chiedeva, e si chiedeva, quando tutto sarebbe crollato.
chi avrebbe fatto il primo passo falso e come.
– certo, erano solo congetture a quel punto della storia! –
io non credevo che nulla sarebbe successo mai.
tuttavia, una parte di me sapeva che qualcosa si era già rotto, qualcosa aveva già ceduto sotto il peso della situazione / e allora era solo questione di vedere quando avremmo cominciato, noi, a subirne le conseguenze. aspettavo.
Ho cercato a lungo quel momento, il momento in cui si è incrinato lo specchio, la prima crepa ha tracciato un solco urlando e sporcando lo spazio / l’ho cercato nei giorni che abbiamo passato tutti insieme, non lo so, nei viaggi a chiasmo in macchina, nelle mail, nei messaggi. Ma soprattutto l'ho cercato nel suo sguardo quasi ferito, fisso, per minuti interi / che non capivo.

E non ho mai trovato una soluzione ma non importa, perché per quanto io possa immaginare cosa avrei potuto fare per evitarmi la morte, ora è troppo tardi; la storia non si fa con i se e con i ma, giusto?

Stavo sull’autobus, seduta storta, con le gambe sul sedile di fronte, e volevo vomitare.
Ero in ritardo marcio e incazzata – reduce da una notte passata su Internet a giocare – avevo male ovunque, nelle ossa, dentro, alla testa – quando poi mi sono seduta in negozio ad ascoltare Biagio i miei pensieri erano altrove, concentrata per spazzare via gli spasmi, lo guardavo vaga, e dopo meno di un’ora me ne stavo già andando.
Ricordo che ho lasciato delle fugaci scuse (chissà mai se le avrà considerate vere) e sono tornata a casa, cercavo di resistere alla nausea, con pochi risultati. mi chiedevo come dovevo essere sfatta, vista da fuori, la gente intorno che cosa stesse pensando della me piegata a guardare il pavimento a bolle di plastica nere, col mio sputo sopra.
sarà la solita pazza, avranno pensato.
e non mi avvicinavano.

I miei erano via per il week-end, normalmente questo sarebbe stato un motivo di gioia per me, o comunque di divertimento
ma io sarei partita la mattina successiva per passare il capodanno da un’amica.
(sì, amica non è proprio la parola giusta, dato che l’avevo vista una volta, quella - avevamo parlato una notte intera, al mio albergo, ed era evidentemente attratta da me, così siccome avevo bisogno di un giocattolo temporaneo, giusto per distrarmi un po', mi sembrava la soluzione più rapida ed indolore: un paio di giorni da lei, e poi sparire dalla sua vita.)
sempre per il principio non posso avere te, avrò chiunque altro.

e invece stavo sdraiata sola sul tappeto in salotto
avevo messo un cd a caso nel lettore
e me ne stavo lì, al freddo, a guardare il soffitto in cerca della forza per alzarmi e andare a prendere qualcosa da mangiare
volevo semplicemente inabissarmi nel rosso scuro del tessuto spesso, ruvido, e non avevo voglia di nient’altro
in un momento imprecisato, un messaggio mi avvertiva che avrei avuto allenamento dall’altra parte della città, di lì a qualche ora – e io ho sorriso isterica, un po’ per l’ironia della situazione
e poi perché sapevo che nessuno, per nessun motivo avrebbe potuto accompagnarmi. nell'unico giorno in cui ne avevo veramente bisogno.
beh, niente di tragico, se non per il fatto che dopo un lungo giro di telefonate ho inciampato in un genio che ha pensato bene di piangermi al telefono per mezz’ora, chiedendomi di andare a consolarla, perché aveva bisogno di qualcuno che l’ascoltasse.
e io sono stupida.
sono stupida perché in quel momento avevo l’empatia di un blocco di marmo eppure le ho detto sì, sì, non ti preoccupare, arrivo.
ho preso il primo film che mi è capitato fra le mani e sono corsa in camera a cercare qualcosa per vestirmi.
è stato a quel punto
quando è suonato il campanello di casa
a quel punto - penso - che il mio filo si è spezzato.

più penso e più ricordo, più mi sforzo
più circoscrivo le scelte di quegli attimi e le bollo come sacre, fondamentali.

le parche erano lì che giocavano a canasta / e una delle tre dev’essere tipo inciampata per sbaglio nel mio, il filo della mia vita, e quello si è sfilacciato fino a tendersi allo spasmo, pronto per staccarsi definitivamente.
ora se guardate c’è la vecchia in bilico, sul punto di cadere
fra poco sentirete il toc delle sue ginocchia sul marmo dell’ade.
e poi
più niente, per un bel po’.

e io stavo lì, ignara, in camera, svolazzante a mezz’aria, appesa per un capello, in mutande, che bestemmiavo ad alta voce per la poca voglia di rispondere e urlavo « chissà chi cazzo è e che cazzo vuole »
sono scesa di corsa, indecisa se rispondere davvero o lasciar perdere
e alla fine ho risposto
tirando fuori la voce più cattiva che riuscissi a immaginare:
- chi è?
- sono Erika
- che cazzo ci fai qua?
- ah se non mi vuoi me ne vado.
- ma nò entra. mi metto un paio di jeans e ti apro.

dunque.
questo scambio di battute merita un minimo di attenzione.
Erika è la ragazza di cui ero innamorata da... anni.
non so quanto, non so come, non so perché.
non so nemmeno precisamente quando mi sono svegliata e ho capito che ero follemente innamorata di lei, so solo che ogni volta che ci penso riesco a dire solo “follemente”.
perché era un amore folle, ok? era una cosa senza senso. lei era fidanzata da troppo tempo. e poi con un uomo. ma non un uomo a caso. un uomo che conoscevo bene, e a cui volevo bene. l’unico particolare forse a mio favore era che al momento
il suo lui sembrava particolarmente interessato ad una mia amica,
che a sua volta di lui era innamorata follemente.
Voglio dire, fin qui.
una storia del genere ce l’ha raccontata tante volte Andrea de Carlo, e meglio.
ma non era lineare. queste sono le mie considerazioni a posteriori, ripeto. l’unica che ha osato preannunciare la situazione come stava, era la Ale, ma perchè non c’entrava niente con la storia ed aveva avuto la lucidità per analizzare i nostri precedenti.
senza contare che poi qualcuno (la sottoscritta) ci ha rimesso la vita.
e il mio fine, in realtà, era quello di raccontarvi come.
I precedenti, le litigate, le lacrime, le incomprensioni e le grandi bugie, le telefonate, preferisco lasciarle alla vostra immaginazione. Sarete sicuramente più bravi della me (tutt’altro che imparziale) che assisteva sconsolata alla distruzione delle poche cose che aveva.

Dicevo, questa mi suona il campanello, io sono lì che tremo, per il freddo, per l’eccitazione, l’attesa, la paura, chissà, e lei si avvicina alla porta di casa e io sono ancora lì in mutande a fissare il legno pesante del portoncino / cerco un modo per muovermi, per schiodarmi dallo schianto che mi ha bloccata lì, un modo per muovermi e fare qualcosa – aprire, andarmene in camera, impugnare un lanciafiamme, non so.
Finisce che corro in camera e in un secondo mi infilo i primi jeans che vedo.

Ora, non so quanto tempo io sia rimasta ferma, col fiatone, in piedi, di fronte alla porta, con la mano sulla chiave, cercando la volontà di aprire. solo.. tanto.
C’era qualcosa dentro di me, ora lo riconosco, qualcosa che mi preannunciava la fine, come un istinto di conservazione che mi forzava in quel limbo indeciso, a stare ferma, trattenere il fiato, non volere con tutta mè aprire – girare la chiave.
Come per dirmi “puoi ancora salvarti, puoi. Non è ancora tutto perduto.”
un attimo dopo ho aperto.

C’era quel giorno un suggeritore evanescente (eccolo) sfuggevole, rannicchiato sulla mia spalla, mi carezzava le orecchie con le zampe lucide sporche; quell’ombra, quel qualcosa, mi spargeva segnali lungo le stanze, si avvicinava sussurrando dolciparole ma io scuotevo la testa. senza capire.
Lui poverino ha fatto il possibile.
mi ha messo le cose chiare, imbastite, tessute perfette ed evidenti.
ma io non guardavo, non volevo, non so.

E’ che poi
per spiegare ciò che ho visto, non è sufficiente dire che ho aperto la porta e lei era lì.
non è abbastanza dire che mi guardava, sulla soglia, senza entrare, anche lei indecisa sul perchè si trovasse proprio lì in quel momento.
è troppo poco dire che dire che è entrata con passi incerti e io non vedevo niente, vedevo luce, vedevo l’ombra, vedevo il suo profilo in contrasto col resto ma non capivo quello che mi diceva, non me lo ricordo, non è importante, mi sarei sciolta volentieri, dissolta fra i solchi delle piastrelle pur di scappare da quella situazione di stress inumano estremo fortissimo.
Non è abbastanza
tanto che io non sentivo davvero più niente
le mie percezioni erano alterate
e non ho ricordi
(come se quel momento non sia mai esistito – ma certamente ci deve essere stato).

Lì, ecco. Lì era davvero. Definitivamente tutto perso.

L’immagine successiva
siamo io e lei in camera mia
io le mostro cose, sono nervosa, inquieta, la sua presenza perturba il mio spazio più semplice e naturale, quello dove dormo, studio, principalmente vivo.
mi vergogno dell’aspetto di tutto quello che c’è in giro
per ammazzare il tempo e cercare di non notare il suo sguardo su di me fingo di mettere a posto cose sugli scaffali, sul letto.

Non so, non capisco, perchè mi sentissi così a disagio, posso solo immaginare che forse l’averla lì, in camera mia, seduta sulla mia sedia, alla mia scrivania, dove milioni di volte l’avevo immaginata, mi mettesse in soggezione, mi desse fastidio / lei lì a guardarmi senza dire niente, forse magari si chiedeva cosa cazzo avessi da fare che non stavo mai ferma.
Poi ad un certo punto penso siamo scese al pc, abbiamo guardato delle foto, poi abbiamo guardato delle foto sul suo iPod
Non so precisamente cosa ci siamo dette.

Ho avuto un momento di lucidità. da qualche parte. in un istante impreciso fra gli eventi inutili.
ho ricordato la ragazza che avevo promesso di consolare – sì, va bene, la mia ratio spingeva perchè dicessi, « senti Erika mi dispiace ma avevo promesso a Supri che l’avrei consolata e devo proprio andare », e tuttavia non sono e non ero così sana da salvarmi la vita in quel modo.

se solo fossi uscita prima di casa.
se solo io avessi preso la borsa e fossi partita SUBITO, senza pensare di cambiarmi, e fossi uscita di casa dal garage. non avrei sentito il campanello, non l’avrei vista dietro il cancello, se ne sarebbe andata dopo un'attesa di qualche minuto. E nessuno si sarebbe fatto nulla.
A volte gioco ancora a chiedermi come sarebbero le cose, ora. se.
Però.

C’è come dire un buco grigio, una zona torbida e insabbiata nella mia memoria, in relazione al tempo, dilatato, indeterminato di quel pomeriggio – sono sicura che ad un certo punto dobbiamo essercene andate da casa mia – sono sicura che è successo, ecco.
Sono abbastanza sicura anche del fatto che si è offerta di accompagnarmi ad allenamento.
E poi è successa una cosa curiosa: e cioè il ragazzo di lei, il mio allenatore / in qualche modo sapeva che lei era lì con me / le ha telefonato per dirle che il mio allenamento era annullato.
la ragazza che aveva le chiavi della palestra... le aveva perse.

Ecco io penso
che questo sia stato il segnale decisivo, il colpo di grazia che il fato mi ha dato.
mollando la spada di Damocle che pendeva sulla mia nuca / segnando definitivamente la mia fine.

Perché se quella povera innocente, incosciente, non avesse mai perso le chiavi di quella fottuta palestra, io sarei andata ad allenamento tranquilla e beata, dopo una giornata fantastica con la mia Erika adorata, avrei scroccato il passaggio di ritorno a qualcuno / e avrei passato la serata a sognare e guardarmi la tv.
da sola. nel mio angolino. perfettamente sola.

Lo so che è stupido fare congetture di questo tipo
Lo so che la storia non si fa con i se e con i ma, perchè nulla di quanto sopra detto è avvenuto, le chiavi sono andate perse e io ad allenamento non ci sono andata.
e non è dipeso dalla mia volontà il fatto che le chiavi fossero state perse
tanto meno l’imboccare col sorriso l’autostrada per l’inferno pronunciando la frase
- beh, che facciamo? torniamo a casa?

torniamo a casa.
e siamo tornate a casa.
e io le ho proposto di invitare il suo ragazzo a cena.
e io sono stata stupida a proporre una cosa del genere. ma io pensavo di farle piacere, cristo.
ma, vedete, non che io voglia scusarmi di tali o talaltre azioni sconsiderate, è solo che non potevo immaginare i casini in cui sarei andata a cacciarmi, non avevo la lucidità né la lungimiranza necessaria.
non potevo sapere che loro erano in lite da giorni.
che forse era meglio tenerli lontani, non farli vedere direttamente, fisicamente, specialmente se c’ero io di mezzo
io che ero innamorata di lei.
e lui che lo sapeva, e non mi diceva niente.

Quando lei ha detto sì, invitiamolo pure a cena, io ho pensato che la notizia l’avesse resa contenta / lei mi ripeteva che non c’era niente che non andasse, che era tutto a posto, e il mio vederla incupita e triste era, secondo lei, tutta un’impressione.
Quando lui, però, è comparso sulla soglia di casa mia ho capito che forse non lo era stato. Un' impressione.

lui: vi disturbo?
io: no...
lei: sì...

questo scambio di battute, ironicamente rispecchia l’andamento della serata.

ora, fate uno sforzo insieme a me, immaginatevi un cumulo enorme di tensione, il più grande che ci sta nella vostra mente, infilatelo in una cucina. metteteci un tavolo, tre sedie, pizza per tutti e una lattina di coca cola che nessuno ha il coraggio di aprire per paura di rompere un qualche equilibrio cosmico nascosto.

Io sono seduta a capo tavola e regna un silenzio spesso, quasi respirabile, insieme con l’aria viziata della casa accentua il peso della luce del lampadario, proprio sopra il tavolo rettangolare.
Non ricordo che pizza avessi preso, nemmeno se l’ho mangiata, so che non dicevo nulla e giocherellavo con le posate e con il bicchiere; so che ad un certo punto qualcuno ha detto qualcosa, e le sue parole mi hanno convinta ad aprire la coca cola che era rimasta al centro del tavolo, illesa.
eravamo tutti e tre a disagio, credo di poterlo dire con sufficiente certezza.
ci siamo detti qualcosa come
lui: mi piacerebbe molto rimanere, ma stasera avevo promesso ai miei amici di uscire, e credo che farò tardi.
lei: beh, tu pensa che io avevo proprio intenzione di uscire con la mia amica Laura...
lui: che problema c’è, passa pure tutto il tempo che vuoi con “la tua amica Laura”.
lei: massì, e tu stacci quanto vuoi con i tuoi “amici”.
io: dai, rimani a dormire da me.
lei: non lo so.. devo chiederlo al mio padron.. ehm moroso.
lui: dai, falla contenta, per una volta.
lei: non credo sia una buona idea.
lui: intanto che decidete io me ne vado, sai, non vorrei arrivare in ritardo.

detto in tutta sincerità
avrei dato qualunque cosa
per potermi fondere con le piastrelle della cucina, con il pavimento, la cocacola nel bicchiere, la polvere, non so.
volevo che le loro voci, le loro espressioni confuse tese aggrottate sparissero in fretta, fade nel bianco.. risvegliarmi dal sogno.
sentivo tanto rancore da non sopportarlo

e poi ad un certo punto
la tensione è calata, si è dissolta nell’aria come fumo [in fosforescenti spire]
quando lui è uscito dal mio garage
e io ho sbattuto la porta pesante alle sue spalle con un tonfo metallico che ha rimbombato per qualche istante nel silenzio, nell’aria
siamo rimaste a guardare
gli echi disfatti degli ultimi minuti
senza dire nulla, nulla di ché. come se avessimo paura e una segreta speranza che lui non fosse mai veramente stato lì.

non so come abbiamo deciso di uscire, abbiamo deciso di andare in città a bere qualcosa e abbiamo deciso di passare a casa sua – che doveva cambiarsi.
Lei in camera sua, la camera lucente, rilucente, bella, la camera ordinata, tutte le cose dove io le ricordavo essere – ricordo me stessa in piedi di fronte alla sua scrivania mentre lei apre l’armadio e decide cosa mettersi, come cambiarsi, ricordo le sue mani aprire uno zaino e infilarci dentro un pigiama, spazzolino da denti e altre cose – e giuro non capivo, non capivo cosa significasse: era come se la mia mente avesse interrotto le normali associazioni logiche e avesse sostituito il sistema con uno nuovo più complesso, più fondo, preveggente.
vedevo lontanissimo, vedevo come un grumo scuro comprimermi il torace ad ogni respiro, sentivo come un peso enorme, delle tende di velluto pesante nero calarmi sul corpo, non capivo il motivo, ma avvertivo chiara e distinta la sensazione di freddo nelle ossa.
Le ho chiesto cosa stesse facendo e lei ha risposto qualcosa come “scema! mi fermo a dormire da te!”.
Non renderà mai l’idea il dire che vederla infilare quelle cose in quello zaino non me l’aveva fatto dedurre.

Bene, siamo uscite
siamo andate in un bar
il mio bar preferito – il medesimo giorno in cui il fato ha deciso il bruttoposto che mi avrebbe dato i natali, a mio parere, ha anche creato quel luogo, perchè è troppo perfetto per me.
C’era anche la mia amica Frà, con noi, la quale portava tra me e la Divina presente, il giusto grado di equilibrio che normalmente ci manca; abbiamo avuto una serata tutto sommato piacevole, chiacchiere, sigarette, freddo, un posto stupendo con i muri pitturati di rosso e maschere di legno alle pareti, freddo, sigarette, chiacchiere e alcool.
Poi la Frà se n’è andata. e qualcosa si è perso per strada.
Ci siamo ritrovate addosso dei tizi sfigati che cercavano di attaccare bottone; erano vecchi, brutti, mezzi ubriachi e di un’altra città – non avevano nulla di interessante /nemmeno lontanamente/ e non so come abbiamo fatto ad andarcene, levarceli di torno e decidere di tornare a casa. Uno di loro ha voluto il mio numero – come se sperassero in qualche modo di rincontrarci, un giorno o l’altro. penso di averlo ancora, il suo numero.
si chiamava Agostino.

Fuori c’era freddo, c’era neve per le strade, neve sulla macchina che era lontana da noi, neve fuori e dentro me.
Neve in tutti i punti dello spazio immaginato e reale.
Neve bianca che spargeva luce azzurra attorno. Avrei dovuto immaginare, lo so. Avrei dovuto capire (almeno allora).

La neve assomiglia vagamente al freddo che provo adesso nel raccontare.
Un freddo che quando non è inverno te lo dimentichi – quel freddo profondo dentro, che oltrepassa i vestiti e ti colpisce nelle dita, sulla schiena, sulla nuca – tetro.

Non ricordo quasi nulla del nostro ritorno a casa.
Probabilmente ricordo una canzone, che abbiamo ascoltato, mi ricordo lei che mi parla dei litigi con il suo ragazzo, che le cose non andavano affatto bene tra loro due – mi dispiaceva enormemente, perchè io non la vedevo felice, e la mia priorità, in quanto l’amavo oltre ogni dire, era vederla felice. a qualunque costo.

L’immagine successiva è direttamente nel mio salotto.
Non che mi ricordi il parcheggio. Anzi era in fondo alla mia via, e una volta alla porta lei si è resa conto di aver dimenticato lo zaino ed è corsa a riprenderlo. Penso di averla aspettata fuori.
Non riflettevo molto. Già caduta. Ero già caduta dall’altra parte dello steccato.
Quello in cui si beve del fiume Lete e si parla coi Morti, insomma.

Entrate c’era freddo.
non avevamo sonno, o io non avevo sonno, e ho deciso all’unanimità che avremmo guardato un film, e il film che avremmo guardato era l’unico dvd in mio possesso. Il favoloso mondo di Amélie.
Se ben ricordo l’ultima volta l’avevo guardato a Bologna, nel salotto di un’amica, proiettato su un'enorme parete bianca.

Io e Erika, in casa mia, con il freddo tipico di casa mia, sul divano di casa mia, con la coperta di casa mia, sedute, a fissare un televisore (sì, il televisore di casa mia), in un’atmosfera che di casa mia aveva ben poco.
Ora, prendete la tensione di prima, quella della cucina e della cena, per capirci, ribaltatela. Trasformatela in un impasto di calma liquida, colante sui buchi, il più denso e caldo che riuscite a figurarvi, spargetelo su di noi senza avidità di sprechi, rovesciate la ciotola sulle nostre teste ignare e regalateci un abbraccio gentile, comodo, per un po’. Abbracciate finchè il televisore sparge colori – una storia che già so, detta con parole che conosco a memoria, in un modo che ricordo benissimo, vivido in ogni inquadratura. Ci sarà ben un motivo se è l’unico dvd che posseggo.
Abbracciate finchè non c’è più niente da guardare. E allora che non rimane alcun motivo per rimanere abbracciate e bisogna fingere di voler andare a dormire.

Saliamo le scale, io le salgo piano, e torniamo in camera.
E ci sono tre proposte che aleggiano nell’aria, ma temo lei abbia già scelto.
Può dormire con me, o nel letto sotto, o nel letto dei miei.
ma temo lei abbia già scelto, già da mò.

Non c’è nulla che io ami di più di raggomitolarmi sotto le coperte
sotto il piumone caldo d’inverno
e sentire il mio corpo freddo
che pian piano riacquista colore, e calore.

Con lei nel letto questo non era possibile, e c’era da aspettarselo.
Pensavo davvero che sarei riuscita a dormire?
Probabilmente sì, oppure forse non ci facevo caso.
Le sue parole, la mattina dopo, le ricordo « tu mi hai parlato di tuo padre, di quella volta che non sei potuta venire al mio compleanno perchè avevi litigato con lui »
Abbiamo parlato di un sacco di cose, anche lei mi ha parlato di sé. ma era tempo veloce perchè non lo sentivo passare. Per ore, non ricordo.

Ma il peggio
non è stato rimanere tra la fine del letto e il suo corpo, cercando una posizione, a fissare il vuoto.
Il peggio è stato quando abbiamo smesso di parlare, perchè era tardi e avevamo bisogno di sonno.

Il peggio è stato spegnere la luce, decidere di dormire.
Il peggio è stato riempirmi la testa di carta, cercare di distrarmi dall’evidenza della situazione, dal suo profumo che invadeva gli spazi bagnati della mia mente.
Il suo profumo, così vicino a me, che faceva strage di nervi e spandeva, sempre più forte, nell’aria, misto ad ogni grammo di ossigeno.
Non tanto il suo corpo, le sue mani che in qualche modo o cercavano le mie o mi accarezzavano i capelli, non tanto quello, che era il meno.
Ma la consapevolezza del mio cuore in gola, distrutto dal continuo battere, della lucidità estrema, quanto di più lontano dal sonno.
Cosa sarà stato? Endorfine, bianche a chili, adrenalina probabilmente, tachicardia, sudore, tensione / la mia più grande preoccupazione era che lei si accorgesse del mio terrore - e probabilmente ne era ben consapevole - ma io non ci facevo caso perchè dovevo calmarmi, calmarmi e dormire.
Io pensavo che bello, siamo qui, dopo una giornata così bella, passata così bene, cosa posso chiedere di più? Penso di aver ringraziato dio per la giornata, per una delle poche volte sincere nella mia vita.

Il tutto mentre cercavo in un ultimo disperato esteso tentativo – la salvezza.
Cercavo il modo di soccombere al sonno, scivolare nel tepore caldodolce docile, desiderato, dell’oblio dei sogni finti inventati. Pura fuga dalla distanza minima che mi separava da lei.

E poi mi giravo, e non trovavo una posizione. E anche lei si girava e non trovava una posizione.
E quando attorcigliava i miei capelli, ciocche intere, attorno alle sue dita, per minuti... l’avrei uccisa ammazzata strozzata, per quanto mi rendeva
tutto.
più.
difficile.
Quando mi abbracciava e mi porgeva l’evidenza della carne profumata sottile proprio sotto il naso, l’avrei stretta fino a vederla soffocare senz’aria per quanto mi rendeva impossibile divagare e fuggire almeno con la mente da quel letto.
dal mio letto
caldo, adorato. Mio.

Non so quanto tempo ho passato, cercando in ogni istante di obbligarmi alla calma.
mi ritornavano immagini confuse, di ricordi infantili, o forse sogni
riportavano alla mente la stessa sensazione di vuoto bagnato sulle labbra, di fusione, sudore, di unione e specchio, di buio e caldo, mentre cercavo di ordinare al mio cuore di smettere di battere così, di smettere di battere così forte nelle orecchie negli occhi, sui polsi, ovunque.

mentre cercavo con tutte le forze di afferrare l’istante, il giorno, di fermare il tempo.
di fermarmi. io.
io che ero un tutt’uno con le mie vene.
Non sono mai stata così animale.

Come negli istanti in cui ogni sensazione era coperta dal cieco e ritmico spandere del sangue caldo sulle tempie. Lo spazio e il tempo, le percezioni singole corrotte. Non mi riferivano più realtà, ma una distorta immagine cadente e già morta, rosa in tutti i suoi colori. Che non ricordo di aver mai più visto.

Stavo malissimo e volevo sparire
dissolvermi nell’aria in particelle minuscole.
Volevo scappare dalla situazione, dall’estrema vicinanza con la persona che ho desiderato di più e più a lungo in tutta la mia vita – senza alcuna speranza di poterla ottenere.
E ora era lì, chissà se dormiva, chissà a cosa cazzo pensava.

Io ero da sola. Sola con il mio terrore e volevo piangere e scappare e fuggire e cadere e farmi male sul marmo / ed avere una prova, una sola, che stessi sognando tutto. in un incubo.

Lo so, sto dicendo la stessa cosa da troppe righe.

Non so quanto tempo è passato prima che mi accorgessi che qualcosa mi toccava il naso.
Ero così tesa nell’ordinare al mio cuore
di morire all’istante.
che non mi ero nemmeno accorta che c’era qualcosa contro il mio naso – il suo naso.
Un respiro calmo e profumato sulle mie labbra – il suo respiro.
Mi sono sentita nel mezzo di una visione, qualsiasi cosa stesse succedendo io non capivo, dicevo, sorridente, bonaria, idiota. “vedrai che dorme, vedrai che ora si gira”
e sorridevo, sorridevo tranquilla, nell’avere la prova immensa della calma del suo respiro sereno.
Sentivo le sue dita accarezzarmi i capelli dietro la nuca ed ero serena, con il cuore in gola, felicità e sgomento. felicità pura, bianca, terrorizzata, una felicità così pura
l’emblema della cecità di tutti gli altissimi poeti.
«Porca puttana mi ha dato un bacio» ecco dove finisce la cecità di tutti gli altissimi poeti.
all’angolo delle labbra.

ora riderete
nel sapere
cosa ho pensato in quel momento
“ma sì, che carina, voleva darmi un bacio sulla guancia ma c’è buio e si è sbagliata”.
ecco, dove finisce la cecità.
nel cesso finisce, la cecità.

perchè il primo bacio che mi ha dato ne valeva un secondo, e voleva tutti gli altri.
mille, deinde centum – avrebbe detto uno più bravo di me.
mi limito a dire che non li ho contati.
Ero così persa, così abbandonata a me stessa, ero sola, sola con la mia cecità, con il nero profondo delle mie sensazioni amplificate allo spasmo.
Con il calore, con il sudore, la fusione, il sangue, il fuoco e il fumo che mi ammazzava piano.
Ero da sola, mentre la baciavo, e mi baciava, e il mio cuore rimaneva incollato alle sue labbra. fermo. non batteva più. non mi invadeva più il cervello con quel suo suono rimbombante. malato.
si era dato per vinto, finalmente, giaceva, fermo.

Non so se c’era vergogna, non lo so dire, non ci siamo dette niente, non ci siamo dette niente di niente. E d’altronde io ero così poco me stessa. ero molto più il mio istinto, la mia ferocia, la mia sete, ero la mia fame, ero le mie dita, ero la mia bocca, ero il suo consenso, e la sua pelle liscia e il suo profumo denso in me, in ogni mio gesto.

So soltanto
che mentre ero dentro di lei
pensavo
non sta succedendo, tutto questo non sta succedendo a me, o se sta succedendo, beh, è un errore, e non ricapiterà mai più, perchè lei non ama me. punto.
e la mia cecità poco a poco svaniva.
e la consapevolezza prendeva il suo posto.

e quando con la testa poggiata sul suo petto.
ascoltavo
il battito
del suo cuore
e le chiedevo, ironica
« ma è tuo cuore o il mio che batte così?
e lei mi diceva, sorridente
« spero tutti e due
.
io pensavo
folle, stupida, falsa. non è vero.

. e quando invece mi ha detto «è stato un errore, perchè tu hai diciassette anni»
io le ho creduto, perchè era finalmente sincera.
e le ho risposto «sì ma non ti preoccupare, domattina tu andrai dal tuo ragazzo e io partirò per il weekend, e fidati, sarà tutto come prima»
ma non perchè non me ne importasse nulla di tutto quello che era successo.
ma semplicemente perchè io già sapevo che sarebbe andata così.
che avrei fatto meglio a non dare alcun peso all’accaduto.

e benché i suoi baci fossero droga purissima per la mia bocca assetata.
e mi togliessero il dolore degli occhi aperti ad una nuova vita ferita.
sebbene la sua minima distanza con il mio corpo fosse nettare divino, da bere fino ad ubriacarmi male.
io sapevo che non era quella la soluzione.
ma ho scelto di tacere.

ho scelto di guardarla, in silenzio. mettendo un attimo da parte la realtà delle cose, il futuro.
ho scelto di mettere in pausa la mia vita, e prendermi un po’ di tempo per me.
ad osservare la sua bellezza concentrata nei gesti, in tutti i piccoli giochi di luce che ogni dettaglio di lei faceva coi raggi, deboli e fini, dalle imposte socchiuse.

La luce era azzurra, questo sì, lo ricordo, la neve di fuori mi ha regalato un’atmosfera da sogno eterno, per qualche ora, mentre scendevo dal letto, ed insistevo per farlo nell’esatto istante in cui lo faceva lei.
Mentre mi offrivo di farle il caffè e mi dimenticavo di mettere l’acqua.
Mentre la baciavo ancora, seduta sulle sedie della mia cucina.
Mentre la guardavo dormire sul mio divano, il divano del mio salotto.
Mentre era seduta su una sedia, qui, proprio qui, a mezzo metro da dove mi trovo adesso a scrivere.
Mentre era in questa casa, con un’atmosfera vaga e galleggiante.
Mentre esaurivamo tutti i nostri baci in quel breve tempo, tra il risveglio e la fine.
Come se avessimo saputo in qualche modo intuire che non ci sarebbe. mai più. stata occasione, mai più le stesse condizioni precise, mai più quella luce azzurra nella stessa stanza, mai più il tempo fermo sull’alba – a metà fra la notte e il mattino dopo.
La casa era muta e silenziosa, le sue pareti bianche assorbivano le visioni e il passaggio dei miei piedi nudi sulle piastrelle.
La casa era diversa, veniva da un posto della mia mente che ho dimenticato come raggiungere.

E quando le ho chiesto « perchè mi hai baciata? »
la sua risposta è stata ovvia « perchè ne avevo voglia »
e io ci avrei scommesso la vita che fino al giorno della sua morte non avrebbe speso un minuto di più per pensare ad una risposta migliore.
La risposta migliore era quella « perchè ne avevo voglia » perchè era quello che aveva voglia di fare in quel momento. punto. e un po’ forse la invidio per la sua decisione. incurante delle conseguenze. io non ne sarei stata capace.

.

L’ultimo, debole, ricordo che ho di lei, il più vicino
è il suo addio
l’ultimo bacio, lunghissimo, che mi ha dato, prima di andarsene.
ricordo soltanto una tranquillità estrema, in me, in lei. nient’altro.
e poi la mia mano che apre la porta della casa, e la richiude piano, gira la chiave nella serratura.

e subito dopo il peso.
il peso enorme grandissimo immenso
sono crollata sulle ginocchia e ho cominciato a piangere
sopraffatta – non so dire se era felicità o sgomento
solitamente hanno gli stessi effetti
un peso enorme e nero sul petto
che impedisce di respirare.

quanto avrei dato perchè mi fosse data di nuovo la scelta.
quanto avrei dato per strappare la pagina e ricominciare daccapo.
ma avevo deciso di rimanere a guardare - ogni grammo della sua bellezza invecchiare e poi svanire nel grigio, piano.

piangevo e non sapevo come fermarmi
avevo capito che qualcosa dentro di me era per sempre morto.
e non sarei tornata indietro mai più.

  
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