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Autore: arya_stranger    30/09/2013    8 recensioni
“Parliamoci chiaro, ero un barbone, quello ero, niente di più e niente di meno, ma Gerard non se ne era preoccupato tanto, non si era fermato a quello che sembravo, ma si era soffermato su quello che ero veramente. […] Eravamo così simili eppure irrimediabilmente diversi.”
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella mattina non avevo raccapezzato uno spicciolo che fosse uno. Un gruppetto di ragazzi si era fermato a sentirmi strimpellare, ma dopo avermi fatto i complimenti se ne erano andati senza nemmeno lasciarmi una piccola monetina che mi stimolasse a continuare a suonare.
La gente semplicemente non mi capiva, ed io non capivo la gente, e questo poteva essere un problema se la tua unica fonte di sostentamento era l’elemosina, e infatti, era un problema.
Perché gli altri quando mi vedevano lì, seduto con la mia chitarra in grembo, provavano compassione per me, mi rivolgeva qualche sguardo e poi se ne andavano, come se non fosse successo nulla, come se io non fossi mai esistito. Ma io esistevo eccome! In quel fottutissimo sottopassaggio di quella schifosa stazione io ci vivevo, non che la cosa mi piacesse, ovviamente. La mia unica compagna era la mia carissima chitarra, io non so come avrei fatto senza di lei, probabilmente mi sarei buttato giù dal primo ponte sufficientemente alto che avessi trovato. Davvero, posso sembrare esagerato, ma la verità era questa. Quando passavo le dita fra le fredde corde di quello strumento io mi sentivo qualcuno, mi sentivo vivo, non quello schifo che mi faceva sentire la gente. Non aveva ancora capito perché funzionasse sempre, forse era una specie di magia, ma dovevo ancora capire se credere o no nella magia. A dire la verità mi piacerebbe crederci, chi non vorrebbe che esistesse? Se avevi la magia, avevi tutto: sempre qualcosa sotto i denti, un tetto sopra la testa, un fuoco sempre acceso a riscaldarti, magari anche qualcuno da amare. Perché in fondo erano quelle lo cose che contavano, almeno per me, ma credo per tutti.
E così passavo le giornate. Se avevo la fortuna di ricevere qualcosa con cui comprarmi da magiare, allora ero al settimo cielo, altrimenti, a sera tardi, frugavo nei cassonetti o andavo a rubare gli spiccioli dal cappello di qualche vecchio rimbambito che, invece di fare la guardia al suo patrimonio, dormicchiava con la bava alla bocca. Non mi piaceva rubare, soprattutto a chi era nelle mie stesse condizioni, ma quando hai fame, non ci puoi fare niente e ti abbassi anche a questo livello. Comunque, più o meno tutte le sere, riuscivo a mettere qualcosa nella pancia.
Però non è che mi facesse completamente schifo vivere là sotto come un topo, c’erano anche delle cose interessanti in quella vita. Per esempio, stando tutto il giorno a vedere la gente che passa nella speranza che qualcuno capisca che sei bravo con la chitarra e ti lasci qualcosa, avevo l’occasione di vedere molti tipi strani e interessanti, e la cosa mi divertiva. Molto spesso passava una ragazza, presumo una studentessa, dato che la vedevo i giorni di scuola. Mi era rimasta subito simpatica e quando mi scorgeva in lontananza, mi sorrideva sempre. Era piuttosto alta, più o meno doveva avere quindici o sedici anni. Indossava quasi sempre i jeans e magliette di band che avevo avuto l’occasione di conoscere quando ancora vivevo con i miei genitori, era forte anche per quello. Ai piedi portava gli anfibi o le scarpe da ginnastica, e alle orecchie aveva sempre le cuffie, che però toglieva quando mi passava davanti per potermi ascoltare. Portava i capelli scuri lisci fino alle spalle e aveva due occhi fantastici, blu. Mi piacevano i suoi occhi, erano davvero belli, non ne avevo mai visti di così particolari, e comunque dire ‘blu’ era estremamente riduttivo.
Quello era uno degli aspetti che amavo di vivere in quel sottopassaggio. Forse non ce ne erano altri, ma quello me lo dovevo far bastare.
La mia vite era quella, fino ad allora.


La cosa più odiosa è quando cerchi di suonare qualcosa che però non ti riesce. Ero davvero tanto orgoglioso e se qualcosa con la chitarra, che fosse un assolo, o che so io, non mi veniva bene, andavo su tutte le furie. Ma cavolo, perché non mi dovevano riuscire?! Non potevo semplicemente suonarle bene e basta?! No, ovviamente sarebbe stato troppo semplice, come se la mia vita non fosse già piuttosto complicata.
Alzai gli occhi verso il grande orologio. Le lancette indicavano le quindici e cinquanta. Poi abbassai gli occhi verso la custodia dello strumento, dove tecnicamente le persone avrebbero dovuto lascarmi qualcosa per poter mangiare. Nulla. Bene, non sarebbe potuto andare meglio.
Riprovai un altro trilione di volte quel pezzo, che continuava a non riuscirmi. Rialzai gli occhi verso l’orologio, ma qualcosa mi copriva la visuale, o meglio, qualcuno.
“Ciao”, mi fece lo sconosciuto. E adesso che cazzo voleva questo?
“Ciao”, risposi io. “Che vuoi?” Veramente non volevo essere così scortese, anche perché lo sconosciuto sarebbe potuto essere la fonte per la mia cena, e solo uno stupido avrebbe mandato via chi ti avrebbe salvato dalla fame, ma quel giorno ero nervoso.
“Suoni?” mi domandò indicando la mia amata chitarra.
“Ehm, sì.” Forse non era abbastanza ovvio.
Lo sconosciuto si frugò nelle tasche per qualche secondo, tirò fuori dai jeans una banconota tutta stropicciata da cinque e la lasciò cadere dentro la mia custodia. “Mi fai sentire qualcosa?”
Io rimasi per un momento imbambolato, poi borbottai qualcosa d’incomprensibile e comincia a suonare un pezzo che avevo composto io durante la notte. Non era un granché, e mentre lo scrivevo, mi era sembrato migliore, ma tutto sommato non era male. Non avevo ancora le parole e non sapevo se ce ne sarebbero state, ma eseguii comunque il pezzo.
Ci misi tutto il mio impegno per eseguirlo alla perfezione, mi dispiacque pure quando finì.
Alzai lo sguardo verso lo sconosciuto per vedere la sua reazione, sembrava stupito.
“Quelli col tuo talento non dovrebbero stare a suonare nei sottopassaggi delle stazioni” commentò.
“Forse” sussurrai, ma lui parve sentirmi.
Si voltò per guardare l’orologio gigante come avevo fatto poco prima anch’io. Erano le quattro precise.
“Domani tornerò, alla stessa ora” annunciò. “E voglio sentire un’altra canzone, mi raccomando.” Mi sorrise e poi riprese la strada.
Non avevo la minima idea di come sentirmi. Era la prima persona che mi prendeva seriamente in considerazione. Insomma, anche la ragazzina era sempre pronta a sorridermi e a sentirmi suonare qualcosa, ma era diverso, lo sentivo che non era la stessa cosa. E non intendo solo per il fatto che mi aveva dato anche dei soldi, quello non c’entrava nulla, era stato il suo atteggiamento in generale che mi aveva colpito. Lui era come me, era diverso. Non so in cosa e perché, ma volevo scoprirlo.
Dopo essermi comprato qualcosa da mangiare con i soldi che mi aveva dato lo sconosciuto, rimasi quasi tutta la notte sveglio a scrivere un nuovo pezzo. Visto che mi era avanzato qualcosa dal panino che aveva acquistato, mi comprai un quaderno e una penna, non potevo continuare a fare tutto a mente, alla fine mi sarei scordato qualcosa che poteva essere buono. Finii che erano le quattro di mattina. Avevo dodici ore esatte per riposarmi un po’ e per ripassare la canzone che avrei dovuto far sentire allo sconosciuto.
Dormicchiai un po’, e subito dopo essermi svegliato, ripassai talmente tante volte quella cazzo di canzone che non avevo nemmeno bisogno di pensare, l’avrei potuta suonare mentre dormivo senza accorgermene.
C’erano anche le parole, non sapevo se il testo fosse bello, ma ci avevo messo tutto me stesso, tutta la mia rabbia, la mia tristezza, la frustrazione e anche un po’ di gioia, quella gioia che mi aveva dato lo sconosciuto capendomi. Sì, perché lui mi aveva capito. Non solo mi aveva preso in considerazione, ma mi aveva capito. Perché come avevo già realizzato, lui era come me, e le persone simili si comprendono, è ovvio, non ci vuole un genio per capirlo.
Le quattro arrivarono anche troppo in fretta per i miei gusti. Non capivo perché fossi nervoso, non mi doveva giudicare in alcun modo e anche se lo avesse fatto, non mi sarebbe dovuto importare del suo giudizio, insomma, chi era lui per criticare quello che facevo? Nemmeno sapevo il suo nome! Fatto sta che ero agitato.
Continuai a fissare le lancette dell’orologio gigante. Gli ultimi dieci minuti sembrarono non passare mai, eppure durarono pochissimo. Lo so che e un discorso senza senso, ma quando vuoi che una cosa accada in tutti i modi e il più presto possibile, ma allo stesso tempo hai paura di quello che succederà, il tempo comincia a scorrere in modo assurdo, quasi come non ci fosse, come se esistessi solo tu.
Finalmente, o sfortunatamente, le quattro precise arrivarono e con loro anche lo sconosciuto.
Arrivò alla mia sinistra con un passo deciso e fiero, quello che io non aveva mai avuto, si sedette vicino a me, sul pezzo di cartone che faceva da letto/sedia/tavolo/tutto quello che mi serviva, e mi guardò. Io ricambia lo sguardo. Wow, aveva degli occhi che non sembravano provenire da questo mondo. Erano di un colore indefinito fra il verde e il castano. Se inclinava la testa leggermente di lato e la luce rifletteva direttamente sulle iridi, erano di un verde smeraldo che rischiava di accecare, se invece abbassava un po’ la testa, e l’ombra gli ricadeva addosso, allora erano due pozze marrone-verde scuro. Notai poi che c’era una terza sfumatura. Se mi guardava dritto negli occhi, la pupilla s’illuminava ed era contornata da un verde acqua, però non chiaro come tutti penserebbero, un verde acqua scuro, sporco. Non capivo come quegli occhi potessero avere così tante sfumature e avevo la certezza che se avessi avuto la possibilità di stare a fissarlo in eterno avrei potuto scrivere un poema sui mille colori che potevano esserci nelle sue iridi, era incredibile.
“Ehi” mi risvegliò, “che mi suoni oggi?” Certo, giusto. Dovevo suonargli una canzone.
Mi sistemai meglio per imbracciare la chitarra, nel movimento notai che sulla mia custodia c’era un pezzo da cinque dollari. Grazie, sconosciuto.
Chiusi un attimo gli occhi e poi cominciai a suonare l’introduzione. Lasciai che la musica mi coinvolgesse completamente, come se mi dovesse entrare in circolo nel sangue. Ripetei una seconda volta il primo pezzo, tanto per essere sicuro che si fosse capito e poi cominciai anche a cantare. Non era una cosa che facevo spesso, cantare, anzi non lo facevo mai, mi mettevo troppo in mostra cantando, anche se probabilmente avrei fatto qualche soldo in più. Ma forse non era nel mio DNA, mi piaceva, anzi, amavo suonare la chitarra, ma preferivo così e basta.
Cercai per tutto il brano di non guardare lo sconosciuto, perché sapevo che se per caso avessi incrociato il suo sguardo mi sarei incantato cercando di capire il colore dei suoi occhi, e di sicuro mi sarei distratto sbagliano qualche accordo, e non volevo che accadesse. Se allo sconosciuto non piaceva la canzone, non sarebbe mai più tornato, ed io non volevo che accadesse, mi stava simpatico.
“Wow” mormorò alla fine.
Io non dissi niente, anche perché non sapevo cosa dire. Mi sembrava di averla fatta piuttosto bene, ma il giudizio finale andava a lui.
“Io…” cominciò, “è bellissima.”
Lo guardai stranito. “Davvero?” Ero seriamente stupito, non pensavo gli sarebbe piaciuta così tanto, avevo capito quanto io mi sottovalutassi, ma forse era lui che esagerava. Cercai di capire se voleva solo farmi un piacere dicendomi che ero bravo o diceva sul serio. Mh, tutto sommato lo pensava davvero. Non sarei potuto essere più felice.
“Non capisco” mi disse, “sei bravissimo, hai del talento!”
“Grazie” feci.
“Non devi ringraziarmi, io non ho fatto nulla.”
Be’, in realtà mi aveva dato cinque dollari, dieci se contavamo anche quelli del giorno prima, ma entrambi sapevamo che non lo stavo ringraziando per quello.
“Comunque” dissi, “come ti chiami?”
Mi porse una mano che io strinsi. “Sono Gerard.”
“Io mi chiamo Frank” mi presentai. “Non ti ho mai visto da queste parti.”
“Mi sono trasferito da poco” mi spiegò. “Ho appena cominciato a lavorare, ma sono dovuto venire qua.”
“Capisco” commentai. “Be’, quello che faccio io mi sembra piuttosto evidente.”
Mi sorrise. “In effetti.” Ricambiai calorosamente il sorriso.
“E che lavoro fai?” chiesi curioso a Gerard.
“Faccio il fumettista.”
“Che figo!” esclamai entusiasta. Lui rise.
“Eh sì, è piuttosto figo!”
“No, davvero, di solito non ti aspetti che qualcuno ti risponda che fa il fumettista.”
“Sì” annuì, “ma non è detto che non ce ne siano.”
Rimasi un attimo in silenzio. Fumettista, era una cosa fortissima, non ne avevo mai conosciuto uno. Ora capivo anche perché era simile a me. Alla fine dei conti eravamo entrambi degli artisti, lui disegnava e inventava delle storie ed io suonavo la chitarra. Eravamo entrami nel campo della creatività. Entrambi avevamo il compito di trasmettere delle emozioni alla gente, lui attraverso i colori ed io attraverso delle note, ma alla fine era la stessa cosa. E’ bello sapere che nel mondo ci sono delle persone che ancora credono in quello che fanno, anche se lo praticano nel sottopassaggio merdoso di una stazione altrettanto merdosa, come me.
Mi voltai verso Gerard, aveva tutti i capelli neri sul viso. Comunque fissava quell’odiato orologio gigante che mi aveva fatto passare le pene dell’inferno, sempre se l’inferno non era peggio, e soprattutto se esisteva, in ogni caso l’avrei scoperto, perché io di certo non sarei andato in paradiso, ve lo posso assicurare.
“Devi andare?” gli domandai dispiaciuto.
“Mi dispiace, sì” disse mentre si alzava. “Ma domani tornerò, alla stessa ora, promesso.” Indicò il famoso orologio e dopo avermi salutato con la mano, scappò.
Non volevo che se ne andasse, ero sempre solo e quel ragazzo mi faceva sentire importante, anche se sapevo che non lo ero. C’è tanta gente solitaria, che preferisce stare chiusa in una stanza con la musica talmente alta da sfondarsi i timpani per non sentire quello che accadeva fuori, per non affrontare le difficoltà e la realtà, ma io ero solo, e c’è differenza fra l’essere solo e l’essere solitario. La solitudine è una scelta, l’essere solo è una costrizione.
Ero stato per molti anni un solitario. Quando vivevo con i miei non volevo mai parlare con la gente, facevo il mio, senza rendere conto a nessuno e non avevo nemmeno un amico, non ne avevo mai avuti. Ma forse era stata una mia scelta quella di non avere nessuna relazione, avevo voluto davvero bene a una sola persona e avevo fottutamente sbagliato. Dopo, avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai più affezionato a nessun altro, ma le promesse fatte a noi stessi sono destinate ad essere infrante. Ci possiamo illudere quanto vogliamo, ma alla fine le nostre paure, le nostre angosce, tutto quello che proviamo davvero, viene a galla, e poi, quando comincia a galleggiare, è difficile farlo tornare a fondo. È una legge fisica, no? Non avrei mai pensato però, che accadesse tutto in quella maniera, in quella situazione patetica i cui mi trovavo. Parliamoci chiaro, ero un barbone, quello ero, niente di più e niente di meno, ma Gerard non se ne era preoccupato tanto, non si era fermato a quello che sembravo, ma si era soffermato su quello che ero veramente. Non lo fanno in molti, i pregiudizi esistono perché c’è chi ne fa, è ovvio, ma per fortuna non tutti siamo uguali e alla fine le vere persone, che meritano di essere stimate, ci sono. C’è chi le incontra e chi no, e chi ancora ne fa conoscenza ma non se ne rende conto. Ecco, queste ultime persone sono le più stupide e ottuse in assoluto. Cazzo, apri gli occhi e renditi conto di quello che ti sta succedendo intorno, è inutile che continui a guardarti se hai le scarpe slacciate se poi non ti rendi conto di chi ti sta accanto!
Una delle poche cose che amavo del mio carattere era che osservavo, ma non come fanno tutti, che guardano distrattamente chi gli sta accanto in autobus, o chi c’è prima di lui in fila alla cassa. Io osservavo veramente. Cercavo di capire cosa accadeva, morivo dalla voglia di scoprire come funzionasse il mondo, come pensava la gente. Era una mia piccola ossessione sapere quello che pensavano gli altri. Ho sempre voluto avere una specie di potere con cui leggere nella mente, e ci pensavo spesso, ma arrivavo sempre alla stessa conclusione. Forse non era davvero bello sapere quello che pensa la gente. Sapresti cose che non vorresti, e se anche le tue scoperte fossero belle, non ci si può togliere la bellezza di guardare qualcuno negli occhi cercando di capire quello che prova.
Questo era tutto, era così, non c’era nient’altro.


Il resto del giorno lo passai per lo più spostando la chitarra da una gamba all’altra, pizzicando una corda di tanto in tanto e fissando quel cazzo di orologio che mi ricordava così tanto Gerard.
E’ la cosa più stupida del mondo associare una persona ad una cosa e viceversa, perché tutte le volte che vedi quel determinato oggetto, ma che può anche essere un luogo o che so io, ti viene in mente la persona e di conseguenza stai male perché non la puoi vedere. Sì, perché stavo male se non lo vedevo. Può sembrare una cosa idiota, ma davvero quel ragazzo mi rendeva completo, non mi faceva sentire uno schifo, mi faceva sentire suo amico, e cosa più importante non aveva compassione di me, perché se c’era una cosa che odiavo, era la compassione. Quegli sguardi pieni di pietà, come a dire: ‘oh povero piccolo ragazzo senza nessuno’, no! Io non ho mai voluto la compassione di nessuno, tanto meno quella di sconosciuti che mi passavano davanti e facevano caso a me per meno di un secondo. Ma Gerard non mi guardava con compassione, lui mi guardava con comprensione, ed era una cosa che amavo.


Alla fine il gigante e odiato orologio mi avvisò che erano le quattro precise.
Lo vidi arrivare che era ancora distantissimo, il cuore cominciò a battere fortissimo e mi resi conto che non avevo composto nulla di nuovo da fargli sentire. Oh merda. Ma come ero idiota?
Arrivò a passo svelto, quasi correndo, di slancio si sedette accanto a me.
“Come va?” domandò mentre metteva i suoi cinque dollari nella mia custodia.
“Senti, non devi per forza darmi tutte le volte cinque dollari, insomma, sono tanti, ed è già il terzo giorno.”
Mi sorrise. “Non lo dire mai più, chiaro?”
Sospirai e annuii ubbidiente, ma mi sentivo comunque in colpa.
“Che mi fai sentire oggi?” chiese entusiasta.
Mi venne un lampo di genio per rimediare alla mia dimenticanza. “Che ne dici se facciamo la canzone di ieri, però cani tu?”
Mi guardò per un attimo come per capire se stessi dicendo sul serio oppure se stessi scherzando. “Davvero?”
“Uh, uhm” feci. Presi il quaderno su cui mi ero appuntato le parole e glielo porsi. Lui lo prese senza dire nulla.
“Pronto?” Lui annuì in risposta. “Bene.”
Cominciai con l’introduzione che avevo suonato anche il giorno prima e feci cenno a Gerard di cominciare quando voleva. Prese un respiro profondo e cominciò a cantare come se nella vita non avesse mai fatto altro. Sembrava che l’avesse scritto lui il testo della canzone da quanto s’immedesimava e si calava nelle parole. Non capivo, forse anche lui si ritrovava nel testo della canzone, eravamo così simili eppure irrimediabilmente diversi.
La sua morbida voce intonava tutte le note senza mai sbagliarne una, cantava il brano esattamente come lo avevo immaginato io mentre lo scrivevo e questo mi lasciò davvero senza fiato.
Continuai a suonare concentrandomi sulla sua voce, e poi incontrai i suoi occhi. Mi ero promesso di non guardarlo in faccia per non distrarmi, ma fu un momento, e comincia a pensare ai mille colori che c’erano in quegli occhi. Eppure continuai a suonare senza sbagliare, e anche quando si accorse che lo stavo guardando lui mi sorrise continuando a cantare. Era difficile trovare subito una sintonia così immediata, ma noi ci eravamo riusciti, non avevamo avuto bisogno di prove o roba del genere, era tutto improvvisato, eppure così perfetto.
Solo quando finimmo, ci accorgemmo che si era radunata una piccola folla che in quel momento stava applaudendo. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Qualcuno di quelli che erano lì, lasciò dentro la mia custodia qualche moneta.
“Stasera cena assicurata!” esclamai sorridendo.
Gerard mi sorrise a sua volta e mi diede una pacca sulla spalla. “Siamo forti!”
Tu sei forte!” replicai ridendo.
Continuammo a ridacchiare finché Gerard non si fermò. “Ti posso fare una domanda?”
“Qualsiasi cosa” lo rassicurai.
“Perché sei finito qui? Insomma, io ho solo ventiquattro anni, tu ne avrai soli pochi meno di me.”
Abbassai lo sguardo. Non volevo fargli capire che mi faceva male affrontare quell’argomento, anche se era la verità, e non volevo neanche che si sentisse in colpa per avermi posto la domanda.
“E’ una storia un po’ lunga, non so, se tu devi andare…”
Gerard volse lo sguardo all’orologio gigante e annuì. “Facciamo così, domani è venerdì” cominciò, “arriverò qua alla stessa ora. Osserva l’orologio, arriverò alle quattro del pomeriggio in punto. Ci andiamo a fare un giro e poi ti offro la cena. Ci stai?”
Ci sarei anche stato, ma ciò significava che avrebbe sborsato fuori altri soldi per me, e la cosa mi faceva sentire di nuovo in colpa. Comunque accettai. “Va bene, alle quattro in punto.”
“Fatti trovare pronto, e guarda l’orologio!” Mi salutò correndo via e con lui se ne andò anche quel senso di protezione e sicurezza che mi dava la sua presenza.


Come sempre mi annoiai, perché non sapevo cosa fare. La vita di un barbone era davvero noiosa, non c’erano delle attività particolarmente interessanti che potessimo fare, ve be’, io avevo la mia chitarra, ma per il resto era sempre tutto uguale.
Mi misi a contare quello che avevo ‘guadagnato’ quel giorno. Avevo visto alcuni di quelli che si erano fermati a vedere me e Gerard lasciarmi qualcosa, quindi… Contai finché non arrivai alla somma di trenta dollari, inclusi quella che mi aveva dato Gerard. Non avevo mai guadagnato così tanto in tutto il tempo che ero stato là sotto.
Raccolsi tutta la mia roba e dopo essermi messo la custodia della chitarra a tracolla, mi andai a comprare qualcosa da mangiare. In un bar vicino mi presi un sandwich e poi decisi che avrei usato un po’ dei soldi che mi erano avanzati per comprare qualcosa a Gerard. Era stato davvero carino con me in quei pochi giorni, e doveva capire quanto apprezzassi quello che faceva per me, non intendo i soldi, se mi bastavano per magiare, non me ne importava, intendo invece quello che aveva fatto veramente per me, mi aveva cambiato in un certo senso.
Girovagai per i dintorni alla ricerca di una bancarella che vendesse oggetti originali o un negozio con qualcosa di economico ma carino. Cercai in lungo e in largo, avevo bisogno di qualcosa di unico, non le solite cianfrusaglie, ma un regalo speciale, solo per lui.
Trovai un portachiavi a forma di chitarra, ma non mi sembrò sufficientemente originale, poi ad un banchino poco lontano scrivevano i nomi su penne e matite, all’inizio mi sembrò una trovata simpatica, anche perché lui era un artista, ma capii che anche quella era una cosa che potevano avere tutti.
Stavo quasi per rinunciare quando vidi un uomo piuttosto vecchio, sulla settantina, seduto per terra, di fronte e a lui c’era un pezzo di cartone su cui erano distesi dei piccoli e strani oggetti. Appena mi avvicinai non capii cosa fossero, ma poi mi sembrò di averne visti da altre parti, erano degli scaccia sogni, però non ne avevo mai visti di così particolari. Erano grandi quanto il palmo di una mano, ed erano formati da un cerchio metallico fine a cui venivano avvolti tanti filini colorati a creare una specie di ragnatela dentro il cerchio. Poi, in cima al cerchio, c’era un filo per appendere l’oggetto ovunque e dalla parte opposta pendevano delle piume e dei campanellini. Erano davvero belli, e avevo la certezza che a Gerard sarebbe piaciuto uno di quelli.
“Mi scusi” richiamai l’attenzione del vecchio, “quanto viene uno di questi?”
Sperai con tutto me stesso di avere abbastanza soldi, non mi sarei mai potuto perdonare se non fossi riuscito a comprargli il regalo che volevo lui avesse.
Il vecchio alzò leggermente la testa e mi guardò. “Dipende.”
Lo guardai confuso. “Da cosa?” feci incerto.
“Dal motivo per cui vuoi comprare uno scaccia sogni.”
“Quindi lei me ne venderà uno, solo dopo che io le avrò raccontato il motivo per cui lo voglio comprare?”
“Esatto ragazzo” disse, “non mi sembra così complicato.”
“Mh, bene” borbottai. “E’ un regalo per una persona che mi sta aiutando molto in questo momento. Adesso mi dice quanto costa?”
“Hai troppa furia, e a me non piace la gente che ha furia. Dimmi, chi è questa ‘persona’?”
“E’ un mio amico” dissi svelto, mi stava dando sui nervi quella cosa.
“Descrivimelo” mi ordinò.
“Si chiama Gerard, ha un’altezza media, ha i capelli poco sopra le spalle, lisci e neri, sempre spettinati. Ha la carnagione piuttosto pallida e i lineamenti regolari. Di solito porta una giacca nera e i jeans e ai piedi le scarpe da ginnastica, bianche, tutte sporche. Gli occhi potrebbero sembrare verdi, ma hanno mille colori che sono sicuro nemmeno lui ha mai classificato. Comunque ha una voce bellissima e canta meravigliosamente.”
Dissi tutto d’un fiato, senza mai fermarmi per respirare. Poi mi resi conto che avevo dato tantissimi dettagli inutili all’uomo.
Il vecchio mi sorrise. “Da quanto lo conosci?”
“Tre giorni, più o meno.”
“Bene” disse soddisfatto. Si chinò un attimo sugli scaccia sogni e me ne porse uno blu e bianco, forse il più bello e misterioso fra tutti.
“Digli di attaccarlo in camera da letto. Gli incubi sono intrappolati nella rete formata dai fili, che lasciano passare solo i sogni belli” mi spiegò.
“Aspetta” lo bloccai, “quanto costa?”
“Per te nulla.” Lo guardai stupito, che voleva dire nulla?
“Come?” chiesi. “Non capisco.”
Il vecchio mi sorrise di nuovo. “Ti avevo detto che il prezzo era in base al motivo per cui volevi quest’oggetto. Be’, per il motivo che hai tu, non devi pagare nulla. Conosci quel ragazzo da così poco eppure sai così tante cose su di lui. Non ti sembra un po’ strano?” No, non mi sembrava per nulla strano, ma preferirei non contraddirlo e lo lasciai continuare. “Ho capito che è davvero importante per te, e so anche che non hai molti soldi, e che fai questo regalo al tuo amico col cuore, quindi prendi lo scaccia sogni e va per la tua strada.”
Lo ringrazia con un sorriso e con un cenno della mano e poi me ne ritornai al mio fedele angolino che ormai da più di un anno era la mia casa. Mi ‘riaccampai’ e mi preparai per passare la notte, nella speranza di riuscire a dormire almeno qualche ora.
In effetti, mi addormentai e dormii anche più del previsto, poco male, sarei stato più sveglio durante il giorno, forse.


Rimasi tutta la mattina a rigirarmi fra le mani quello scaccia sogni, pensando se funzionasse davvero oppure no. Insomma se realmente intrappolava i sogni brutti, era una cosa fortissima, ma anche se fosse stata tutta una cazzata, era comunque un oggetto bellissimo.
Continuavo a guardare la gente che passava, correva, parlava, mangiava, c’era anche chi mentre andava a prendere il treno canticchiava canzoncine, e quello mi faceva sorridere. Era divertente vedere le persone così felici, perché in quel momento lo ero anch’io, sì, non vedevo l’ora che quel cazzo di orologio gigante segnasse le quattro in punto. L’attesa era snervante, ma mi sentivo anche allegro e mi venne quasi da ridere pensando che non ero così sereno da tanto, troppo tempo.
Stavo cominciando a pensare che Gerard fosse una specie di angelo che qualcuno di buono aveva mandato per dare un senso alla mia giornata. Sì, fosse tutto sommato era davvero un angelo, non quelli biondi, bellissimi con le ali che si vedeva nei dipinti, lui era diverso da loro. Non che non fosse bello, intendiamoci, ma non era biondo e nemmeno aveva quell’aria di so-tutto-io che quei mezzi uccelli spesso avevano, ma la sua funzione era la stessa loro, quella di aiutare le persone in difficoltà, far capire a chi non aveva più niente in cui credere, che c’è sempre qualcosa per cui vale la pensa vivere, basta cercare.
Quando mancavano dieci minuti all’appuntamento, misi tutte le mie cose, cioè la mia chitarra e il regalo per Gerard, dentro la custodia e dopo essermela messa a tracolla, aspettai in piedi il tempo restante. Anche in quell’occasione il tempo cominciò a scorrere in maniera assurda, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine.
Lo vidi arrivare come sempre da sinistra, stava guardando l’orologio gigante.
“Ehi Frank!” mi gridò.
“Ciao!” gli risposi. “Come va?”
“Benissimo” disse allegro. “Pronto?” Annuii con forza.
“Senti” cominciai, “dove vorresti andare? Perché non posso venire in molti posti conciato così.”
Indicai i miei vestiti mazzi strappati e assunsi una faccia dispiaciuta. Lui si scostò i capelli dalla fronte, pensieroso. “Mh…” mormorò. “Okay, togliti la giacca.”
Ubbidii e gliela porsi. Lui la prese e la buttò in un cestino lì vicino. Io rimasi a bocca aperta, e ora come facevo senza la mia giacca? Poi lui si tolse la sua nera e me la porse, rimanendo solo con una t-shirt bianco sporco. “Tieni la mia, te la regalo. Ne hai più bisogno tu.” Mi sorrise.
Adesso mi sentivo di nuovo in colpa. Oltre a darmi sempre un po’ soldi adesso mi regalava anche la sua giacca, che era bellissima oltretutto, e di sicuro c’era molto affezionato.
“Ma non devi…” M’interruppe.
“No, ne possiedo altre a casa, non è assolutamente un problema per me.”
“Sicuro?” chiesi dubbioso.
“Più che sicuro!” affermò. “Per il resto sei perfetto, i jeans sono fantastici anche strappati, e le scarpe non sono messe tanto male. Semmai domani te ne porto un paio delle mie che non mi stanno più.”
Gli sorrisi riconoscente per tutto quello che stava facendo per me. Non avrei mai saputo come ringraziarlo.
“Allora possiamo andare!” esclamò.
Non feci domande sulla nostra destinazione, ma camminammo per un bel pezzo di strada e dopo un po’ le gambe cominciarono a farmi male.
Dopo poco più di un’ora arrivammo davanti all’insegna di uno zoo.
“Eccoci arrivati!” fece tutto contento come fosse un bambino di cinque anni.
Non ero mai stato allo zoo, davvero. Da piccolo nessuno mi ci aveva mai portato, ma io avevo sempre amato gli animali. Tutti gli anni nella lettera a Babbo Natele chiedevo un cagnolino, e puntualmente il regalo che ricevevo erano un paio di calzini. Quella storia era finita più o meno quando avevo otto o nove anni e capii che era impossibile che un vecchio con la barba portasse i doni ai bambini su una slitta. E poi perché agli altri portava quello che volevano e a me mai?
“E’ fantastico!” dissi. “Non sono mai stato allo zoo!”
Gerard rise divertito. “Ma dai! Davvero non ci sei mai stato?” Scossi la testa, era la verità.
“Allora meglio!” Gerard ed io entrammo passando sotto la grande insegna. Alla biglietteria ovviamente pagò lui, e io altrettanto ovviamente mi sentii in colpa, ma non potevo farci nulla.
“Vuoi cominciare dagli orsi o dai leoni?” mi chiese.
Mh, leoni o orsi…? “Cominciamo da dove vuoi tu” feci con convinzione.
“Ve bene, allora i leoni.”
Ci dirigemmo verso le gabbie dei leoni e davvero non pensavo fossero così grandi. Ce n’erano cinque, due maschi e tre femmine, e tutti avevano un manto bellissimo.
I leoni avevano anche quella fantastica criniera che ricordava la corona di un re.
Dopo i leoni fu la volta degli orsi. Erano buffi e goffi, per spostarsi da una parte all’altra del recinto, che ospitava anche un laghetto, ci impiegavano del tempo, ed era divertente vederli dormire.
Gerard ogni tanto si metteva a leggere ad alta voce le targhette che c’erano a fianco di ogni recinto, che indicavano i nomi degli animali, la razza, la provenienza e altre cose, volendo piuttosto inutili. Ma era troppo bello sentire la sua voce, stava come diventando una droga per me. Mi incantavo tutte le volte che sentivo uscire qualcosa dalla sua bocca, ed era ancora peggio quando incrociavo i suoi occhi e lui mi sorrideva. Non capivo più niente e rimanevo imbambolato per qualche secondo.
“Sono bellissimi” fece lui a un certo punto. Eravamo davanti al recinto dei lupi, e quelli ci guardavano con sospetto.
“Sì, sono così misteriosi. Mi ricordano un po’ te” dissi ridendo.
Lui mi sorrise. “Perché? Sono misterioso?”
“Un po’…” dissi incerto. “Più che misterioso sei diverso.”
Mi guardò curioso cercando di capire cosa volessi dire. “Spiegami meglio.”
“Insomma, penso che tu sia la prima persona che si ferma a parlare con un barbone e lo prende seriamente in considerazione…”
“Non lo dire mai più!” mi interruppe.
“Cosa?” feci io confuso. Sembrava davvero arrabbiato.
“Non dire più che sei un barbone! Non ha senso quella parola!” esclamò. “Non ci sono barboni e non barboni, persone povere e ricche, ci sono solo le persone per cui vale la pena vivere e le persone per cui non ne vale la pena.”
“Non capisco.”
Gerard si girò per guardarmi meglio negli occhi. “Non puoi pensare che le persone siano divise in base a quello che sembrano, non puoi, perché semplicemente sarebbe una suddivisione inutile, non rispecchierebbe la realtà.” Okay, e fino a qui ero d’accordo. “Le persone andrebbero suddivise in base a quello che hanno dentro. Tenendo sempre in considerazione il fatto che ci sono delle persone che dentro di se hanno più di una personalità.” Prese un respiro profondo e vedendo che ero ancora confuso continuò. “Comunque, secondo me, è brutto a prescindere catalogare le persone, ma è quasi una cosa involontaria, e visto che tutti lo facciamo, almeno facciamolo per bene. Io prima di giudicare una persona la voglio conoscere. Quando ti ho visto, non ho pensato: ‘quello è un barbone, quindi è un buono-a-nulla’. No, assolutamente, semmai ho pensato che se eri in quella situazione avevi una storia interessante da raccontare.”
Be’, non che fosse proprio interessante, ma una storia ce l’avevo anche io. Cioè, ce l’hanno tutti, chi lunga o breve, chi bella o brutta, ma c’è.
“Sì, hai ragione” affermai. “Grazie.”
Non specificai il perché di quel grazie, ma sapevo che lui avrebbe capito, infatti mi sorrise.
Andammo poi a vedere gli animali che stavano nell’acquario,  prendemmo un gelato e ci sedemmo su una panchina. Lo zoo era vicino all’orario di chiusura, quindi c’era poca gente.
Mi misi a pensare e poi mi venne in mente una cosa. “Hai detto che secondo te ho una storia interessante da raccontare.” Gerard annuì. “La vorresti sentire?” gli chiesi.
“Mi piacerebbe moltissimo.”
Entrambi ci voltammo per poterci guardare in faccia e poi io comincia a raccontare.
“Non sono nato in questa città, ma non molto lontano da qui. Vivevo con i miei, stavamo bene, non ci lamentavamo. Fin dall’asilo non ero mai stato un bambino molto loquace. Non avevo amici, e giocavo sempre da solo, la maggior parte delle volte stavo seduto e mi concentravo su qualche dettaglio inutile, come il legno colorato delle panchine, o cose così. Anche a scuola stavo sempre da solo, al liceo ancora peggio. Mi prendevano in giro tutti, certe volte mi hanno anche picchiato, oppure mi chiudevano dentro gli armadietti, anche perché c’entravo. Ho sempre odiato andare a scuola, mi sentivo al sicuro solo durante le lezioni, nessuno mi poteva picchiare e dare fastidio quando c’erano gli insegnanti, al massimo potevano fare dei commenti idioti, ma ho subito imparato a ignorarli. Quando invece non c’era lezione o durante la pausa pranzo mi nascondevo nei bagni, per non farmi vedere da nessuno. Se nessuno mi vedeva, nessuno si ricordava di me, e allora potevo stare in pace. Però, se mi vedevano, allora si ricordavano che il piccolo Frank è vivo ed esiste ancora e allora mi prendevano a calci finché non arrivava qualcuno e li fermava oppure finché non riuscivo a scappare, se non ero troppo confuso dalle botte.
“Durante il liceo ho cominciato anche a suonare la chitarra, e poi è diventato il mio passatempo preferito e alla fine era il mio sfogo. Lo è tutt’ora. A sedici anni ho scoperto che mia mamma aveva il cancro. Mi ricordo ancora il giorno in cui me lo disse. Ero appena tornato da scuola, e non mi avevano picchiato quel giorno, quindi ero piuttosto felice. Andai in cucina a salutarla, ma piangeva. Non l’avevo mai vista piangere, mai in tutta la mia vita. Le chiesi cosa aveva e mi abbracciò. Lei era tutto per me, mio padre non mi capiva e non parlavamo quasi mai, ma mia mamma era la mia vita. Fra le lacrime mi disse che aveva una forma incurabile di cancro.
“Mi sembrava assurdo. Non potevo credere che fosse vero, è davvero difficile immaginare che i nostri genitori muoiano, è come una cosa che il cervello non riesce a elaborare, e poi avevo sedici anni, ed ero un ragazzino insicuro, con mille problemi. Non ce l’avrei mai fatta senza di lei. Da quel giorno mi chiusi in camera mia e smisi anche di andare a scuola. Stavo dalla mattina alla sera a guardare fuori dalla finestra, e se ne avevo voglia, suonavo la chitarra. Mia madre stava sempre in ospedale e mio padre con lei. “Praticamente si dimenticarono della mia esistenza, e io facevo quello che volevo. Un anno dopo morì. Non andai al funerale, ci sarei stato troppo male, non versai nemmeno una lacrima, sono inutili e non servono a far tornare indietro le persone. Ero diventato una specie di vegetale, non facevo più nulla che non fosse andare in bagno e mangiare qualcosa per sopravvivere. Vivere con mio padre era un incubo. Ricomincia la scuola, anche se avevo perso quasi un anno. Dopo il liceo decisi di non continuare a studiare, mia madre avrebbe voluto, e forse anche io, ma lei non era lì con me, e non aveva senso fare nulla senza di lei. Così vagavo tutto il giorno per la città senza una meta, oppure stavo in casa, suonavo la chitarra e ascoltavo la musica così alta da diventare quasi sordo.
“Un giorno, durante la cena, mio padre mi disse che dovevo trovare un lavoro, ma io non volevo, mi andava bene vivere in quella maniera, alla giornata, e poi c’era lui che mi dava da magiare e un letto per dormire e a me bastava. Litigammo, e alla fine mi disse che se non avevo intenzione di fare nulla potevo anche andare a ‘fanculo. E più o meno è quello che feci. Preparai le valige con le poche cose che avevo e andai via di casa. E’ successo un anno fa. Sono venuto qua e ho cominciato a suonare la mia chitarra in quel sottopassaggio, vivo di elemosina, ma non mi vergogno, è la mia vita, non ci dovrebbe vergognare della propria vita.”
E questa era la mia storia.
Mi resi conto che per tutto il tempo avevo tenuto la testa bassa e non avevo mai guardato in faccia Gerard. Alzai il capo per vedere la sua reazione e notai che aveva gli occhi lucidi. Mi misi a piangere senza una ragione precisa, come fanno i bambini e affondai la testa nella spalla di Gerard. Non avevo mai pianto, né quando mi picchiavano, né quando era morta mia madre, ma in quel momento sentii la necessità di buttare tutto fuori, di sfogarmi. Avevo tenuto per troppo tempo tutto dentro e ora che tutte quelle emozioni minacciavano di scoppiare, finalmente trovai la forza di piangere sulla sua spalla. Perché ci vuole forza per dimostrare i propri sentimenti. Tutti pensano che le lacrime siano un segno di debolezza, ma capii che si sbagliavano di grosso, era tutto il contrario. Piangere è un segno di coraggio, dimostra che non hai paura di far vedere agli altri quello che sei, che nonostante tutto ci sei ancora e hai trovato la forza per andare avanti quando tutto sembrava perso.
Gerard mi abbracciò e mi tenne stretto a se accarezzandomi i capelli finché non mi calmai.
“Va tutto bene” mi disse. “Okay?” Annuii con poca convinzione.
Una voce proveniente dagli altoparlanti annunciò che lo zoo avrebbe chiuso da un momento all’altro, così ci alzammo dirigendoci verso l’uscita. Gerard mi teneva ancora stretto e io avevo ancora gli occhi pieni di lacrime, avrei voluto piangere ancora, ma decisi che avevo anche fatto troppo per quel giorno.
Erano più o meno le otto di sera e mentre camminavamo per strada, decidemmo di prenderci un hot-dog, avevamo entrambi fame, in particolare io.
Gerard capì che ero ancora scosso e mi accarezzò la testa. “Senti, ho un’idea.” Rivolsi tutta la mia attenzione su di lui. “Che ne dici se vieni a casa mia, e passi la notte da me? Non puoi stare sempre in quello schifo di galleria.”
In quel moneto tutta la tristezza che avevo accumulato raccontandogli la mia storia svanì e di slancio gli cinsi il collo con le braccia. “Davvero?” dissi tutto contento.
“Certo!” rispose lui.
Non mi importava nulla se era un mezzo sconosciuto e lo conoscevo da appena qualche giorno, non mi importava di niente, volevo solo averlo vicino.
Casa sua non era lontana da dove ci trovavamo, e dopo aver camminato poco più di venti minuti, arrivammo ad un palazzo di pochi piani. Salimmo le scale e si lui si fermò davanti ad una di quelle porte tutte uguali.
“Prego” mi fece. Entrai dentro e vidi che l’appartamento era piuttosto carino, anche se era davvero incasinato. Mi sedetti sul divano verde e lui mi imitò. Poi mi ricordai all’improvviso del regalo.
“Gerard” lo chiamai, “ti ho preso una cosa, per ringraziarti di tutto.” Non sapevo come farli capire che gli ero immensamente grato e che in nessun modo lo avrei ripagato di tutto quello che aveva fatto e che faceva per me, ma è il pensiero che conta, no?
Tirai fuori dalla custodia della chitarra lo scaccia sogni e glielo porsi.
“E’ uno scaccia sogni” spiegai. “Intrappola gli incubi e lascia passare solo i sogni belli. Lo devi appendere in camera.”
Lui lo prese dalle mie mani e mi sorrise. “Non dovevi.”
“E tu non dovevi ospitarmi a casa tua, eppure lo hai fatto.” Non avrebbe potuto ribattere in alcun modo alla mia affermazione. Mi abbracciò e mi lascio un bacio fra i capelli.
“Senti” cominciai, “sono stanco, preferirei dormire subito.”
“Certo. Ho solo un letto, prendilo pure tu, io dormo sul divano.”
Mi alzai di scatto. “Assolutamente no, dormo io sul divano!”
“Davvero Frank, per me fa lo stesso, dormi tu nel letto.”
“Insisto” così dicendo presi una coperta che era sul tavolino di fronte alla televisione. Poi feci cenno a Gerard di spostarsi un po’ più di lato sul divano e dopo essermi accoccolato sulla stoffa verde, mi buttai la coperta addosso.
Gerard ridacchiò per la mia testardaggine e rinunciò a convincermi di andare a dormire sul letto.
Poi si alzò. “Se hai bisogno di qualsiasi cosa, chiamami.”
“Va bene” annuii. “’Notte Gerard.”
“Buona notte Frank” rispose lui di rimando.
Mi tirai le coperte su fino al mento. Era da così tanto che non dormivo su qualcosa di morbido che mi sembrò di essere su una soffice nuvola. Dopo un po’ sentii che fuori cominciava a piovere e poi anche a tuonare. Il rumore della pioggia mi rilassava, ma mi impediva anche di dormire. Rimasi disteso sul divano a rigirarmi. Alla fine quella che una volta era la coperta era diventata una palla morbida. La riaprii e la ripiegai poggiandola sul tavolino dove era prima. Mi sedetti per terra con la schiena appoggiata al divano e chiusi gli occhi. Non sarei riuscito a dormire un secondo quella notte. Rivivere con Gerard tutti i momenti della mia vita da un lato mi aveva fatto bene, ma dall’altro anche male, perché il pensiero di mia madre mi tormentava e mi faceva stare davvero male. Era l’unica persona a cui avessi davvero voluto bene e l’avevo persa. Mi ero giurato che non mi sarei mai più affezionato a nessuno, e avevo infranto quella promessa. Se non hai nessun legame, non hai nulla da perdere, ed è tutto più semplice, ma anche terribilmente brutto e triste.
Ero così pensieroso che non sentii nemmeno Gerard che si sedeva vicino a me. “Non riesci a dormire?”
Scossi la testa. “Non riesco a smettere di pensare a mia mamma.”
Mi cinse le spalle con un braccio e io appoggiai la testa sulla sua spalla. Qualche lacrima minacciò di scendermi giù per le guance ma le asciugai in fretta.
“Non devi pensarci. Devi solo sapere che ti ha voluto più bene della sua stessa vita e che anche tu gliene volevi.”
“Lo so” mormorai. Ma era difficile.
La pioggia continuava a scendere e si sentiva ancora il rumore di qualche tuono.
“Senti” cominciò, “il mio letto è abbastanza grande per entrambi, se qui da solo non riesci a dormire puoi venire da me.”
Alzai la testa dalla sua spalla e lo guardai negli occhi, stupito della sua proposta.
“Sei sicuro?” gli chiesi. Non volevo essere invadente.
Annuì con convinzione e allora ci dirigemmo verso la sua camera. Era piccola, c’erano un letto a una piazza e mezzo e un armadio. Notai che aveva appeso lo scaccia sogni alla testata del letto.
Senza aspettare che mi dicesse nulla mi sdraiai sul materasso e mi infilai sotto le coperte blu, ero esausto, e il fatto che non ero riuscito a prendere sonno aveva peggiorato le cose.
Sentii un altro peso dall’altra parte, segno che anche Gerard si era disteso. Gli davo le spalle, e comunque non avevo intenzione di girarmi.
“Grazie” gli dissi sincero. “Ancora.”
“Non mi devi ringraziare, e se non riesci a dormire svegliami, ti prego.”
“Solo se lo farai anche tu” promisi.
“Va bene Frank, ma ora dormi.”
Non me lo feci ripetere due volte e rassicurato dalla presenza di Gerard accanto a me, finalmente mi addormentai.


La mattina fui svegliato dal profumo di caffè che si era sparso per tutta la casa e da un tenue luce che proveniva dalle finestre.
Constatai che Gerard si era già alzato da un po’, considerando che il suo lato del letto era già freddo.
Mi resi anche conto che avevo dormito completamente vestito.
Mi alzai lentamente e raggiunsi Gerard in cucina. Era seduto a tavola e stava bevendo quello penso fosse caffè da una tazza rossa.
“Buongiorno” feci.
Alzò la testa e mi sorrise. “Buongiorno.”
Posò la sua tazza sul tavolo e ne prese un’altra dalla credenza. Poi la riempì di caffè e me la porse, rimettendosi seduto. Mi accomodai sulla sedia che stava di fronte a lui e cominciai a sorseggiare la bevanda calda.
“Alla fine sei riuscito a dormire” commentò lui.
“Sì” dissi abbassando lo sguardo. Non è che la cosa di aver dormito nel suo stesso letto mi imbarazzasse, ma avevo come una sensazione strana che mi spinse a fare quel gesto.
Si sporse verso di me e mi sollevò il mento con una mano. “Frank, non ti devi preoccupare, non ce n’è ragione. Ci sono io adesso.” Mi sorrise rassicurante ed io ricambiai.
“Però non ti voglio disturbare. Sono stato qui anche troppo.” Mi alzai e feci per andare a prendere la mia chitarra e andarmene via, quando sentii la sua mano calda che mi teneva il polso sinistro. Non feci in tempo a voltarmi che lui mi aveva già attratto a se e mi stava baciando.
Okay, non mi ero nemmeno lontanamente immaginato una cosa del genere, e non sapevo nemmeno come reagire.
Le sue labbra erano calde e morbide e le premeva sulle mie come se fosse l’ultima cosa che faceva. Io ricambiai il bacio dolcemente e ne assaporai ogni secondo, ogni istante. Persi la cognizione del tempo. Non so per quanto ci baciammo, so solo che non avrei voluto che finisse mai. Quando le nostre labbra si scollarono, lo abbracciai e mi strinsi forte a lui. “Grazie” mormorai con la faccia poggiata sul suo petto.
“Penso di non aver mai sentito nessuno ringraziare per un bacio” fece ridendo.
Non so quante volte lo avevo ringraziato in quei giorni, sapevo solo che non sarebbero mai state sufficienti.
Rimanemmo per un po’ abbracciati, mentre lui mi accarezzava la schiena, poi mi staccai di mala voglia.
“Ora è meglio se vado” feci io non molto convinto. “Quando ci rivedremo?”
“Di solito il fine settimana vado dai miei” disse pensieroso.
“Okay” mormorai sconsolato mentre mi mettevo la chitarra a tracolla.
“Aspetta” mi chiamò. “Vivo da solo, non ho nessuno qui, mi farebbe piacere un po’ di compagnia.”
“Cosa intendi?” domandai speranzoso.
“Per me non è assolutamente un problema se ti trasferisci qui da me. Anzi, ne sarei davvero contento.”
Per un momento rimasi paralizzato, nel tentativo di capire se le parole che avevo sentito erano state pronunciate davvero, oppure se erano frutto della mia immaginazione. Dalla sua espressione capii che non mi ero immaginato nulla.
Gli saltai al collo e ripetei un centinaio di volte ‘sì sì sì sì’. Ero la persona più felice del mondo, prima il bacio e poi questa proposta. Non sapevo come reagire, al momento ero solo capace di abbracciarlo.
Alla fine riuscii a calmarmi e fra le risate, decisi che ora dovevo andare.
Mi disse che mi sarebbe venuto a prendere il lunedì, alle quattro precise, e poi la mia nuova vita sarebbe cominciata. Non so se sarei rimasto per sempre con lui, ‘sempre’ era un tempo davvero lungo, ma non mi spaventava l’eternità, e forse nemmeno la morte, forse perché ero venuto a contatto con disgrazie di questo tipo troppo presto e allora non mi spaventavo molto.
Comunque, presi la mia chitarra e tornai al mio angolino nel sottopassaggio della stazione.
Sapevo che quei due giorni di attesa prima di andare ad abitare da Gerard mi avrebbero ucciso, ma cercai di passare il tempo come meglio potevo. Tutto il sabato mattina lo passai sorridendo ai passanti che mi guardavano come fossi pazzo, ma io ero felice, ero felicissimo, e volevo che il mondo lo sapesse, volevo condividere la mia gioia con tutti.
Mi rendeva ancora più felice il fatto che avessi la sua giacca. Era ancora impregnata del suo profumo e se mi concentravo e chiudevo gli occhi lo potevo immaginare lì accanto a me.
Composi un altro pezzo, di cui andavo fierissimo, perché mi era davvero venuto bene, lo avrei fatto sentire a Gerard lunedì a casa, in quella accoglientissima casa che mi avrebbe ospitato.
Anche il pomeriggio lo passai come meglio potevo, dormicchiai un po’ e mi presi qualcosa da mangiare con i soldi che mi aveva dato Gerard quella mattina. Era davvero troppo gentile, non pensavo esistessero delle persone così buone.
Andai anche a far visita a quell’uomo che mi aveva dato lo scaccia sogni per Gerard. Era davvero simpatico se si sapeva prendere con le buone e rimasi molto con lui.
“E’ piaciuto il regalo al tuo amico?” mi chiese sorridendo.
“Sì, gli è piaciuto tantissimo. Grazie.”
“Di nulla, non ho fatto niente io.”
Gli sorrisi riconoscente e mi resi conto che era tardi, non c’era quasi nessuno.
L’uomo capì che stavo per andare e mi chiese di rimanere a fargli compagnia. “Certo.”
Parlammo del più e del meno, del tempo, di come era la vita là sotto, e cose assolutamente futili.
Non ci accorgemmo subito che da un po’ due uomini ci fissavano.
“Fa finta di nulla” mi rassicurò il vecchio. “Cercano solo di spaventarti.”
Annuii poco convinto, non mi piacevano per nulla.
Dopo poco quei due si avvicinarono, guardavano me. “Hei!” disse uno dei due. “Che ci fa un ragazzo qui, in questo posto, e con una giacca così bella addosso?”
Rimasi impietrito, non sapevo come comportarmi. In tutto il tempo che avevo vissuto lì, nessuno mi aveva mai dato fastidio, mi lasciavano vivere in pace e io gentilmente ricambiavo ma quei due non gli avevo mai visti e evidentemente non conoscevano la regola ‘vivi e lascia vivere’.
Non risposi alla loro provocazione e continuai a fare finta di nulla. Ma loro non si diedero per vinti, mi presero per il bavero della giacca e mi tirarono su da dove ero seduto.
“Ho detto” m’intimò uno dei due, “dove hai preso questa bella giacca?”
“E’ mia” riposi in tono di sfida, “e ho intenzione di tenerla.”
Qualsiasi cosa ma non la mia giacca, quella no!
Mi spinsero contro il muro. “Dammi la tua giacca!” mi ordinò uno.
“No!” dissi con voce ferma.
Quello più grosso tirò furi da non so dove una piccola pistola e me la fece appena intravedere. Rimasi impassibile.
Mi volevano solo spaventare, non avrebbero usato quell’arma solo per avere una giacca, non avrebbe avuto senso. Il loro scopo era unicamente quello di divertirsi vedendomi intrappolato e implorante di lasciarmi stare, non li avrei dato la soddisfazione e forse se ne sarebbero andati.
Quello grosso si fece avanti e mi strinse appena la gola, riuscivo ancora a respirare, ma mi sentivo lo stesso soffocare. Il vecchio ci guardava, non avrebbe potuto fare nulla per aiutarmi, eravamo solo io e quei due idioti.
“Questa è l’ultima volta che te lo chiedo con le buone, dammi la tua giacca!”
Non risposi e lanciai ad entrambi un’occhiata feroce. Cazzo, non li avrei dato la mia giacca nemmeno per tutto l’ora del mondo!
“Bene” fece quello grosso tirando fuori la pistola, “allora dovremo passare alle brutte.”
I due si guardarono e risero, divertiti. Io approfittai del loro momento di distrazione e sguscia accanto a loro. Cominciai a correre e loro presero a seguirmi, non volevano davvero mollare. Non potevo andare molto lontano, e presi a girare in tondo per il sottopassaggio. Ad un certo punto scivolai su qualcosa che non ebbi il tempo di decifrare, quando sentii uno sparo. Mi ero sbagliato, avevo intenzione di usare quell’arma. Mi alzi il più in fretta possibile, ma appena fui in piedi sentii una fitta alla gamba, e dopo qualche secondo, una mille volte più forte alla schiena. Mi accasciai sul pavimento sporco.
Mi sentivo come se fossi in fiamme, vedevo sfocato e non riuscivo a pensare lucidamente. Con la coda dell’occhio vidi i due uomini che si avvicinavano e si rendevano conto della cazzata che avevano fatto. Mi diedero un’ultima occhiata e poi scapparono. Codardi!
Sentii dei passi che si avvicinavano, ma non ebbi la forza di voltare la testa per vedere chi fosse, poi nel mio campo visivo comparve il vecchio. Aveva il volto preoccupato e non aveva la minima idea di che cosa fare. Non avevamo un telefono per chiamare un’ambulanza e l’unica cosa da fare era aspettare qualcuno e chiedere un cellulare.
Si sedette vicino a me e cercò di tranquillizzarmi.
Con le poche forze che avevo, riuscii a borbottare qualcosa all’uomo mentre sputavo sangue. “Lunedì, alle quattro” la mia voce era appena un sussurro, ma lui sembrava capire, “all’orologio gigante, il mio amico. Per favore, dagli le mie cose.”
L’uomo annuì vigorosamente. Ovviamente sapevamo entrambi che non ce l’avrei fatta.
Dopo un po’ capii che accanto a me stavano succedendo molte cose, ma non capii cosa. Forse c’era un’ambulanza, o forse erano tornati quei due imbecilli.
Cominciai a pensare a Gerard, sentivo ancora il suo odore sulla giacca. Be’, almeno l’avevo ancora.
La vita è troppo crudele e può scivolarti fra le dita quando meno te lo aspetti, quando tutto può sembrare perfetto e sei in paradiso.
Con la poca sensibilità che mi rimaneva, sentii un formicolio sulla guancia destra, una lacrima, molto probabilmente l’ultima che avrei versato. Ma non piangevo per il dolore, non sentivo praticamente nulla ormai, e nemmeno perché sarei morto, piangevo per Gerard, perché non sarei potuto stare con lui ancora, e perché sapevo che anche io ero importante per lui. Ci sono persone che non hai bisogno di conoscere da una vita per amarle, ti basta un attimo, uno sguardo, o una parola, per capire che quella persona sarà per sempre lì con te, qualunque cosa accada. Se avessi potuto esprimere un ultimo desiderio, sarebbe stato quello di poter dire addio a Gerard, ma forse pensandoci bene l’arrivederci che ci eravamo scambiati quella mattina, era più adatto. Perché di fronte a chi si ama, non esiste l’addio, ma solo la promessa di stare insieme.
Comunque non avevo rimpianti. Ero felice di aver vissuto la mia vita in quella maniera, la cosa di cui andavo più fiero era stata la scelta di vivere da barbone, perché altrimenti non avrei mai conosciuto chi mi avrebbe salvato dal buio e dalle tenebre. Perché alla fine era questo, quello che aveva fatto Gerard, non so se consciamente o senza volerlo, ma il risultato era stato questo, mi aveva fatto capire che la vita può essere meravigliosa, che è preziosa e che non ne va sprecato nemmeno un secondo, perché è fragile e lui lo sapeva.
Quell’unico bacio era stato la prova che niente è mai perso e che c’è sempre il modo di riscattarsi.
Mi rividi con lui, su quella panchina dello zoo, mentre piangevo e lui mi stringeva a se.
Ero attraversato da mille sentimenti, come i mille colori dei suoi occhi. Ero arrabbiato, triste, ma anche felice e sereno. Mi stupii quando capii che non avevo paura, ma forse era così che dovevano andare le cose.
Ripresi per un attimo coscienza e capii che l’ambulanza era arrivata e che mi stavano prestando i primi soccorsi. Con uno sforzo immenso voltai la testa e accanto a me vidi un’enorme pozza di sangue, la vista mi diede la nausea e chiusi gli occhi. Sentii delle braccia che mi caricavano su una barella, e ritentai di aprire gli occhi, vidi quell’odioso e gigante orologio, erano le quattro in punto di notte.


 
***


Finalmente lunedì era arrivato. Il fine settimana dai miei era stato piuttosto noioso, come sempre, ma non avevo raccontato loro nulla dei miei ultimi giorni, non avrebbero approvato.
Il lunedì mattina al lavoro ero stato completamente distratto e quando fu l’ora di uscire andai di corsa alla stazione, presi il treno e aspettai con ansia di arrivare a destinazione.
Quando una voce femminile annunciò che ero arrivato mi fiondai alle porte e corsi verso il sottopassaggio.
Non mi ero pentito nemmeno per un secondo di aver chiesto di venire ad abitare da me a Frank, era la cosa giusta da fare, lui non poteva stare per sempre in quello schifo e io avevo bisogno della sua presenza in casa mia.
Mentre correvo, diedi un’occhiata all’orologio gigante. Erano le quattro esatte. Perfetto!
Arrivai all’angolino in cui stava sempre Frank, ma con mia grande sorpresa non c’era, anche la sua roba non era lì. Mi guardai intorno per vedere se per caso mi stesse aspettando a sedere da qualche altra parte, ma niente.
Notai uno strano vecchio seduto sotto l’orologio, e mi avvicinai per chiedere informazioni.
“Scusi” feci, “sa per caso dove è il ragazzo che suona sempre la chitarra in quell’angolo là?”
L’uomo alzò la testa. “Oh, sei tu.”
Mi porse una mano e lo aiutai a rialzarsi. Poi lui andò a prendere qualcosa da dietro un cestino che minacciava di scoppiare. Lo vidi ricomparire con in mano la chitarra di Frank nella sua custodia. Cosa…?
Mi diede la chitarra e io la presi, incapace di chiedere spiegazioni, comunque la mia faccia diceva tutto.
“Voleva che l’avessi tu.” Cosa cazzo era successo?
“Perché?” fu l’unica parola che riuscii a pronunciare.
“Sabato sera due uomini lo hanno aggredito per avere la sua giacca nuova. Frank è riuscito a scappare, ma poi l’hanno seguito, per fargli paura hanno sparato qualche colpo con la pistola, ma sono riusciti a prenderlo. Non ce l’ha fatta.”
Rimasi imbambolato. Frank. Riuscivo solo a pensare a quello.
“Mi dispiace tanto, era un ragazzo fantastico” e così dicendo se ne andò, lasciandomi solo.
Mi misi la chitarra a tracolla e presi a camminare come un robot per arrivare a casa.
Aprii la porta con calma, entrai in casa e poggiai delicatamente la chitarra di Frank sul divano.
Mi resi conto in quell’istante preciso di quello che era accaduto mentre io mi annoiavo dai miei.
Scaraventai il tavolino davanti alla televisione verso quest’ultima, che cadde con un tonfo sordo. Poi andai in cucina e con tutta la forza che avevo, presi due sedie e le gettai contro la porta finestra mandando il vetro in frantumi. Aprii anche la credenza con l’intento di distruggere il più cose possibile, ma poi lo sguardo mi cadde sul lavello. C’era ancora la tazza da cui aveva bevuto Frank.
Scoppiai a piangere e mi lascia scivolare per terra. Dopo un po’ finii le lacrime e tutto quello che riuscii a fare era singhiozzare, finché la gola non cominciò a bruciarmi.
Trovai la forza per alzarmi.
No, non era possibile che Frank fosse morto, no, non aveva senso. Perché doveva morire lui? Non poteva essere ammazzato quel coglione del mio vicino o la commessa del supermercato? Tutti, ma Frank no! Era la creatura più innocente che avessi mai conosciuto, non meritava di morire! Perché quei bastardi che gli avevano sparato non avevano preso me al suo posto? Io avrei meritato di morire, non lui! Io meritavo di morire! Era tutta colpa mia se Frank era morto! Quei due lo avevano aggredito perché addosso aveva la mia giacca, e io non ero lì a proteggerlo!
Presi dalla credenza un coltello, quelli che di solito si usa per la carne. Poi andai in salotto e dopo aver spostato la chitarra di Frank mi sedetti. Portai il braccio sinistro di fronte a me e vi poggia la lama del coltello. Io dovevo morire, era tutta colpa mia, tutta mia. Non meritavo di continuare a vivere.
Presi un respiro profondo e passai con forza la lama sull’avambraccio. Per un attimo non sentii nulla, poi un bruciore mi attraversò la ferita, rabbrividii e per un attimo il coltello sfuggì al mio controllo e quando guardai, vidi che il taglio era molto più profondo del previsto ed era slabbrato. Bruciava da morire. Me ne procurai un altro sopra il primo e quando il dolore fu insopportabile lasciai cadere per terra il coltello rosso di sangue.
Il mio braccio era completamente rosso e lo stava diventando anche il divano che una volta era verde.
Forse avevo fatto una cazzata, o forse no. Non so se Frank avrebbe approvato questa cosa, ma io mi sentivo vuoto, dentro di me non c’era più nulla, né la tristezza né la rabbia che avevo provato poco prima.
Ricominciai a piangere, e le lacrime si confusero con il sangue sul mio braccio, o forse semplicemente stavo piangendo sangue.
Gettai un’occhiata alla chitarra di Frank e poi presi il telefono che avevo in tasca. Digitai il 911 e aspettai che qualcuno rispondesse. “Pronto, chi parla?” fece una voce dall’altra parte.
“Sono Gerard Way, ho bisogno di un’ambulanza.”
“Va bene, mi dia l’indirizzo.”
Riuscii a borbottare il mio indirizzo fra le lacrime, senza specificare che l’ambulanza era per me.
Rimisi l’apparecchio in tasca e ripresi il coltello da terra. Lo impugnai con la sinistra e distesi per bene il braccio destro. Non ero mancino e avrei sicuramente fatto casino.
Premei il coltello sulla pelle chiara, questa volta il taglio lo feci per lungo, andando dal polso all’incavo del gomito. Era profondo. La ferita sembrava un fiume in piena a cui si erano rotti gli argini, ma invece di acqua c’era solo tanto sangue.
Abbandonai la testa allo schienale e aspettai. Avevo chiamato l’ambulanza, ma cercavo ancora di capire se volevo che arrivasse in tempo o no. Forse era già troppo tardi.
Sentivo che di lì a poco avrei perso i sensi.
Pensai a Frank. Era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, alle sue labbra morbide al suo viso perfetto.
Chiusi gli occhi e prima di svenire riuscii a pronunciare due ultime parole, rivolte e a Frank.
“Ti amo.”


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