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Autore: silencio    01/10/2013    0 recensioni
Alle belle dee che siedono sul monte Elicona dedico il canto. Levo la prece e la cetra depongo ai piedi in attesa dei loro favori, sì che versino nel mio orecchio le voci di quegli spiriti dolenti la cui sorte nel mondo fu avversa, e avverso l'animo. Non di eroi, ma dei vinti io reco le storie, di quanti soffersero e mali portarono sulla vasta terra che oltre lo sguardo si stende. Di belve e orrori, terribili a vedersi.
Muse dal candido piede, che al Cronide dedicate e danzi e cori, compagne d'aedi e di sovrani vincitori, di bende il mio capo avvolgete ed un ramo d'alloro donatemi così che la vostra arte io tenga senza fallo e onta al vostro nome.
La presente altri non è che una modesta raccolta di racconti brevi e storie autoconclusive (one-shot) ispirate ai miti greci, in particolare alle figure mostruose che li popolano. A mio modo intendo rivisitarle, cercando d'osservare le cose sotto luci nuove.
(Ho cambiato il titolo alla storia, sì che fosse più confacente ai racconti in essa presenti che, come al solito, si scrivono piuttosto autonomamente e non seguono i dettami originali)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Giardino delle Esperidi

 

 

"Questa era mortale, immortali e di vecchiaia ignare le altre due; ma con essa sola si giacque l'Azzurrocrinito nel molle prato e tra i fiori di primavera"
(Esiodo, Teogonia.) 

Se mai qualcuno mi domandasse qual sia della mia dimora il luogo che maggiormente prediligo, risponderei senza indugio né perplessità alcuna ch’esso è il giardino.
La mia casa ha un giardino bellissimo.
Non semplice impresa è descriverlo, credete a me, e assai più per la sottoscritta: son fanciulla un po’ rozza, a stento so scrivere. 
Esso s’estende per diversi stadi tutt’in torno all’abitazione, tanto che il prendermene cura mi risulta a tratti faticoso. Ahimè, le mie due sorelle stan sempre in casa, sepolte in quel labirinto di stanze, pozzi, guglie e corridoi. Non escono mai. Il sole è fastidioso, lamentano di giorno. La notte è fatta per dormire, dicono all’imbrunire. Così mi ritrovo da sola a curarmi del giardino, ma non me ne dispiaccio. La solitudine è bella, se te la fai amica.
Passeggi lastricati, sentieri in terra battuta si snodano e si districano fra i piani del giardino, sorgono scale d’oro come fonti fra i cespugli di verbena. I palmizi si piegano ad ogni ingresso in pacifica riverenza ai visitatori… quelle rare volte che giungono qui. Vi son rose sanguigne e gonfie, prati di viole, nespoli dolci. Il melo sta accanto all’arancio e l’uva rosseggia in robusti grappoli. I gigli si levano dal suolo verso il cielo. Le ninfee popolano gli stagni e i corsi d’acqua. Non v’è differenza fra l’interno e l’esterno della casa. L’esterno è pieno, l’interno è vuoto. L’Architetto –chiunque egli fosse- mise tutta la maestria di cui disponeva nell’erigere questa dimora degna degli Olimpi, di Zeus in persona. Forse che Dedalo prese spunto dalla mia casa per costruire il suo famoso Labyrinthos e Semiramide, ammaliata dal mio giardino, ne volle uno simile per sé a Babilonia? Meraviglia fra le meraviglie è il mio giardino. Esso è tutto per me ed io sono tutta per lui.
Di quando in quando mi diletto nel cogliere papaveri. Ne crescono in abbondanza ovunque qui. Sono i miei fiori preferiti: con delicatezza separo lo stelo dalla radice e fra loro li intreccio a formar ghirlande rosse e gialle. Così semplici e così delicati, basta uno scossone leggero per privarli dei petali.
Altre volte mi metto a discorrere con le statue. Ve ne sono tantissime, ad ogni angolo. Non conosco lo scultore, ma l’arte è in lui come mai in nessun altro. Di sicuro è figlio di qualche Musa o forse è uno dei bastardi di Efesto… o magari –e gli Immortali perdonino la mia sfrontatezza- è lo stesso Fabbro a donarcele. Sono così ben fatte da parer vere. Tutte diverse, non solo di forma, ma d’aspetto. Indiani, elleni, italici, celti, egizi. Da tutto il mondo uomini, donne e qualche bimbo, in pose svariate. La sola cosa che li accomuna è l’espressione. Sempre la stessa, un frammisto di stupore e paura. Non so perché lo Scultore Ignoto abbia una simile predilezione.  Tal volta, come dicevo, mi diletto a parlar con loro, fingere che siano ospiti. Li saluto, gli racconto delle mie giornate, del mio giardino. Soprattutto del giardino. Loro ascoltano, fanno domande, si complimentano e a fine giornata ci salutiamo.
Non mi serve il paradiso; vi abito già.
Ma io non sono –e mai lo si dica!- una padrona gelosa.
Il giardino non ha mura né cinzioni. Nessun cancello, alcun accesso occluso. D’ogne dove i viandanti possono penetrarvi e non troverebbero ostacolo o guardiano che li respinga. La mia natura è gentile e non arcigna, non rifiuta l’ospitalità, invece gradisce la compagnia.
Mi incuriosiscono le altre persone e trovo possano dar adito a notevoli è assai profonde riflessioni. Credo che siano simili a degli specchi sulla cui superficie possiamo cogliere il riflesso delle nostre qualità ovvero delle nostre mancanze. E qual migliore specchio degli occhi? Adoro contemplarli, colorati, lucenti, sfuggevoli, contornati dalle ciglia. Amo vedere il mio riflesso nei loro sguardi e fissare la mia reale beltà.
Ed ora, mio buon Testimone, che tanto solertemente raccogli la mia storia, ascrivi col solco della penna nel libro granitico della memoria queste parole, falle tue, recitale al mattino appena sveglio ed alla sera prima di stenderti per il riposo: nei tuoi occhi, o uomo, io scorgo l’Altra me stessa, non celata dietro idoli o maschere gorgonee; quella che ero, che sono e che poi sarò. Io sono in te e tu in me, tu ed io siamo uguali. La Bellezza ci unisce. 
Ti prego, non ridere di me e non prendermi per sciocca. Non sono filosofa e so che non posso competere con siffatti uomini illustri. Ma non si può evitare di pensare quando si è soli…
Sebbene non ponga ostacoli e l’accesso alla casa sia libero, son rade le visite. Poche anime disgraziate bussano al mio uscio. La mia tavola non ha mai accolto più di tre persone: me e le mie due sorelle. Loro non sembrano crucciarsene. Amano questo eremitaggio cui il Fato ci ha costrette. Non io però. Ho tanto desiderio di chiacchierare con qualcuno, rivelare tutti i miei pensieri ad una persona. Ne basterebbe una per colmare i miei vuoti.
Ti confesserò un segreto, un sogno che il mio cuore custodisce, col rischio di passar per fanciulla scioccherella e pretenziosa, ma non resisto. Sei il primo con cui parlo dopo molto tempo. L’Amore è il mio desiderio. Oh Dio solo sa quanto brami l’esser amata da un uomo, sentirne l’abbraccio cintarmi i fianchi, le labbra morbide schiudersi alla più alta delle dolcezze. La peggiore delle droghe è l’amore per un uomo: una volta provato, non puoi più farne a meno.
Eppur non sono estranea a questo mondo di delizie. Una sola volta lo saggiai, non ricordo quanti anni or sono trascorsi da allora.
Sorgeva dal mare, Lui. Bello come il riflesso del sole sull’onda, rifulgeva di quegli stessi bagliori. Corpo possente e flessuoso al tempo, sguardo rapace simile a quello di certe aquile marine, riccioli stillanti la sua chioma.
Il corpo nudo mi si accostò ardente più che il fuoco. Vibrava come corda tesa di lira, ed io con lui.
Il timore che provai più non lo rammento, ma fu molto. Ed altro mi sorse in petto gonfiando i miei seni in accese palpitazioni.
Egli mi prese per un braccio; e che forza v’era in quella stretta, quanto ardore e quanta urgenza!
Corremmo sulla spiaggia mentre i flutti quasi si ritraevano al nostro passaggio e non mi bagnarono le vesti. Un prodigio!
Nel Tempio mi fece sua sposa.
Fu come fare l’amore col mare, l’oceano in persona mi sovrastava in terribili cavalloni. La furia del maremoto avea in corpo il Giovane. Mi sconvolse. I suoi baci bruciavano laddove si posavano. Provai la violenza dei marosi contro lo scoglio, la dolcezza spumeggiante delle onde che cullano. Fu piovra, fu gabbiano. Fu tutte le cose che il mare popolano, sopra e sotto quella superficie specchiante. Ed io vi annegai alla fine.
Con impeto principiò, ma tutto divenne cheto. La quiete dopo la tempesta.
Mi abbracciò con parole affettuose e vezzose promesse d’amore. «Bellissima» mi diceva. «Ammaliatrice. Hai capelli di seta. Il tuo profumo inebria come il vino.»
A fatica recuperai la voce e un po’ d’ardimento. Gli chiesi cosa gli piacesse di me. «I tuoi occhi. Mi pietrificano» rispose.
Così cullata m’addormentai. Non lo rividi più. 

«La troppa bellezza induce al peccato. L’amore illecito reclama castigo. Nessun uomo mai più s’accosti a te illeso. Tanto affascina il tuo sguardo da lasciare gelati.» 

Una ragazza un po’ gelosa mi prese in odio. A me non importò. La perdonai.
Scelsi la solitudine. La solitudine mi fu imposta. Eppur quanto mi pesa. Son sempre una donna e temo a star sola, senza protezione alcuna.
Te lo dico in un bisbiglio poiché non voglio che qualche orecchio inopportuno possa udirmi: questa casa è strana e più volte m’è parso d’essere osservata da qualcuno. Non vi sono specchi né vetri né argenteria. Tutto è in pietra o legno; par quasi di vivere in un vasto mausoleo. La casa dei morti… per questo m’è in odio trascorrervi del tempo. Quivi, lo dirò francamente, non mancano i misteri e gli orridi segreti, come quello che sto per raccontarti.
Nel mio giardino c’è un posto dove non vado mai, ho paura a mettervi piedi.
È accaduto tutto un giorno. Sul lato est si trova una fonte dalla quale si diparte un ruscelletto che serpeggia lungo metà del giardino e alimenta quasi tutte le fontane. Quel dì faceva molto caldo e colta da sete improvvisa m’ero chinata alla sorgente per bere un po’ d’acqua quando lo vidi… un mostro terribile. Cielo, tremo al solo ricordo. I miei incubi mai prima furono popolati da creature sì tanto immonde.
Aveva due grandi occhi a mandorla e la pelle scura, come le genti che popolano la Libia e l’Egitto pietroso. Una bocca larga e ghignante da cui sporgevano ritorte zanne di cinghiale e una grassa lingua rossa penzolava floscia. I capelli poi… o Dio salvami! Chiome brulicanti di viscidi serpenti. Bestie orribili che fra tutte più aborro.
Se ne stava lì, immobile nell’acqua a fissarmi, faccia a faccia. E mi guardava la creatura, sebbene dapprima sorridente e quasi felice all’apparenza –forse gioiva ella della sua stessa mostruosità?- , nello scorgermi sembrò stupirsi. Io, intimorita, non osai guardare oltre. Fuggii urlando e piangendo. Le mie sorelle mi consolarono; Euriale dice che non devo preoccuparmi, che non avrebbe mai potuto farmi del male. Steno dice che sono pazza. Steno ed io non siamo mai andate molto d’accordo, è sempre così rude e volgare!
Prego tutti i giorni gli Olimpi perché non abbia mai più a rivedere quella spaventosa figura. Alla sera, quando m’addormento e sogno di lei, mi sveglio ansimante e madida di sudore. Subito in ginocchio rivolgo preci accorate ai Numi perché il male allontanino da me. Fin’oggi mai nulla m’è accaduto; gli Dèi mi ascoltano.
Ecco, il sole sta calando. È meglio che vada.
Grazie per avermi ascoltata con sì fatta attenzione. In eterno te ne sarò grata.
Adesso il giaciglio e il sonno mi attendono… e chissà, magari sognerò del più bel giovane del mondo, un nobile guerriero, alto e vigoroso che verrà a salvarmi da questa solitudine. Brandirà la spada lucente e in un sol colpo ucciderà il mostro del giardino. Egli sarà il mio liberatore.
Vieni, ti aspetto con impazienza, in cambio il mio cuore ed il mio sguardo saranno tuoi… per sempre. 

E Perseo, figlio di Zeus, armato di spada, dal collo recise la testa della gorgone Medusa che gli uomini agghiaccia con lo sguardo, mentr’ella dormiva nel suo profumato Giardino delle Esperidi.  

 

 

   
 
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