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Autore: Fefy_07    28/09/2013    4 recensioni
Hilary ha dieci anni e una responsabilità troppo grande le è gravata sulle spalle al momento sbagliato. In poco tempo, perde tutto ciò su cui si fondava la sua vita. Tutti continuano a ripeterle che andrà tutto bene, ma lei non ci crede. Non all’inizio, almeno.
Storia scritta per il IV turno del "Contest a turni e squadre - La sfida dei grandi autori" indetto da fa92 sul forum di EFP.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nick sul forum/EFP: Fefy_07
Squadra (dal II turno al VIII turno): Nera
Giudice responsabile: Ele
Turno: IV
Pacchetto se presente: //
Titolo Storia: “Andrà tutto bene”
Fandom se presente: //
Pairing se presente: //
Genere scelto tra i proposti: Drammatico
Raiting: Arancione
Personaggi del fandom se presenti: //
Introduzione: Hilary ha dieci anni e una responsabilità troppo grande le è gravata sulle spalle al momento sbagliato. In poco tempo, perde tutto ciò su cui si fondava la sua vita. Tutti continuano a ripeterle che andrà tutto bene, ma lei non ci crede. Non all’inizio, almeno.
NdA: Non so molto delle malattie che ho utilizzato, né dei procedimenti burocratici o del luogo in cui ho ambientato la parte principale della storia. Ho cercato di documentarmi per quanto possibile e spero di aver fatto un lavoro almeno realistico. I fatti narrati non sono in alcun modo ispirati a situazioni reali. La storia partecipa alla challenge "Sfida dei duecento prompt" indetta da msp17 sul forum di EFP. Prompt 36: Malattia.

 
“Andrà tutto bene”
 
La stanza era addobbata a festa. Palloncini colorati occupavano gran parte del pavimento e del soffitto; cappelli di carta a cono erano adagiati davanti a ogni sedia e la tovaglia arancione aggiungeva un ulteriore tocco di colore alla mescolanza di tonalità sgargianti della sala da pranzo.
Sulla tavola, vassoi ricolmi di prelibatezze erano tenuti coperti dalla carta da cucina e uno stereo nel salotto adiacente sprigionava tutto attorno una canzoncina allegra per bambini. Tutto è pronto per la festa dei quattro anni di Theresa, costatò Tiffany Carver, soddisfatta.
L’unica nota stonata in quel quadretto allegro era la figlia maggiore, Hilary. Seduta a capotavola, piagnucolava silenziosamente, cercando di nascondere le grosse lacrime che le scivolavano sulle guance.
«Tesoro, cosa c’è che non va?» domandò con dolcezza la madre, raggiungendo la bambina e accarezzandole la guancia. Hilary si ritirò dal contatto con un singhiozzo.
«N-non farmelo fare, m-mamma. Ti p-prego! Mi dispiace!» rispose, alzando lo sguardo addolorato sulla donna e tremando un po’.
«Stai rovinando l’atmosfera, tesoro. Sono i quattro anni della tua sorellina, dovresti essere contenta!» la riprese bonariamente Tiffany. «Lo so che sei grande ormai per queste festicciole, ma devi stare qui per lei.»
Hilary scosse la testa e tentò di placare i singhiozzi più forti che minacciavano di sfuggirgli dalle labbra. Nonostante avesse solo dieci anni, era stata truccata dalla madre per l’ “occasione speciale”. Adesso la matita color oro, che tanto bene sposava con i lunghi boccoli castano ramato, le stava gocciolando dalle palpebre in sottili rivoli fangosi, sbavando contemporaneamente il lucidalabbra.
«Guarda che disastro! C’era bisogno di fare questa scenata?! Adesso le ragazze saranno tutte carine e tu sarai inguardabile.» Il tono della madre s’indurì sempre di più, asciugando bruscamente la faccia della bambina con uno dei tovaglioli lì vicino. Un altro lamento sfuggì alle labbra di Hilary, ma lottò per non far scappare altre lacrime.
«Brava bambina» lodò la madre, notando il suo sforzo. «Adesso sta’ buona mentre io chiamo il babbo a lavoro, e poi sveglieremo insieme Theresa dal riposino, va bene?»
Senza attendere una risposta, Tiffany si spostò verso il ricevitore del telefono e compose il numero dello studio del marito. Dopo tre squilli, una voce rauca e impastata rispose: «Pronto?»
«Alan, tesoro… Quando torni a casa? È il compleanno di Theresa, avevi detto di poter tornare prima.»
Una lunga pausa seguì quelle parole, poi Alan rispose: «Tiffany? È uno scherzo?»
Tiffany sentì il battito cardiaco aumentare insieme al suo nervosismo. Possibile che suo marito si fosse dimenticato del compleanno della figlia minore? «No, Alan. Non lo è. Theresa sta riposando, ma vorrà il suo papà qui quando si sveglierà.»
Sentì un sospiro dall’altro lato della cornetta, poi un sussurro debole, sconfitto: «Perché mi fai questo, Tiffany?»
La donna aggrottò la fronte confusa, senza capire l’allusione. «Che cosa intendi con questo?»
«Theresa è morta da tre settimane, Tiffany. Dovr…» Tiffany era certa che suo marito stesse continuando a parlare, ma la voce di lui non le giungeva più alle orecchie. Di sicuro, Alan doveva essere ubriaco o forse aveva intenzione di ferirla, per qualche ragione. Ma una cosa del genere era assolutamente intollerabile.
Senza preoccuparsi di capire dove fosse arrivato il marito con il suo insensato sproloquio, Tiffany strepitò: «Come osi dire una cosa del genere? Come osi anche solo pensarla?! Io mi prendo buona cura delle mie figlie! Theresa è a letto, dorme! Capito?! Se questo è un tuo assurdo modo per…» abbassò allora la voce, fino a un mormorio sommesso, in modo che l’altra figlia non potesse sentirla dalla stanza vicina. «…per vendicarti del divorzio, sappi che sei ridicolo. E immaturo. E anche pazzo!»
«Tiffany,» l’uomo riprese con più dolcezza stavolta, come se stesse spiegando qualcosa a un bambino «Theresa è morta. Siamo stati al funerale. C’era anche Hilary. Siamo tornati a casa e ho chiesto il divorzio. Ti ho lasciato l’affidamento, ma verrò a prendermi mia figlia se non la smetti con queste assurdità.»
Un tic nervoso cominciò a manifestarsi come un tremolio nella guancia della donna, che strinse forte la cornetta del telefono e respirò pesantemente, cercando di calmare l’ondata distruttiva di furia e paura che le parole dell’ex-marito avevano suscitato. «Non provare mai più a minacciarmi con qualcosa del genere, mi hai sentito?! Volevo soltanto che tua figlia passasse un bel compleanno, volevo che potessi farla felice per una volta…»
«Mia figlia è MORTA!» sbraitò l’uomo dall’altro lato, prima che la voce gli si spezzasse. «È morta, mentre io ero al lavoro, mentre credevo che fosse al sicuro a casa…»
La disperazione nella voce del marito era così palpabile che per un attimo Tiffany pensò di confortarlo. Forse stava impazzendo davvero ed era convinto che la piccola Theresa fosse morta. «Forse dovresti venire a casa, tesoro» tentò allora, tutta la rabbia completamente svanita dal suo tono «Vieni da Hilary, le farà piacere.»
«Non posso. Devo andare» tagliò corto Alan, prima che il telefono si ammutolisse. Tiffany poté quasi figurarselo, mentre scivolava sul pavimento e piangeva. In un lampo di lucidità, pensò che probabilmente fossero le lacrime il motivo della voce alterata dell’uomo, nel primo momento in cui aveva risposto.
Si diresse in sala da pranzo, ritrovando Hilary esattamente dove l’aveva lasciata, il cappellino di carta ancora in testa e le guance bagnate di nuovo. «Hilary, tesoro…» chiamò la madre, e vide la piccola alzare i suoi grandi occhi verdi per guardarla spaventata. «Non sono arrabbiata, mamma ti vuole bene, lo sa che non ti piace quando lei e papà litigano» tentò di confortarla la donna, stringendola in un abbraccio e sentendola irrigidirsi sotto il suo tocco.
«M-m-mamma…» balbettò con voce fievole Hilary, senza ricambiare l’abbraccio, rigida come un pezzo di ghiaccio.
Tiffany non ci diede peso e la prese per mano, facendola alzare dalla tavola. «Andiamo a svegliare Theresa, tesoro. Potrai darle il suo primo regalo.» E le mise in mano un pacchetto piccolo di carta colorata, adornato da un bel fiocco. Hilary singhiozzò una volta, ma annuì a testa bassa.
La donna lasciò la mano della figlia maggiore solo in cima alle scale, davanti alla porta della piccola. «Ora stai qui, io la porto fuori» le sussurrò in tono incoraggiante.
La porta della cameretta si aprì con un cigolio sinistro, quel tanto che bastò a Tiffany per scivolare dentro silenziosamente. Tutto era in ordine, come avrebbe dovuto essere: il lettino di Hilary addossato alla parete, la lunga tenda cremisi davanti alla finestra, la libreria e la cesta dei giochi ordinate. Qualcosa però non era come avrebbe dovuto, e Tiffany lo sentì subito. S’irrigidì impercettibilmente, guardandosi intorno con fare sospetto, cercando di identificare quel dettaglio che la disturbava, ma senza successo.
Alla fine, si avvicinò alla culla accanto al letto per prendere tra le braccia la sua piccola Theresa, e lì si accorse del problema: la culla. Vuota.
Un senso di vertigine la fece indietreggiare contro la parete, gli occhi dilatati fissi su quelle lenzuola intatte, senza nessun corpicino caldo sopra.
Improvvisamente tutto ciò che era giusto fino a qualche momento prima, divenne assurdo, privo di logica. La camera si fece più piccola e più scura, le tende cremisi strappate a terra, la cesta dei giochi rovesciata e i libri buttati in giro o strappati. Ma la culla rimase vuota, senza Theresa.
Un freddo glaciale le colpì le ossa e il cuore, mentre usciva dalla camera con calma quasi innaturale, osservando con espressione neutra la figlia che tremolava sull’uscio, in attesa.
«Andrò a chiamare la polizia, Hilary. Tua sorella non è nella sua culla» informò, con voce monocorde, e già stava alzando la cornetta, quando una piccola mano le bloccò il polso. Tiffany la osservò quasi disinteressata, e le sue orecchie scelsero proprio quel momento per riconnettersi al cervello, permettendole di tradurre in suoni di senso compiuto gli strilli che sua figlia maggiore aveva fatto per tutte le scale e fino in salotto.
«Non devi mamma, per favore, Theresa è m-morta, non chiamarli! Non p-possono farci niente!» stava gridando Hilary, aggrappata al suo braccio nel disperato tentativo di non farle raggiungere il telefono.
Qualcosa scattò in quel momento nella mente di Tiffany, immagini confuse riguardo all’acqua e a una commissione veloce. Tieni d’occhio tua sorella, solo per dieci minuti risuonò nella sua mente, un ordine fiducioso dettato a una ragazzina abbastanza grande. In fondo, il fruttivendolo era solo a pochi metri.
Hilary percepì distintamente il momento in cui la madre – la vera madre, non quell’apatica o quella gioiosa – tornò in sé, ricordando il suo fallimento. Ricordando di aver lasciato sole lei e Theresa. Ricordando il fiume.
E si preparò all’incombente furia, alle percosse e agli strilli, perché sapeva che sarebbero venuti, com’erano venuti sempre dal giorno in cui il padre aveva lasciato la casa per trovarsi un appartamento tutto suo. Anche quel giorno, sua madre non la deluse.
La collera dirompente si scatenò prima di tutto sul mobilio, la stessa sorte toccata alla sua camera giorni addietro. Il tavolo della sala fu rovesciato, distruggendo palloncini in una sequenza inquietante di botte secche, quasi una crivellata di proiettili; rovesciando cibo su tutto il pavimento; macchiando di succhi appiccicosi tutto intorno. Fu poi il turno delle sedie, rovesciate con grida di dolore e ringhi che nessuno poteva udire, perché casa loro era distante almeno cento metri dalle altre.
Tiffany ansimava quando si voltò finalmente verso la figlia, i denti scoperti in un’espressione di pura furia, e le parole sputate fuori con disprezzo, con l’intento preciso di fare male. «È stata tutta colpa tua!» strillò «Perché?! Perché ti ho lasciato con lei?! Avrei dovuto sapere che sei solo una stupida egoista!»
Hilary sentì gli occhi inumidirsi di nuovo, ma annuì. Non erano cose nuove, le aveva sentite già diverse volte e se ne era convinta anche lei. Theresa non c’era più per colpa sua. L’aveva lasciata sola, non l’aveva tenuta d’occhio nel modo giusto.
Quando vide la madre avvicinarsi, Hilary la aspettò. Meritava una punizione e sottostare ai continui attacchi d’ira della madre era il modo migliore per chiedere perdono, anche se immaginava di non poterlo ottenere. Quale madre avrebbe perdonato l’omicidio del proprio figlio?
Uno strattone ai capelli ridusse la bambina in ginocchio, a occhi serrati. La madre continuava a urlarle tutti gli errori che aveva fatto quel pomeriggio, ma lei non la ascoltava più, troppo occupata a mantenersi in piedi contro la mano castigatrice che la scuoteva a intervalli. L’ultima affermazione la costrinse però a voltarsi, con uno sguardo shockato. Sicuramente sua madre non avrebbe…?
E invece sì, sempre tenendola per i capelli, cominciò a trascinarla verso la porta di casa, e solo grazie alla sua grande forza di volontà Hilary riuscì a incespicare dietro di lei senza cadere a peso morto. Solo sentendo il rumore dell’acqua rapida del fiume vicino casa, la bambina si riprese e cominciò a implorare, scoppiando in lacrime: «M-m-mamma, ti p-prego! Non farlo! Sarò b-buona, n-non volevo, n-n-non il fiume!»
La faccia della donna rimase profondamente concentrata sul suo obiettivo, senza far notare se avesse sentito o no le suppliche disperate della figlia. Se sì, sicuramente non la dissuasero.
Il mormorio sommesso della madre – «Proverai cosa si prova, vedrai…» – era un sottofondo lugubre per Hilary, che in un disperato tentativo di liberarsi dalla stretta della donna, piantò i talloni nella terra, col solo risultato di farsi strappare una grossa ciocca di capelli e cominciare a piangere più forte. La mano della madre si chiuse un secondo dopo sul suo orecchio, implacabile e fu allora che Hilary si arrese al suo destino.
Si lasciò guidare fino alla riva fangosa, non si oppose né scalciò quando la madre gli infilò la testa sotto e l’acqua cominciò a bruciarle il naso e la gola. Gli unici movimenti furono i disperati e inconsci tentativi del suo corpo di riavere ossigeno. Attivamente, Hilary stava accettando la morte, lieta di poter sfuggire alla madre e poter riabbracciare la sorellina.
Per un paio di volte, Tiffany strappò sua figlia giusto nel momento in cui i polmoni erano troppo pieni per prendere altra acqua, concedendole un minuto di tosse convulsa. Poi decise di farla finita, e le infilò di nuovo il volto nell’acqua sporca del fiume, stavolta senza alcuna intenzione di tirarla fuori.
Hilary sentì le forze abbandonarla e l’acqua farsi sempre più luminosa, come se una luce arrivasse direttamente dal fondo. Per un attimo si sentì delusa: aveva sempre sentito storie sulla vita che ti passa davanti agli occhi e sulle persone care che ti prendevano per mano durante il tuo ultimo viaggio, ma in quel momento non stava accadendo nulla. Solo quella luce intensa. Alla fine, la bambina chiuse gli occhi e lasciò che l’acqua la portasse alla deriva.
Il buio intorno a lei era confortante, una cortina densa che gli impediva di vedere o sentire. In un angolino recondito della sua mente, si domandò perché sentisse freddo. I morti non sentono freddo.
Come in una favola, si alzò in piedi nel buio e cominciò a camminare. Non era certa di sapere dove stesse andando, ma sentiva in qualche modo che la direzione fosse quella giusta. Ne era assolutamente certa.
Cominciò a sentire dei mormorii, poi dei suoni fievoli. Qualcosa o qualcuno stava parlando, e Hilary si sentì al sicuro, desiderò raggiungere quella voce. Era un suono basso, profondo, un tono che le piaceva e che sapeva di famiglia. Buffo, poiché la famiglia era l’ultima cosa a cui avrebbe dovuto pensare. La sua era andata in pezzi.
Un attimo dopo, senza sapere dove né come, la faccia terrorizzata del suo papà la scrutava dall’alto. «P-papà?» mormorò con voce roca. Le sembrava di avere carta abrasiva nella gola e ogni suono le faceva male.
«Oh Dio, ti ringrazio!» esclamò il padre, guardando il cielo e catturando la figlia in un abbraccio. Hilary sbatté gli occhi un paio di volte, confusa. Questo non era il Paradiso. Forse nemmeno Dio la voleva? Era stata così cattiva?
«È sveglia!» stava urlando intanto il padre, rivolgendosi a persone che Hilary non poteva vedere. «Sta’ tranquilla tesoro, stai bene, andrà tutto bene.»
La bambina riconobbe i sussurri senza senso del padre, erano le stesse cose che diceva a Theresa quando aveva paura dei mostri o quando si svegliava in preda a un incubo. Erano stupidaggini, perché lei non stava bene e mai niente sarebbe andato di nuovo bene, perché le sue orecchie sentivano le sirene, e seppe immediatamente che erano venuti a prendere sua madre. Per colpa sua, anche la mamma adesso stava andando via.
Hilary non pianse, non più. Forse l’aveva già fatto troppo e i suoi occhi si erano seccati, o forse non capiva bene cosa sentiva e la cosa la infastidiva. Doveva essere sollevata? Spaventata? C’era ancora troppa acqua che le grondava dai capelli e troppe domande che voleva fare.
«Come…» cercò di cominciare, ma il padre la zittì.
«La telefonata, piccola. Non potevo lasciarti nelle sue mani, ma nemmeno venire da solo, mi sono dovuto fermare dai poliziotti giù in città e…» Il sussurro del padre si spezzò all’improvviso, facendo alzare su di lui lo sguardo interrogativo della figlia, fino ad allora fissato in un punto alle sue spalle. «Pensavo di essere arrivato troppo tardi, quando l’ho vista con la tua testolina tra le mani ed eri svenuta… Dio, ti ho fatto la manovra di Heimlich come potevo, insieme a uno dei poliziotti, ma non era sicuro e credevo…»
Hilary posò una mano tremante su quella del padre, che si era chiusa a pugno durante il racconto. «Va tutto bene, papà» sussurrò, ripetendo senza accorgersene le insensatezze che tanto calmavano la sorellina. «Sto bene, stiamo bene.»
Prima che l’uomo potesse ribattere, un’ambulanza frenò la sua corsa nel cortile esterno della casa, e dei paramedici portarono una barella fino a loro. Hilary tentò di ascoltare cosa stesse dicendo suo padre a uno dei due, mentre veniva caricata sull’ambulanza. Tutto ciò che vide dopo fu una faccia apparentemente amichevole che le diceva: «Andrà tutto bene, sta calma.» Non si rassicurò per niente e fu sul punto di dirlo, quando un pizzico alla piega del gomito la costrinse a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi nuovamente al buio.
Le settimane successive passarono in un lampo confuso di suoni, colori e facce mai viste prima.
In ospedale, non trovarono particolari effetti collaterali fisici dovuti all’assenza di ossigeno ma, a ragione, dissero che il trauma a livello psicologico poteva essere molto grave. Hilary non fu d’accordo, si sentiva sempre la stessa. Solo la sua paura dell’acqua, sviluppata dopo la morte della sorella, era diventata una vera e propria fobia, portandola addirittura a dibattersi urlando nel tentativo di liberarsi dalle braccia del padre che aveva tentato di farle una doccia. Quel problema non fu troppo drammatico, si limitarono a fornirgli ogni mattina e sera una bacinella di acqua tiepida, del sapone e una spugnetta, con cui riusciva bene o male a mantenersi pulita.
I veri problemi iniziarono subito dopo. Suo padre non aveva le caratteristiche per ottenere il suo affidamento. Dopo la morte di Theresa, aveva iniziato a bere e aveva perso il lavoro, quindi passava le sue giornate a ubriacarsi sul pavimento o sul divano del suo appartamento in affitto. Provò a lottare per un po’, ma gli fu risposto che, prima di poter riavere la custodia della figlia, avrebbe dovuto sottoporsi a un programma di recupero per alcolisti di dodici settimane, trovare un lavoro e pagare gli arretrati che si erano accumulati. Hilary capì che non avrebbe rivisto il padre per tanto tempo, quando lui tentò di spiegarle con parole studiate come sarebbe tornato a riprenderla un po’ di tempo dopo.
Non lo biasimò nemmeno, anche la sua famiglia era andata in pezzi per colpa sua. Chi l’avrebbe voluta?
I servizi sociali la fecero girare per un paio di famiglie, con risultati quantomeno preoccupanti.
La prima volta, Hilary si era quasi sentita felice. I tipi che le presentarono erano simpatici, ma era la loro figlia piccola che fece illuminare gli occhi della ragazzina. Poteva avere massimo cinque anni, si chiamava Joanne ma per Hilary divenne Theresa dal primo momento in cui la vide. I suoi nuovi “genitori” le perdonarono il nome perché conoscevano la sua storia ed erano inclini a farla vivere nella sua bolla di fantasia in cui aveva ancora una sorellina, almeno per un po’.
Le cose peggiorarono drasticamente nel giro di pochi giorni. Il suo attaccamento con la bambina era quasi patologico, non si staccava mai e Joanne, pur divertendosi, cominciò ad aver paura di tutte le attenzioni che quella nuova bambina le rivolgeva. La goccia che fece traboccare il vaso accadde la quarta notte.
Joanne e Hilary avevano stanze diverse per volere della coppia, che non reputava salutare per nessuna delle due la compagnia dell’altra nella camera. Volevano che crescessero indipendenti e con la loro privacy, e Hilary sembrò comprendere la situazione perché non si lamentò, sorprendendo i due genitori. La motivazione la scoprirono poche notti più avanti, quando le urla straziate della figlia piccola li svegliarono di soprassalto.
La vista che li accolse quando si precipitarono da lei fu inquietante. Ai piedi del letto, sedeva Hilary, con la faccia più impassibile del mondo, mentre la piccola Joanne si fiondava sulle gambe del padre singhiozzando disperatamente. Quando i due chiesero spiegazioni alla più grande, lei rispose con una scrollata di spalle: «Ero preoccupata, così sono venuta a guardarla dormire. Non so perché si sia spaventata così, lo faccio tutte le notti.»
Il giorno dopo, Hilary fu ripresa dalla donna dei servizi sociali e salutò la famiglia.
La seconda famiglia in cui la bimba venne sistemata fu anche peggio. Tutto andò bene per circa mezz’ora, fin quando Hilary conobbe il figlio della coppia, Jacob. Il ragazzo per fortuna era più grande e tentò anche di dimostrarsi amichevole, chiamandola “sorellina”. Ma Hilary impazzì letteralmente alla vista di un ragazzo e si avventò su di lui con un grido di rabbia, riuscendo ad assestargli alcuni calci e pugni, prima che gli adulti la staccassero.
Alla domanda successiva su cosa fosse successo, Hilary scoppiò in lacrime. «Non è mia sorella!» continuava a gridare, davanti allo sguardo dispiaciuto del ragazzo e a quello pietoso della donna che seguiva il suo caso. Ci vollero quasi quindici minuti per calmarla abbastanza da portarla via da quella casa.
Alla fine, decisero di «affidarla alle cure dello staff di un ospedale psichiatrico infantile». Per Hilary, l’avevano scaricata in un manicomio per bambini pazzi.
Sulla porta, la donna con cui aveva passato le ultime settimane le sorrise incoraggiante. «Vedrai che qui starai bene, piccola. Loro possono aiutarti.»
Hilary annuì per educazione. Non le avrebbe detto che nessuno poteva aiutarla, né che sapeva la verità: tutti si erano arresi e questa era l’ultima spiaggia.
Un’altra donna con un completo elegante e l’aria molto professionale le prese la mano, facendola entrare. «Ti troverai bene nella tua nuova stanza, Hilary.» Non le credé. Non sarebbe mai stata bene.
Ci volle un po’ perché Hilary riuscisse a trovare un equilibrio in quel mondo che non le apparteneva, pieno di mostri e di facce sconosciute, cattive. Aveva imparato subito che non avrebbe fatto amicizia con nessuno. I bambini erano strani lì.
Ce n’era uno che amava giocare con il fuoco, e fissava con espressione avida le fiamme nel camino della sala dei giochi. Se non ci fossero state le infermiere, probabilmente ci si sarebbe tuffato dentro.
Un’altra strillava fortissimo all’improvviso, senza motivo apparente. Un’altra ancora parlava con i pupazzi e a volte li puniva se erano “cattivi”, strappando loro il petto e tirando fuori tutta l’imbottitura; poi scoppiava a piangere davanti al disastro.
Gli altri non erano meglio, ognuno in un modo particolare era malato. Lei non sentiva di appartenere a quel posto.
Anche lei aveva avuto alcuni problemi, ma solo di notte e poi si erano risolti subito. Si era svegliata singhiozzando e strillando diverse volte, terrorizzata dai più svariati incubi. Quando la signora nel completo  – Lana, apparentemente la psicologa assegnata al suo caso – l’aveva vista da sola e le aveva chiesto spiegazioni, Hilary aveva solo affermato di aver bisogno di una stanza tutta per sé per stare bene, al posto della stanza comune dove tutti dormivano in letti affiancati. Nonostante le pressioni, la bimba non continuò a spiegare. La notte successiva però, dormi come un angelo, senza svegliarsi nemmeno una volta.
Beh, così pensavano le infermiere, almeno. La verità era che Hilary non si permetteva di dormire dalla morte della sorella. Restava a guardare il soffitto e ascoltava i rumori della notte. Solo quando crollava dalla stanchezza e quindi il buio le concedeva una notte senza sogni, riusciva sul serio a riposare.
I giorni passarono lenti, monotoni e grigi, e Hilary cominciò seriamente a domandarsi se non fosse il caso di fare qualcosa al riguardo. Il momento che odiava di più era la “ricreazione”: lei e tutti gli altri pazienti erano lasciati all’aperto, sorvegliati da lontano. Lo chiamavano un momento di socializzazione, ma di quella ce n’era ben poca. Ognuno stava per i fatti propri, a lottare contro i propri problemi. Tutti tranne Hilary, che era normalissima e si annoiava a morte.
Il mondo della bimba parve risplendere di vita nuova una mattina di dicembre come tante altre. Uscendo nel grigiore del cortile, gli occhi di Hilary caddero subito su una figura nuova, un dettaglio che non combaciava con l’immagine che si aspettava di trovare.
Seduta sulla panca dove di solito si accomodava lei, c’era una figura piccola e, all’apparenza fragile. Se ne stava in silenzio, agitando le gambe e dondolando la liscia chioma bruna, apparentemente fissando un punto nel vuoto.
Hilary si era ripromessa di non parlare con nessuno dei fenomeni che dividevano con lei l’istituto, ma quella ragazza per qualche motivo le pareva meno malata. E poi non l’aveva mai vista prima, quindi forse lo era davvero.
Prima ancora che potesse decidere se approcciarla o no, lei si voltò nella sua direzione, sventolando una mano per farla avvicinare.
Hilary si avvicinò a passo lento, studiandola. La pelle era un po’ pallida e un po’ tirata, e aveva le labbra screpolate, ma gli occhi sembravano amichevoli, quindi perché non darle una possibilità?
Si sedette accanto a lei e, per qualche interminabile secondo, ognuna rimase zitta. Poi lei esordì: «Loro pensano che siamo pazzi.»
«Io non sono pazza» fu l’unica cosa che riuscì a controbattere Hilary, dandosi subito della stupida. I pazzi dicono di non sentirsi pazzi.
«Nemmeno io. Ma loro lo pensano» concluse, come se fosse il ragionamento più logico del mondo.
Hilary non seppe di preciso cosa risponderle, così si limitò a tenere la bocca chiusa. «Perché non ti credi pazza?» domandò dopo un secondo, curiosa. Lei avrebbe saputo rispondere, era certa di non essere pazza, ne aveva tutte le ragioni stampate a fuoco nel cervello, pronta a esporle se ci fosse stata occasione.
«Perché non sono come loro» disse, puntando alle loro spalle il gruppo di bambini persi ognuno nel proprio mondo. «Loro credono che io sia schizofrenica, li ho sentiti parlare. Sai cosa vuol dire?»
«Non proprio» ammise Hilary, anche se quella parola aveva qualcosa di familiare.
«Pensano che mi immagini le cose. Forse potrei star immaginando anche te.»
«Io sono vera.»
«Anche un’allucinazione lo direbbe.»
Hilary non rispose di nuovo, ma cominciò a pensare che quella ragazzina fosse davvero finita in quel posto per uno strano scherzo del destino, esattamente come lei.
«Non ti ho mai vista» le disse invece, sottintendendo la prima domanda che aveva intenzione di farle.
«Non mi faccio vedere spesso. Mi sento sola qui fuori, in mezzo a loro.»
«Anche adesso?»
La ragazza misteriosa la scrutò per un secondo, poi scrollò le spalle. «No,» ammise «adesso mi sento bene. Era tanto che non parlavo con qualcuno. È bello.»
«È vero» le rispose, accennando un sorriso stanco e già aveva sulla punta della lingua un’altra domanda, ma sentì la voce di Lana che la chiamava per la solita chiacchierata post-ricreazione.
Vide la ragazzina alzarsi, pronta per andare via, e le bloccò il polso con una mano. Era freddo sotto il suo tocco. «Non mi hai detto come ti chiami.»
“Non te l’ho nemmeno chiesto, però. Che importanza ha?”
Già, che importanza aveva? Lì dentro non contavano i nomi, contavano le loro malattie, i loro disagi e i loro traumi. Hilary non se la sentì di replicare. «Almeno ti rivedrò?» chiese in un sussurro, un po’ spaventata da un diniego.
Ma la ragazza invece sorrise. «Certo, domani.» E sorrise anche Hilary, guardandola andare via.
«Allora, Hilary. Ho visto che oggi non è stata una giornata come le altre» esordì Lana, guardando la bambina annuire, attraverso le lenti dei suoi occhiali rettangolari. «Vuoi raccontarmi come mai?»
Hilary scrollò le spalle, un po’ a disagio. Non sapeva se fosse giusto parlare della sua nuova amica con Lana. L’aveva evidentemente vista, quindi avrebbe voluto sapere cosa provava per la loro conversazione e lei non poteva dirlo. Non ne era nemmeno sicura da sola.
Tuttavia, ormai era un po’ che conosceva Lana e sapeva che non si sarebbe arresa davanti a un atteggiamento incurante. Avrebbero potuto andare avanti per ore, e Dio solo sapeva quanto Hilary non ne avesse voglia.
Decise infine di prendere la questione alla lontana, e cominciò: «Ho parlato con qualcuno.»
Lana non si scompose alla rivelazione. «Con chi?»
«Una ragazza.»
«Com’era questa ragazza?»
«Normale.»
Lana annotò qualcosa sul suo taccuino davanti a quell’affermazione, e Hilary deglutì. Aveva detto qualcosa di sbagliato, forse?
«D’accordo, descrivimela fisicamente.»
«Capelli lunghi bruni, lisci. Occhi castani. Pallida. Sembrava stanca, come se non dormisse bene.» Hilary s’interruppe, incerta se continuare o no.
«Qualcos’altro?» pressò Lana, fissandola intensamente.
«Indossava una salopette e una camicia. Nient’altro.»
La donna annuì, scribacchiando qualcos’altro sulla stessa pagina di prima. «Come si chiama?» chiese ancora.
«Non l’ha detto. Non mi serviva saperlo.»
«Certo che no. Vi rivedrete?»
Hilary rimase interdetta da quella domanda, si spaventò anche un po’. Aveva appena trovato una persona con cui parlare e volevano portargliela via, probabilmente perché la credevano pazza. Non l’avrebbe permesso.
«No» rispose, mettendo dietro quella singola parola quanta più convinzione possibile, cercando di crederci lei stessa.
«Me lo dirai se succederà?»
«Sì.» Un’altra parola, un’altra bugia. Non avrebbe più parlato dell’altra ragazza normale, Hilary se lo ripromise in quell’istante.
«D’accordo. Vuoi dirmi di cosa avete parlato?» domandò più dolcemente Lana, ma Hilary scosse la testa e abbassò lo sguardo. «Va bene, non preoccuparti. Direi che abbiamo finito, per oggi» aggiunse, alzandosi in piedi e lasciandola alle cure di un’infermiera.
Hilary si sedette sul tronco morto nel cortile posteriore dell’edificio, in attesa della sua nuova amica. Erano passate tre settimane da quando si erano conosciute, e le due bambine avevano trascorso ogni singolo momento della ricreazione insieme.
Hilary si sentiva più libera da quando conosceva quella ragazza, meno oppressa dal suo passato e meno cupa, in un certo senso. Avevano parlato molto, di tante cose, e la loro amicizia stava davvero aiutando la bambina. Non sapeva ancora quale fosse il suo nome, la sua età o perché era lì dentro, ma non le importava. Era felice così.
«Che vuoi dirmi?» esordì la ragazzina, sedendosi accanto a lei e facendola sussultare.
«Che intendi?» domandò di rimando, posandosi una mano sul cuore come per controllarne i battiti.
«Fifona!» rise l’altra, notando il gesto. «Lo sai cosa intendo. Ti stavi mordendo il labbro e guardavi l’orizzonte, piuttosto che lanciare occhiate all’angolo in attesa del mio arrivo. Vuoi dirmi qualcosa.»
Hilary fu meravigliata da quell’analisi, perché si rese conto che era molto accurata. Non ricordava esattamente quante volte lei e l’altra avessero parlato di questioni serie, ma sicuramente aveva sempre assunto quella posa poco prima di cominciare.
Con un sospiro, la bambina le fece un occhiolino. «Mi conosci troppo bene. Penso che vogliano dimettermi. Ho smesso di fare brutti sogni e Lana dice che sono migliorata moltissimo. Hanno finalmente capito che non sono pazza!» annunciò con orgoglio, prima di continuare più timidamente. «Voglio dirti delle…cose però, prima.»
L’altra la guardò impassibile, poi rispose: «Quando pensano di dimetterti?»
«Tra qualche giorno, tre o quattro.»
«Hai più raccontato a Lana dei nostri incontri?»
«Non dopo la prima volta, e tu?»
«No.»
Dopo il primo disastroso colloquio riguardo alla ragazza, Hilary non l’aveva più nominata e le aveva confidato i suoi timori. Insieme, avevano deciso di cominciare a vedersi sul retro dell’edificio, dove di solito i bambini non erano ammessi.
«Ottimo. Comunque non è questo il punto. Non ti ho mai detto perché sono finita qui dentro» riprese Hilary con voce un po’ più incerta, distogliendo lo sguardo. La sua amica sarebbe scappata via e l’avrebbe dimenticata se avesse saputo cosa aveva fatto? Sarebbe stata disgustata? Avrebbe provato pietà?
Sentì una stretta confortante sulla spalla e alzò gli occhi in quelli nocciola dell’altra. «Non devi dirmelo per forza, a me non interessa» sussurrò.
Hilary deglutì, ma non si fermò. «No, voglio farlo. Ne ho bisogno.»
Prese un profondo respiro, poi cominciò a raccontare. Le disse tutto, da quando sua sorella Theresa era nata fino al giorno in cui sua madre le chiese di guardarla per dieci minuti, mentre andava in città a comprare le mele.
«Vicino a casa nostra c-c’è un fiume…» Senza rendersene davvero conto, Hilary aveva cominciato a balbettare e a fermarsi spesso per riprendere fiato, come se stesse correndo una maratona invece che raccontando la sua storia. «T-theresa amava quel fiume. Diceva di voler dormire lì, non capiva mai quando le dicevo che il letto del fiume non funzionava esattamente così!»
Fece un suono a metà tra un singhiozzo e una risatina, poi si asciugò gli occhi che erano diventati lucidi. «S-sono stati pochissimi minuti. Lei era lì, che scorazzava nel giardino, ed io ho ab-bassato lo sguardo per leggere qualche r-riga di un libro. Io…non potrò mai perdonarmelo. Mai.»
Rimasero in silenzio per qualche minuto, Hilary ricomponendosi e l’altra ad attendere paziente. Non cercò di toccare o confortare Hilary con le parole, perché aveva troppo rispetto per l’altra per usare il cliché comodo dell’ «andrà tutto bene». Non sarebbe mai andato tutto bene, ma si poteva provare ad andare avanti.
«Non ho fatto in tempo a dirle che le voglio bene. Né so se mi ha perdonato. Scommetto che mi odia» concluse Hilary, con voce roca.
«Ascolta, da come la descrivi, tua sorella mi sembra una tipa in gamba. Sono sicura che non ti odia.»
«Come fai a dirlo?»
«Non è stata colpa tua. Anche lei lo saprebbe. E poi,» scrollò le spalle, come se stesse costatando una cosa ovvia. «Sei sua sorella, no? Nessuno odia il proprio fratello.»
Hilary ci rifletté un po’ su. Non era certa che sua sorella non la odiasse, ma sentirsi dire che non era colpa sua la fece sentire un pochino meglio. Anche se solo un filo. Aveva passato settimane a sentire il contrario e a conviverci.
«Grazie» le disse, senza aggiungere altro.
«Di nulla» sorrise l’altra, alzandosi.
Stava quasi per scomparire dietro l’angolo, e Hilary non seppe quando e se si sarebbero riviste, quindi agì in fretta. «Ehi!» chiamò, per attirare la sua attenzione. «Mi chiamo Hilary, e ho dieci anni.»
L’altra ragazza sorrise, senza rispondere. Poi sparì verso l’ingresso della struttura.
La notte era quieta. Hilary si rigirò nel letto, cercando di addormentarsi. Era diventato molto più facile, e aveva scoperto che riusciva anche a sognare, con un po’ d’impegno. Non vedeva più acqua distruttiva e feroce, vedeva la sua sorellina che le correva incontro ridendo.
Riusciva a prenderla di nuovo in braccio e a sentire la sua vocina chiamarla, dire il suo nome con una cadenza infantile e saltando qualche lettera, facendolo diventare una parola tutta nuova che conosceva solo lei.
«Laly» chiamò una voce all’improvviso, e Hilary si sarebbe detta certa che fossero gli ultimi strascichi del bel sogno nel quale era inconsapevolmente scivolata, se non fosse stato per la luce accesa nel piccolo bagno in camera.
«Laly, vieni qua» disse la voce petulante. Hilary si guardò intorno nella stanza adesso semioscura. Le infermiere erano appena fuori la porta e sarebbe bastato un urletto a farle accorrere. Tuttavia, con un misto di adrenalina, curiosità e angoscia, la bambina decise di scendere dal letto e zampettare verso il bagno.
Gli occhi ci misero un attimo ad abituarsi alla luce più intensa, e la vista che la accolse la fulminò sul posto, shockata. Nella vasca da bagno, piena quasi fino all’orlo, stava seduta la sua amica, la ragazza dai capelli bruni di cui non aveva mai saputo il nome. Le sorrideva e le tendeva una mano, invitandola implicitamente a unirsi a lei. «Fa’ il bagno con me, Laly. Ti prego.»
Hilary deglutì una volta, cercando di trovare qualche parola. Come faceva lei a conoscere il soprannome che la sua sorellina le dava? Non gliel’aveva nemmeno accennato, ne era certissima. Tutta la situazione era alquanto paradossale, e forse sarebbe stato anche divertente in un’altra occasione.
«Laaaaly!» mugugnò la ragazza, mettendo il broncio. Hilary si riscosse dalla sua trans e fece un passo timido verso la vasca da bagno. Il volto della ragazza s’illuminò di gioia, e batté le mani soddisfatta.
Pian piano, Hilary raggiunse il bordo e prese la mano che l’era offerta, entrando nella vasca. Il pigiama si attaccò alla pelle in maniera fastidiosa, ma l’attenzione della bambina era tutta per la sua compagna, che la osservava contenta. «Grazie, Laly» sussurrò, e si protese in avanti per darle un bacio umido sulla guancia.
«Perché?» sussurrò Hilary, finalmente in grado di tradurre in parole uno dei tanti interrogativi che le affollavano la mente. Non era certissima del perché di cosa. Perché era entrata nella vasca? Perché l’altra avesse organizzato tutto ciò? Perché la stava chiamano “Laly”?
«Ma perché hai bisogno di me, sciocchina! Da quanto non entravi in una vasca da bagno?» chiese l’altra con fare saccente, ridendo e tirando fuori una spugna.
«Non capisco» ammise Hilary, con occhi imploranti. Voleva capire così tante cose e nessuno gliele aveva mai spiegate.
«Ti spiegherò tutto io, Laly. Adesso, vai con la testa sotto, così lavi anche i capelli» le disse in tono incoraggiante l’altra.
Hilary obbedì, lasciandosi avvolgere dalla carezza tiepida dell’acqua saponata. Era tanto tempo che non permetteva a se stessa di esserne coccolata e rilassata. Prima della morte della sorella, lei amava l’acqua.
Risalì in superficie dopo qualche secondo, trovandosi sola, o quasi. L’altra ragazza era andata sott’acqua come lei, e fu proprio mentre riemergeva che Hilary capì. E volle urlare, anche se qualcosa in gola glielo impedì.
Davanti ai suoi occhi, con i capelli bagnati, stava la figura della sua sorellina, più grande e più bella, ma era lei. Immersa nell’acqua, Hilary aveva potuto finalmente rivederla, così come se la ricordava quell’ultima volta, quando aveva trovato il suo cadavere: i capelli umidi, il corpo pesante, il colorito pallido. Anche i vestiti corrispondevano, la stessa salopette che indossava quel giorno, gli stessi sandali che le lasciavano vedere i piedi graffiati dai sassolini sul fondo del fiume.
«Il mio nome è Theresa, Laly» disse quieta la figura che finalmente riusciva ad associare a sua sorella. «Ho sette anni. O meglio, li avrei, se avessi avuto il tempo di compierli.»
Hilary rimase a fissarla, ancora incapace di fare un suono – che poteva rivelarsi un grido, una parola o un singhiozzo – e completamente incredula. Theresa avvicinò una mano al suo volto in una lenta carezza, e lei chiuse gli occhi, tremando un po’.
Le dita delicate ed esitanti della più piccola asciugarono una lacrima solitaria su cui Hilary aveva perso il controllo, sussurrando: «Shhh, va tutto bene, sorellona. Mi prenderò cura io di te, adesso. Non devi più aver paura.»
Hilary non sapeva quante volte avesse già sentito quella frase, ma in quel momento le diede conforto, quasi speranza. Finalmente aveva capito, e forse poteva concedersi davvero di riposarsi.
«Quella parola che mi hai detto la prima volta…la malattia» sussurrò, riaprendo gli occhi pieni di lacrime sul volto di sua sorella. «Ce l’ho io, vero?»
Theresa annuì, sorridendo e continuando ad accarezzarle la guancia. «Non è così male. È grazie a lei se ci siamo ritrovate.»
«Quindi è a causa sua che posso vederti. Ed è per questo che quando ho detto a Lena che avevo fatto amicizia…» Hilary spalancò gli occhi, in un lampo d’improvvisa comprensione. «Lei non ti vedeva accanto a me, sulla panchina. Vedeva me che parlavo da sola.»
«Già. Ti avevo promesso di aiutarti a capire, no?» rispose Theresa.
«Perché ti immagino a sette anni? Tu non avevi sette anni. Non li hai mai avuti» domandò Hilary, desiderosa di svelare fino in fondo il mistero.
«Andiamo, Laly. So che ci sei già arrivata. Non ti ricordo proprio nessuno? Mh?» la stuzzicò Theresa.
Hilary non ricordava, o forse non voleva ricordare. Ma da qualche parte nella sua mente c’era la risposta, solo che non voleva tornarci lì. Faceva troppo male.
«È stato in ospedale» si ritrovò, suo malgrado, a dire. «C-c’era questa ragazzina, nella mia stessa stanza. E-era così s-s-simile a te. Aveva gli s-stessi capelli e o-occhi e io…io…»
Hilary non si era accorta che le lacrime ormai avevano lasciato i suoi occhi e le scorrevano liberamente lungo le guancie, bagnando il dorso della mano di Theresa, per tuffarsi infine nella vasca.
«Va bene, Laly. Non piangere» mormorò Theresa, fissandola con i suoi grandi occhi vivaci, e Hilary deglutì il nodo che si era formato in gola.
«Ha fatto male?» domandò stupidamente Hilary, restando incatenata agli occhi della sorella.
«Morire? Dimmelo tu. Ci sei passata.» Theresa le fece un occhiolino, poi si alzò e uscì dalla vasca, tendendole di nuovo la mano. «Vogliamo andare?»
Hilary sembrò rifletterci per un secondo. «È vero quello che mi hai detto oggi?»
«Tutto vero. Non ti odio, Laly. Ti amo, sei mia sorella. Sono venuta a portarti con me, così non sarai mai più sola.»
La ragazza più grande sospirò sollevata, sentendo un gran peso sollevarsi dal cuore. «Sto sognando, Therry?»
«Forse.»
«Sono morta?»
«Forse.»
«Mi risponderai mai seriamente?» si accigliò per finta Hilary, facendo ridacchiare la sorellina.
«No!» ribatté, con una linguaccia, e Hilary sorrise. Per davvero, forse per la prima volta da mesi.
Afferrò la mano della sorella, uscì dalla vasca da bagno e si sentì libera. «Andiamo» disse solo.
La mattina dopo, le infermiere della casa di cura trovarono il corpo di Hilary Carver nella vasca da bagno. Morta per annegamento, avrebbe detto più avanti il medico legale.
La psicologa infantile Lana Branson era pronta a dimettere la bambina, quando il fatto accadde. Non trattò più con i bambini per tanto tempo.
Alan Carver era già morto, quando fu trovato il cadavere della figlia maggiore.
Nessuno riuscì a spiegarsi come una bambina di dieci anni potesse essere annegata in una vasca da bagno, e l’unica ipotesi possibile fu il suicidio. Solo l’addetta delle pulizie ebbe qualche dubbio in proposito, e fu licenziata quando li espose. La direttrice dell’istituto la liquidò perché “non è sempre facile trattare con bambini malati senza ammalarsi a propria volta.” Eppure quell’anziana continuò a giurare per anni di aver trovato due scie di acqua che collegavano la porta della camera alla vasca da bagno, la mattina della scoperta del cadavere.
Nessuno le credé mai.

Angolino dell'autrice :)

Buonasera, riapprodo sui lidi delle Originali grazie al contest di fa92. In questo turno c'era una lista di generi tra cui sceglierne uno e scriverci sopra una storia di qualunque tipo che lo rispettasse. La mia scelta è stata genere drammatico, spero sinceramente di averlo rispettato!
Come ho specificato all'inizio, non sono un'esperta delle malattie che ho trattato o del resto, anzi. Ho fatto delle ricerche e ho cercato di essere precisa al massimo, se qualcuno nota degli svarioni per favore me lo dica, mi farebbe un piacere immenso!
Ho deciso per il rating arancione perché non credo che la fic si possa proprio dire "per quasi tutti", penso che sia adatta a un pubblico un po' più maturo, ma se mi sbaglio e pensate che sarebbe meglio il giallo, fatemelo sapere. La stessa cosa vale per l'avvertimento "Tematiche delicate".
Ho lasciato il finale aperto perché ognuno possa pensarlo come vuole. Hilary si è trascinata fino alla porta e poi di nuovo nella vasca? Theresa era un fantasma? Non so, come preferite vederlo.
Questo turno mi ha creato molti problemi, questa storia è il risultato di tre tentativi, ciascuno orientato in una direzione diversa! Spero che la scrittura non ne abbia risentito troppo ç__ç
Mando un bacio a tutti, se vi va recensite, mi farebbe piacere!

 
  
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